domenica 25 dicembre 2022

Una notte violenta e silenziosa (2022)

Un Babbo Natale, tra i tanti in giro nel periodo delle feste, si aggrappa stancamente al bancone di un bar mentre sorseggia senza convinzione una birra annacquata emettendo qualche rutto. Uno scambio di battute con un "collega" e poi riprende a lavorare. C'è però una piccola differenza tra lui e gli altri. Lui è quello vero. E pur essendo demotivato e del tutto disinteressato al suo ruolo, continua a girare case e lasciare regali. E' proprio mentre si trova in una casa di milionari, isolata dalle altre, dopo l'ennesimo cicchetto, che si addormenta profondamente fino a quando dei forti rumori lo svegliano di soprassalto. Intrappolato in uno scenario di guerriglia, dovrà tornare a vestire i  panni del violento guerriero che fu.

Davvero, quando si dice il caso. Qualche settimana dopo aver visto The trip su Netflix vado al cinema per questo Una notte violenta e silenziosa e solo con il consueto approfondimento post-visione scopro che dietro la mdp c'è lo stesso regista, Tommy Wirkola, del violento showdown norvegese. E in effetti, ormai, la mano del regista è riconoscibilissima attraverso la messa in scena di una violenza esagerata, grottesca, splatter e, va da se, divertentissima. 
E se è così, indubbiamente il merito va attribuito per larga parte al protagonista David Harbour, una vita da caratterista fino all'exploit di Stranger things e finalmente anche il giusto riconoscimento del cinema (ruoli importanti in Black Widow - con un personaggio "parente" di questo Santa Claus - e No sudden move). Al contrario il villain  John Leguizamo mi è parso davvero appesantito e fuori giri, senza comunque che questo abbia inficiato sul divertimento complessivo nel film.

Insomma, avevamo già cinematograficamente assistito alle gesta di babbinatale ladri, assassini, sconci e pervertiti, ma mai uno che, utilizzi uno spietato bagno di sangue per riconciliare anche i più cinici al vero significato del Natale. 

Altro che i cinepanettoni, questo è il miglior digestivo post pranzi/cenoni delle feste. E pazienza se non toccherete più un candy cane in vita vostra.

Al cinema. 

lunedì 19 dicembre 2022

Little Steven, Revolution (1989)

Nonostante per Little Steven valga la metafora di una vita da mediano, la sua produzione discografica non ha nulla da invidiare ai top player. Soul, rhythm and blues, classic rock, reggae, latin, imbullonati negli anni ottanta con un piglio da "protest song" caustico nei confronti degli USA e della loro politica imperialista. A chiudere quel decennio arriva, inaspettata, la svolta stilistica con Revolution, album votato ad un funk elettronico debitore di Prince, ricco di campionamenti (la strato di Steve, e in generale ogni traccia di strumento tradizionale, compare solo in un brano, Discipline) che è un manifesto politico devastante nei confronti del Sistema americano. Ogni singola traccia oltre a tirare altre badilate in faccia all'establishment USA, affronta temi quali l'alienazione, la deriva dell'informazione, la religione. Spiccano la title track, Where do we go from here, Leonard Peltier, Education, Liberation theology, ma data la particolare natura, il progetto va preso in blocco. Un lavoro che alle mie orecchie suona più convincente oggi che trent'anni fa. Di sicuro il disco che un certo Boss ha accarezzato (qua e là ci sono tracce del petting di Bruce con l'elettronica) ma non ha avuto il coraggio di fare. 

lunedì 12 dicembre 2022

Gangs of London, stagioni 1(2020) e 2 (2022)



Londra è (era?) la capitale europea della finanza, ma anche il cuore pulsante di speculatori, associazioni criminali internazionali e traffici sporchi di ogni tipo. Il tutto, a chi ci si arrischia, promette potere e ricchezza oltre qualunque immaginazione. In questo scenario, il delicato equilibrio tra le varie "cupole" della città viene rotto dall'omicidio di Finn Wallace, capo dell'omonima famiglia, che tiene le fila tra i clan e gestisce in esclusiva i rapporti con gli "investitori", in cima alla piramide di tutti gli affari, leciti ed illeciti, della City. Con il passaggio dei poteri al figlio di Finn, Sean, considerato non all'altezza del padre, oltre che un istintivo e un violento, l'equilibrio si spezza e si scatena la lotta per il potere dentro e fuori la famiglia Wallace.

Non mi ha conquistato immediatamente, Gangs of London, anzi devo ammettere che i primi episodi mi sono sembrati eccessivamente iperbolici, quasi da videogioco, il che può andare bene per determinati generi ma, pensavo, non per il crime. 
Col trascorrere degli episodi e, soprattutto con un finale di stagione (la prima) vertiginoso, mi sono completamente ricreduto e ho cominciato a sperare in una seconda stagione, che si è fatta attendere un paio d'anni, ma che alla fine ha ripagato ogni giorno di attesa, facendo deflagrare la storia in un bagno di sangue ancora più grande, in un ulteriore saldatura con i temi shakespeariani di famiglia e vendetta, e colpi di scena a ripetizione. 

Sono tante le influenze della serie, di sicuro anche quelle con le prime stagioni della nostra Gomorra, ma più guardavo Gangs of London e più ci vedevo analogie con i gangster movie asiatici attraverso scelte narrativo-stilistiche quali un'ultra-violenza che sfocia nel sadismo e, su tutto, l'assenza di una dicotomia assoluta tra bene e male: ogni spettatore sceglie per chi tifare tra i tanti personaggi che affollano la storia, nella consapevolezza che sono comunque, per ragioni diverse, tutti marci e corrotti, se non dalla fame di potere, da quella di rivalsa personale o vendetta. Quando finalmente ho dato una scorsa agli autori dietro al soggetto, la mia percezione ha trovato clamoroso riscontro: dietro al progetto (saltuariamente anche dietro la mdp) c'è infatti il mitico Gareth Evans, deus ex machina della saga thailandese The Raid, due film che rappresentano la migliore sintesi oggi possibile dell'action movie. 

Il cast, al netto del grandissimo irlandese Colm Meaney (Finn Wallace) e di Michelle Fairley (la moglie Marion, ce la  ricordiamo come miss Stark nel Trono di spade), è ottimamente composto di volti (a me) poco noti e caratteristi che fanno tutti un figurone, con una menzione d'onore per Sean Wallace, l'erede al trono, per cui il casting ha trovato la faccia perfetta in Joe Cole (Peaky Blinders).

Quando una serie crime, una gangster story, è costruita e messa in scena in maniera così avvincente, tesa, angosciante (guarda l'episodio 2X6 e poi ne riparliamo) e violenta, anche colpi di scena discutibili, come quello cardine della stagione due, trovano una loro giustificazione e sono quasi coerenti, hanno ragion d'essere nel contesto generale. Impossibile poi, non tornare fanboy ed attendere con impazienza la terza stagione dopo il cliffhanger che chiude la due.

Per gli orfani di quando Gomorra era una grande serie, per gli amanti del crime, dell'action, dell'horror/splatter e degli yakuza movie, una serie da non perdere per nessuna ragione al mondo.

Su Sky e Now




lunedì 5 dicembre 2022

Eric Clapton, 461 Boulevard (1974)

Ah! I dischi post-rehab delle rockstar! La ricorrente narrazione della sobrietà, del ritorno alla natura e alle cose semplici, financo al lavoro manuale (sebbene il tentativo di sfuggirgli sia stata la ragione primaria per cui, da giovani, avevano imbracciato uno strumento). Il ritorno di Eric Clapton nel 1974, dopo una iato di quattro anni infarcita di eroina e junk food, ebbe perlomeno due vantaggi: 1) fa giurisprudenza per tutti i comeback post stravizi a venire e, soprattutto, 2) contiene grande musica. Dieci pezzi, per gli allora canonici tre quarti d'ora di durata, di cui solo tre originali e composti da Slowhand, tra il midtempo e il lento (Give me strenght; Get ready e Let it grow), dopodichè: una partenza al fulmicotone (il traditional Motherless children, rivoltato come un calzino), omaggi blues a Wille Dixon (I can't hold out) e Robert Johnson (Ready rollin' man). Ultimo ma non ultimo la cover di un emergente artista jamaicano che proprio non convinceva Eric, ma che su insistenza dei producer fu inserita, e che, ovviamente, divenne uno dei più grandi successi del disco. Si trattava di I shot the sheriff di Bob Marley.

Nella foto l'edizione deluxe doppio cd del 2004

lunedì 28 novembre 2022

Movielist #5 (2008/2012)

C'è stata un'epoca, fino a circa una decina d'anni fa, in cui i blog avevano un ruolo centrale nel dibattito, nella socialità, nella condivisione di idee della rete. Oggi siamo rimasti davvero pochi a continuare ad utilizzare questo tipo di piattaforma, superata e poco performante sugli smartphone, e forse sono l'unico a farlo in forma esclusiva, cioè senza avere altri social (al momento, vuoi per pigrizia o per la mia nota abitudinarietà, continua a piacermi così e non sento il bisogno di "allargarmi"). Tornando a bomba. Tra i tanti "challange" che giravano per queste piattaforme, avevo partecipato, su impulso di un blog, Il cinema spiccio, che nel frattempo è stato chiuso, ad una che proponeva ai partecipanti di compilare una lista con i migliori film di sempre, scegliendone uno per ogni anno, a partire dal proprio di nascita. Io avevo diviso le mie scelte per decenni, con un ultimo post nel 2014, riguardante il periodo 1998/2007 (a margine del post tutti i link). La cosa mi è tornata in mente e ho deciso di dargli un seguito, visto che nel frattempo, ahimè, mi si è aperta un'altra finestra di dieci anni pieni da poter valutare. 

Rileggendo le quattro puntate precedenti mi sono accorto che, negli ultimi cinque sei anni, con la ritrovata passione per il cinema, filtrata anche da occhi diversi, non più solo attenti alla storia, ma magari anche agli aspetti tecnici (messa in scena, fotografia, montaggio, regia) , se dovessi riscrivere da capo i miei preferiti, in più di un caso sarebbero diversi da quelli citati e sicuramente sarebbero molte di più le pellicole prese in considerazione. La ragione principale è che ho recuperato molti film all'epoca non visti e diversi di essi sono davvero meritevoli. Niente paura, non replicherò i periodi già coperti, così sono e tali restano, a testimoniare (a me stesso) come approcci, valutazioni e gusti possano cambiare nel tempo. Nel proseguire (solitariamente) nel gioco ho però ho apportato alcune modifiche: 1- il numero dei film da cui attingere, anno per anno, è aumentato in misura esponenziale, per cui i film citati assieme al vincitore in alcuni anni saranno numerosi. Per la stessa ragione divido in due il decennio 2008-2017, in modo da avere due periodi da cinque anni e, a breve, poter postare anche il terzo, senza dover aspettare il 2028, che chissà se sarò ancora qui col mio blogghettino della minchia, totalmente dèmodè. 

2008

Ho selezionato abbastanza agevolmente quattordici titoli. Un buon anno, ma ce ne saranno di ben più pregni. Mi sono piaciuti: Bronson; Frost/Nixon; Gran Torino; The hurt locker; Iron Man; The wrestler; Gomorra; Nemico pubblico 1 e 2; Il divo; Giù al nord; Louise Michel. Indeciso per il preferito tra The chaser e Wall-E, e scegliendo di non usare l'ex aequo, lascio prevalere di misura l'agghiacciante pellicola sudcoreana sul capolavoro Disney/Pixar.

2009

Anche in questo caso, al netto di dimenticanze e refusi, lista abbastanza agevole da smazzare, che comprende il mega colossal di Cameron, Avatar (forse ci siamo per il sequel); l'ultimo horror (e ultimo film davvero suo?) di Raimi: Drag me to hell; l'allucinate, distopico, terribile The road; il Loach un pelo più leggero ma sempre denso di contenuti politico/sociali, Il mio amico Eric. I problemi nascono per la palma di migliore, tra i tre titoli che seguono ne scelgo uno solo, ma ciascuno potrebbe occupare, a rotazione, il primo posto: tra Castaway on the moon, Cella 211 e Bastardi senza senza gloria scelgo il secondo, in rappresentanza di un cinema di genere spagnolo che ormai ha da insegnare a tutte le latitudini cinematografiche.

2010

E' l'anno del magnetico ma controverso Inception di Nolan, dell'eccellente ultra violento cinecomics Kick-Ass, dello schizzato Scott Pilgrim vs the world di Wright, di Scorsese (Shutter Island), del primo capitolo di una trilogia che segna il ritorno allo yakuza movie di Kitano (Outrage), del sempre ottimo Polanski (L'uomo nell'ombra) del malinconico, disperato noir hongonkiano The yellow sea, e del tentativo italiano (l'ultimo) di portare sullo schermo la Milano criminale degli anni settanta, da parte di Placido (Vallanzasca - Gli angeli del male a cui ho dedicato due post: qui e qui). Vince, per una volta nettamente, un film visto di recente. Il violento e sadico I saw the devil, anche in questo caso portabandiera di un cinema, quello sudcoreano, che ha portato horror, crime e action ad un altro livello.

2011

Nel 2011 torna ad assalirmi l'indecisione. Undici film, molti dei quali meritevoli del podio. Mi riferisco ad un fiabesco, incantevole Hugo Cabret, ad un Allen smagliante (Midnight in Paris), all'infallibile Olivier Marchal (A gang story), allo spy movie inglese in salsa depalmiana La talpa, all'inquietante Bedtime, ad Animal Kingdom, all'Alba del pianeta delle scimmie, eccellente esordio di una nuova trilogia che dimostra come si possa coniugare cassetta e qualità, fino al "piccolo" italiano I più grandi di tutti coraggioso nell'avventurarsi fuori dai nostri clichè. Il primo posto se lo giocano Polanski con lo strepitoso Carnage e The raid, uno dei migliori action del ventunesimo secolo (l'altro è il suo sequel), che non è americano ma thailandese. Faccio prevalere di misura Carnage, non fosse altro per lo sconsiderato numero di volte che l'ho visto.

2012

Inizio col Tarantino che ho meno apprezzato in assoluto, per dire che il Tarantino (ai miei occhi) meno convincente è comunque da non perdere: Django unchained. A seguire la corrosiva commedia sulla politica americana Candidato a sorpresa, Zemeckis con uno strepitoso Denzel Washington e un indimenticabile John Goodman (Flight), il rischioso ma centrato Zero Dark Thirty della Bigelow, la dissacrante fotografia di una famiglia radical chic francese (ma potrebbe essere universale) scattata da Cena tra amici, l'irresistibile cinecomic giapponese Thermae Romae e il Cronenberg allegorico, grottesco ma forse anche no di Cosmopolis. A sto giro però l'oro a Loach non lo toglie nessuno. La parte degli angeli è un capolavoro in sapiente equilibrio tra dramma e commedia.









continua...

post precedenti:

MOVIELIST #1 (1968/1977)

MOVIELIST#2 (1978/1987)

MOVIELIST#3 (1988/1997)

MOVIELIST#4 (1998/2007)

lunedì 21 novembre 2022

Def Leppard, Diamond star halos


Se al pari del thrash metal, anche il glam/hair/melodic metal negli ottanta avesse avuto i suoi big four, penso che molto probabilmente la scelta sarebbe caduta su Bon Jovi, Motley Crue, Poison e Def Leppard. Queste quattro band infatti, senza voler nulla togliere alle altre che in qualche caso a livello qualitativo se la giocavano, ma in quanto a riscontri mainstream venivano nettamente distanziate, erano le punte di diamante del movimento. 
Su questa base di ragionamento, riflettevo come di quattro formazioni, tre, per ragioni diverse, si siano pressochè eclissate. I Bon Jovi degli ottanta non esistono più, persi in un crossover di generi (rock, folk, country) sempre anticipato dal prefisso pop. I Motley Crue hanno, di fatto, chiuso la propria storia discografica con l'apoteosi di Dr Feelgood, nel 1989 (il self titled del 1994 dal punto di vista tecnico potrebbe essere, paradossalmente, il loro miglior lavoro, ma esula dal glam, mentre The saint of Los Angeles del 2008 è un solo discreto, ultimo, colpo di coda). I Poison autentici, analogamente ai Crue, sono sostanzialmente fermi al 1993, con Native tongue.

Gli unici che non hanno mai smesso di produrre musica nuova sempre mantenendo più o meno dritta la barra del proprio stile di riferimento, pur prendendosi il loro tempo (cinque album in quasi un quarto di secolo) sono appunto i Def Leppard, che tornano con un disco nuovo a sette anni dal precedente self titled. L'impronta della band del singer Joe Elliott ha un suo stile inconfondibile, forgiato negli anni con il produttore "Mutt" Lange (periodo 1981/1987) e culminato con il masterpiece Hysteria. Quello che non sapevo, e che mi ha stupito, è che la collaborazione tra i DL e Lange si è conclusa definitivamente proprio nell'87, e nonostante ciò la band su quegli stilemi ha continuato a marciarci fino ad oggi, come dimostra l'attacco, molto convincente, di questo Diamond star halos

Take what you want, Kick e Fire it up, le prime tre tracce che sono anche i primi tre singoli, dimostrano come i Leppard siano ancora in grado di esprimere il proprio sound anche su pezzi nuovi (ovvio il richiamo al passato ma, proprio per il discorso che facevo in premessa sulle altre band, non è comunque esercizio banale): midtempoes tendenti al veloce, cori, ritornello, tutto riporta ai vecchi fasti. Rimarchevole anche la prima ballata, This guitar, che si avvale ai cori di Alison Krauss. C'è solo un problema, che si riverbererà per altri brani della restante tracklist (ad esempio su U rok me): l'effetto Bryan Adams. Lo stile espresso chiama in causa infatti l'artista canadese, probabilmente sempre a causa dell'imprinting a fattore comune di "Mutt", con Adams per il suo album di maggior successo - Waking up the neighbours - .

Il secondo problema per chi scrive è la lunghezza del disco e la contestuale, eccessiva presenza di filler. Quindici pezzi per sessantuno minuti che mi sono sembrate quattro interminabili ore. Qui non si tratta di sforbiciare qualcosa, ma proprio di eliminare mezzo, inutile disco che, e lo dico da nostalgico di quegli anni, per cinque sei canzoni potrebbe essere ottimo, ma che alla lunga diventa noioso ed estenuante, tra lenti fotocopia e pezzi senza mordente che guardano anche al pop-country.

lunedì 14 novembre 2022

The Trip (2021)



Due coniugi in crisi si recano in una sperduta località montana per tentare di riavvicinarsi, confidando nella solitudine di un'isolata baita di famiglia. Lars, il marito, ha in realtà progettato il cruento omicidio della moglie fedigrafa. Ciò che ignora è che anche lei ha un piano piuttosto ostile nei suoi confronti. I rispettivi programmi della coppia verranno stravolti da un evento tanto imprevedibile quanto devastante.


Commedia nera norvegese violenta e a forti tinte splatter, The trip è il settimo film di Tommy Wirkola, un regista che, tra alti e bassi, ha sovente caratterizzato la sua opera proprio attraverso i generi sopra menzionati (Dead snow 1 e 2; Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe). 
Per The trip (dove il regista è anche co-sceneggiatore) Tommy raggiunge probabilmente il suo acme, in un tripudio di cattiveria, azione, sadismo, iper-violenza, talmente iperbolici da risultare, a seconda dei momenti, grotteschi o "fumettosi". 

Bene i protagonisti principali, Noomi Rapace (Lisa, la moglie) e Aksel Hennie (Lars, il marito) nell'interpretazione di due character atti a distruggere l'istituzione borghese del matrimonio, con una determinazione e una freddezza tali da consigliarne la visione come estremo tentativo di terapia di coppia. 
The trip è uno di quei film da guardare lasciandosi trasportare dal ritmo, dal montaggio, dai flashback e flashforward, dai colpi di scena, senza stare a contare i peli del culo alla verosimiglianza. 
E, al netto dei difetti, anche se avrei preferito un finale più cattivo, in linea con quello che è la narrazione di tre quarti della pellicola, posso dire con convinzione che erano aaanni che non mi divertivo così con un film di questo genere.
Guardalo.


Netflix


lunedì 7 novembre 2022

Michael Monroe, I live too fast to die young (2022)

 

La storia della musica rock è fitta di "what if". Uno di essi concerne sicuramente gli Hanoi Rocks. Cosa sarebbe successo se il batterista Razzle non fosse morto prematuramente (nel noto incidente automobilistico assieme a Vince Neil, che guidava), causando indirettamente lo scioglimento della band, al suo apice? Nessuno può dirlo, non è da escludere che le tre forti personalità degli Hanoi (Michael Monroe, Andy McCoy e Sami Yaffa) fossero comunque arrivate al capolinea, ma tant'è. Dopo il disbanded, dei tre, il frontman Monroe è quello che, senza dubbio, è riuscito a ritagliarsi la carriera solista più solida o quantomeno più esposta ai riflettori, con dodici album titolati a proprio nome (più tre, negli anni zero, con la reunion degli HR). 

Ultimo della schiera questo I live too fast to die young (titolo da true rocker, copertina full eighties) che ha dalla sua una manciata di pezzi veramente convincenti capaci di restituire lustro allo sleaze, ma forse sarebbe meglio dire al rock stradaiolo tutto. Vero è che per noi vecchi arnesi del novecento l'interezza di un album ha una sua sacralità, però cazzo un album di rock and roll abbisogna di una partenza a razzo, due tre pezzi che ti fanno rizzare le orecchie, soprattutto da quando siamo inondati in maniera bulimica di proposte musicali. Monroe probabilmente lo sa, e ci accontenta con una doppietta iniziale da manuale: Murder the summer of love e Young drunks and old alcoholics, due pezzi che fossero usciti nei settanta o negli ottanta avrebbero avuto ben altra visibilità e riscontri, ma che, anche nel 2022  rischiano comunque di mandare in depressione e far deporre le chitarre per manifesta inferiorità a tante giovani bands.

Il gruppo che accompagna Matti Antero Kristian Fagerholm (nome completo di battesimo del nostro) è ormai consolidato e, tra gli altri, vede al basso il vecchio sodale Yaffa (tra l'altro anche lui reduce da un disco a proprio nome). In aggiunta al personnel, sulla title track, altro pezzo anthemico che nello spirito tanto sarebbe piaciuto ai Motorhead, l'ospitata di Slash che paga un pezzettino di tributo ad una delle sue band di riferimento giovanile. L'album è concepito in pieno spirito pre-playlist/spotify e gode per questo di un perfetto bilanciamento tra tracce tirate e momenti introspettivi o midtempo, nei quali è bannata la banalità dei testi e basta ascoltare Derelict palace, Antisocialite o Dearly departed per rendersene conto. 

Insomma I live too fast to die young è un disco dannatamente buono, che rimette con l'arroganza data dalla sicurezza dei propri mezzi lo sleaze sulla mappa. Valuta tu se sia un bene o un male che a realizzarlo sia un'icona, un "sonic reducer" dei tempi d'oro di questo genere e non un giovane virgulto, ma in ogni caso dagli una chance perchè se l'è meritata sul campo.

giovedì 3 novembre 2022

MES CHOSES PRÉFÉRÉES: settembre e ottobre 2022

ASCOLTI

Thundermother, Black and gold
Megadeth, The sick, the dying... and the dead!
Ozzy Osbourne, Patient number 9
Manuel Agnelli, Ama il prossimo tuo come te stesso
Yeah Yeah Yeahs, Cool it down
Dexter Gordon, Our man in Paris
Rosalìa, Motomami
Wet Leg, S/T
Molly Nilsson, Extreme
The Cult, Under the midnight sun
Cècile McLorin Salvant, Ghost song
Marracash, Noi, loro, gli altri
Nova Twins, Supernova
AAVV, Office space (soundtrack)
Skid Row, The gang's all here
Dropkick Murphys, This machine still kill fascists
Osserp, Els nous cants de la sibil .la
Machine Head, Of kingdom and crown
Michael Monroe, I live too fast to die young

Playlist - Monografie

AAVV, Rap & Hip Hop 80's e 90's
Lucio Dalla, Quattro tempi
Stan getz
Primus
Ryan Adams


VISIONI

Zombies in love (3/5)
Men (4/5)
Senza paura (2000) (2,5/5)
Samaritan (2/5)
Cattivi e cattivi (3/5)
Non escludo il ritorno (2,75/5)
Il lupo (2007) (3,25/5)
The expatriate (2,5/5)
Rosanero (2,5/5)
Gli idoli delle donne (2/5)
Si vis pacem para bellum (3/5)
Capitano Koblic (3,75/5)
Sotto lo zero (2021) (3,5/5)
The gray man (2/5)
La banda dei tre (2021) (2,75/5)
Uncharted (1/5)
Scream 5 (2,5/5)
Fuga da Los Angeles (4/5)
Il talento di Mr. C (3/5)
Hollywoodland (3/5)
Omicidio nel West End (3/5)
Friday night lights (3,75/5)
Impiegati...male (3/5)
Prove apparenti (2,75/5)
Full time - Al cento per cento (3/5)
The contractor (3/5)
Bullet head (2,75/5)
La fuga (1947) (4/5)
70 binladens (3,25/5)
La cena delle spie (2,5/5)
I vivi e i morti (3,5/5)
Sweet 16 (2002) (3,5/5)
Tassisti di notte (3/5)
The pusher (2004) (3,25/5)
Il peggior lavoro della mia vita (2/5)
Kristy (3/5)
Velvet buzzsaw (2,5/5)
Coffee and cigarettes (3/5)
The lobster (4/5)
Dark crimes (2/5)
The good nurse (2,5/5)
On the line (2/5)
















Visioni seriali

The Boys, 3 (3,5/5)
Succession, 1 (3,5/5);  2 (3,75/5)

LETTURE

Georges Simenon, I fantasmi del cappellaio 
Edward Bunker, Educazione di una canaglia

lunedì 31 ottobre 2022

Di Si vis pacem para bellum (2016) e di Stefano Calvagna

Stefano è un criminale al soldo di un potente uomo d'affari romano in odore di malavita. Per lui svolge ogni tipo di commissione violenta, dal pestare al gambizzare, fino all'omicidio. Per il resto conduce una vita anonima e solitaria, formalmente fa il buttafuori di un locale (dello stesso imprenditore) e frequenta una palestra. Ha un suo contorto senso della giustizia e infatti, durante una delle tante cene solitarie in un ristorante cinese, difende una cameriera dall'aggressività di un gruppo di teppistelli e da quell'episodio nasce con lei una storia destinata a cambiargli il corso della vita.

Scrivo di Si vis pacem para bellum (il noto motto latino se vuoi la pace prepara la guerra) per parlare di un regista italiano che ho scoperto di recente, vero e proprio lupo solitario (come lo definisce il critico Francesco Alò) del cinema italiano, con uno sconfinato amore per il cinema che l'ha portato, sempre in condizioni di micidiali ristrettezze economiche, a girare venti film in vent'anni. 
Una vita, la sua, autenticamente avventurosa iniziata con una formazione americana (New York - Actor's studio - e Los Angeles dove ha girato episodi di Beverly Hills 90210) e proseguita costantemente in trincea, durante la quale ha subito agguati a colpi di pistola, processi e finanche detenzione (con successivo proscioglimento con formula piena) nonchè di stridenti contraddizioni che lo vedono al tempo stesso ultras (della Lazio con orientamento politico affine) ma anche estimatore, come emerge chiaramente nelle sue opere,  di neorealismo, Pasolini e Caligari (oltre che di Lenzi, Di Leo e Melville).

Posto il contesto di assoluta indipendenza artistica e di conseguenti bassi budget, a chi volesse entrare nel suo mondo cinematografico consiglio di non fermarsi ad un unico film, perchè si correrebbe il rischio di valutarne superficialmente solo la povertà dei mezzi, ma di guardarne una manciata, approfittando di Prime Video, che nel suo catalogo ne ospita ben tredici. In questo modo, viaggiando tra i generi (non solo noir, ma anche drammi, commedie e biopic) si riesce ad avere una visione più piena e rotonda dell'opera di Calvagna. 
Io fino ad oggi ne ho visti sette (l'esordio del 2000 Senza paura, Il lupo, Non escludo il ritorno - il biopic sugli ultimi anni di Califano, nel quale recita in un cameo anche Michael Madsen, fan dichiarato di Calvagna - , La fuga, Cattivi e cattivi, Baby gang - con attori non professionisti - e infine la pellicola di questo topic), non tutti riusciti o quadratissimi, spesso "sporchi" ed imperfetti, ma con la costante di una chiara idea di cinema perseguita con tenacia, fame e tensione artistica.

Si vis pacem para bellum è un classico noir metropolitano con i protagonisti cinici e disillusi dalla vita, ma che in fondo non hanno smesso di sperare in un'occasione di riscatto dal disincanto quotidiano. Insomma il motore di tutto il cinema noir americano degli anni quaranta/cinquanta e di quello francese (noir/polar), ma dentro l'ambientazione di una periferia romana sporca, senza senza regole, onore o leggi. 
Nel cast, oltre allo stesso Calvagna nel ruolo del protagonista, da segnalare la presenza di Massimo Bonetti qui al terzo ruolo con il regista dopo Il lupo e Cattivi e cattivi

Nonostante la fede politica di destra, totalmente opposta alla mia, ho maturato apprezzamento e in qualche modo affetto per il lavoro ostinato, sfrontato, coraggioso e indipendente di Calvagna, oltre ad una condivisione delle sue analisi sul cinema italiano, anestetizzato dai soliti due tre argomenti dei soliti due tre nomi i cui progetti regolarmente ricevono finanziamenti pubblici, mentre chi si arrabatta e riesce miracolosamente a girare, produrre e distribuire (anche nelle sale) un film all'anno viene costantemente tenuto ai margini. Non c'è posizionamento politico in questa considerazione, solo un'amara, necessaria, dolorosa constatazione sullo stato dell'industria (???) del cinema italiano.

Prime video

lunedì 24 ottobre 2022

Victoria Mary Clarke e Shane MacGowan, Una pinta con Shane MacGowan


Nel totale disinteresse degli editori italiani verso la biblografia sui Pogues (sono sempre speranzoso che qualcuno si decida a tradurre e pubblicare almeno Here comes everybody, la storia della band scritta dal membro James Fearnley) spicca, anche per una discreta esposizione mediatica, la recente pubblicazione in Italia de Una pinta con Shane MacGowan, che sarebbe anche uscito in prima edizione oltre vent'anni fa, ma, vista la totale lacuna editoriale sui Pogues, non è proprio il caso di cercare il pelo nell'uovo. Come spiega nell'introduzione Victoria Mary Clark, la curatrice del volume nonchè compagna di vita di Shane, il progetto nasce come una canonica biografia, fatto salvo che, una volta sbobinate le centinaia di ore di interviste e dato forma al testo, VMC si è trovata davanti ad un risultato troppo pulitino che strideva rispetto al mood di "spontaneità macgowaiana" delle interviste. Per questa ragione ha cambiato impostazione, ed ha trascritto integralmente il contenuto delle interviste con il marito. Il risultato è sicuramente interessante e, dato il cattivo rapporto di Shane con stampa e critici, ci permette di entrare sostanzialmente per la prima volta nella sua complicatissima testa. 

I primi anni di vita del giovane MacGowan sono rielaborati con nostalgia ed affetto, nonostante un'educazione sui generis, nella quale gli veniva concesso qualunque vizio, incluso quello di bere alcolici e superalcolici in età prescolastica (e insomma, qualche attenuante per le sue tante dipendenze future, forse ce l'ha), ma vissuta felicemente per lo stile di vita da fattoria, i tanti parenti attorno, gli animali, la libertà della campagna. 

La parte che ho trovato più interessante della biografia è quella del periodo punk di Shane, che era al posto giusto (Londra) al momento giusto (1976/77) e che ritiene, non è l'unico, che il movimento punk, quello vero, quello pericoloso per le band e per chi si atteneva ai quei codici di outfit, sia durato giusto una manciata di mesi. E' questo un periodo in cui le risse e le imboscate sono all'ordine del giorno, e Shane impara (e ci spiega) come comportarsi una rissa, come darle e come incassare. 

Il racconto sul periodo Pogues è purtroppo carico di tensioni e di rancore. Verso Elvis Costello, verso gran parte del resto del gruppo, in qualche caso ritenuto anche tecnicamente inadeguato (Jem) e verso la produzione discografica a lui imposta che, dopo If I should fall from grace with god (terzo della discografia), è andata in una direzione contraria a quella desiderata da Shane, che arriva esausto e disinteressato agli ultimi tour. Costanti del racconto dell'irlandese sono digressioni culturali e letterarie, magari non sempre a fuoco, ma che dimostrano il suo cospicuo bagaglio culturale. E' raro trovare memorie di rockstar infarcite di comparazioni tra Joyce, Beckett o Behan. Meno anomalo, ma comunque non così diffuso, è anche l'amore di Shane per ogni tipo di genere musicale, in un range che, oltre a quelli ovvi (punk, traditional, folk) si sposta imprevedibilmente dal soul, al reggae al cajun, giusto per limitarsi a qualche esempio.

Insomma il libro funziona, anche se a tratti si impantana un pò, a mio avviso per l'eccessiva invadenza della curatrice (la Clarke) che interrompe non sempre opportunamente il flusso di coscienza del marito, talvolta anche in maniera irritante ed inutile, quasi nell'inconsapevole intento di mettere sè stessa e non Shane sotto i riflettori. 
Ovvio che, trattandosi dell'unico volume tradotto in italiano su Shane (e, indirettamente, sui Pogues), non sono queste facezie ad impedirmi di consigliarne caldamente la lettura.

lunedì 17 ottobre 2022

Capitano Kòblic (2016)


Argentina 1977. Il capitano della marina argentina Tomas Kòblic è ai comandi, a sua insaputa, di uno dei tanti, tragici, famigerati, voli della morte, in cui gli sgherri della dittatura fascista gettavano in mare i prigionieri politici (ancora vivi) per far sparire i corpi. Sconvolto da tanta atrocità, Kòblic diserta e, per nascondersi alle autorità militari,  si rifugia nella pampa argentina più povera e dimenticata, aiutato da un vecchio amico che possiede una piccola compagnia aeronautica di disinfestazione dei campi.

La ferita della dittatura del generale Videla, il cui colpo di stato organizzato dagli USA di Henry Kissinger mise al potere l'esercito e diede il via a persecuzioni, imprigionamenti, torture, uccisioni e desaparecidos, è, necessariamente, sempre aperta, nel popolo argentino. 
In attesa di vedere il recentissimo Argentina, 1985, ho recuperato questo film di qualche anno fa, che con Argentina, 1985 condivide il protagonista: l'immenso Ricardo Darìn. 
Partendo dai drammatici fatti di quegli anni, il regista Borensztein, ambienta le vicende del protagonista in una classica terra di frontiera, dove il tempo sembra non essere mai passato e non passare mai e dove c'è l'omologo dello sceriffo che ha potere di vita e di morte sulla povera gente. In pratica un western (analogia esplicitata dalla sequenza clou verso la conclusione del film), ma anche, per l'angosciante sensazione del protagonista di non avere vie d'uscita, un noir d'altri tempi. 
Superfluo affermare come Darìn sia perfetto nel ruolo, interpretato per sottrazione, perchè tanto l'attore argentino lo è sempre, impeccabile. Ma convincente lo è pure, nella sua placida perfidia, il villain Velarde, interpretato con misura da Oscar Martìnez. 

Anche se gioca coi generi sopra citati, Borensztein tiene sempre salda la leva del cinema di denuncia, e quando, nel flashback finale, vengono mostrate per intero le vicende che hanno portato Koblìc alla diserzione, deflagra tutto il dramma degli oppositori argentini e, con esso, l'atroce, ottusa, implacabile brutalità dei bastardi agli ordini di Videla.

Il film è consigliato, soprattutto, a chi queste cose ancora non le conosce o, peggio, a chi le ha giustificate nel nome di una democrazia da esportare che nascondeva ben altri obiettivi politico-economici.


Prime Video

lunedì 10 ottobre 2022

Ministri, Giuramenti (2022)


Dopo un EP, Cronaca nera e musica leggera, che nelle intenzioni doveva fotografare una fase creativa di maggiore introspezione e che invece, a seguito di covid e blocco forzato delle attività, è venuto fuori ancora più incazzoso del solito, per i Ministri erano maturi i tempi per il ritorno al formato full lenght, atteso da quattro anni. 
Allora il titolo dell'album era Fidatevi, oggi è Giuramenti, quasi a cercare una totale sintonia fideistico-emozionale con il proprio pubblico. 

Il nucleo storico della band (Davide Autelitano - voce e basso - ; Federico Dragogna - chitarre -  e Michele Esposito - batteria - ) è arrivato alla soglia dei quarant'anni d'età ed è evidente che l'approccio creativo non può e non deve essere quello di venti anni fa, ma ciò che definisce l'onestà intellettuale di un artista è anche la capacità di bilanciare l'impeto giovanile con la riflessione acquisita col passare del tempo, e in questo credo che Giuramenti sia un disco perfettamente riuscito. 
I testi dei nove pezzi (per trentacinque minuti di durata) contenuti nel lavoro sono, come da tradizione, riluttanti inni generazionali che sembra volino lontano, nel surreale, per poi piazzare improvvisa e dolorosa la coltellata nelle carni marcie di un Paese ("arrivi a fine mese / solo se è febbraio" da Numeri) sordo ad ogni richiesta di aiuto del tessuto sociale.
Dal punto di vista stilistico rabbia e rassegnazione si alternano, in una raccolta di canzoni che a mio parere contiene almeno tre pezzi tra i migliori mai incisi dai Ministri (Scatolette; Documentari; Numeri) e che riesce comunque a mantenere, anche nella restante tracklist, il solito livello d'eccellenza cui la band ci ha abituati, in ambito indie italiana.

Siamo in un periodo storico atroce, dopo più di mezzo secolo torniamo a lambire un rischio che pensavamo archiviato per sempre, quello dell'utilizzo di armi atomiche. Gli artisti possono recitare un ruolo prezioso nel prendere posizione e raccontare lo smarrimento di tanti davanti ad una spirale che sembra senza fondo. 
Questo compito, un pò come Guccini che in Eskimo poteva permettersi di cantare  "tu giri adesso con le tette al vento / io ci giravo già vent'anni fa", i Ministri lo svolgono da sempre, visto che attraverso titoli quali  "I soldi sono finiti" e "Tempi bui", tre lustri fa cantavano di uno strisciante disagio generazionale che, nel frattempo, si è fatto esplosivo.
Basterebbe questo, ma non possiamo dimenticare l'instancabile contributo alla musica altra italiana, che non si rassegna ai personaggi preconfezionati perfetti, anche nelle provocazioni, per le prime serate televisive o per Sanremo.
Viva i Ministri!

lunedì 3 ottobre 2022

George Simenon, I fantasmi del cappellaio (1949)


Fine anni quaranta, la cittadina francese di La Rochelle vive nel terrore per la presenza di un assassino che sta uccidendo una dopo l'altra donne anziane. Kachoudas, un sarto immigrato armeno, scopre casualmente un indizio che sembra accusare per gli omicidi seriali il rispettabilissimo e ben inserito cappellaio del paese, Leon Labbè.

I fantasmi del cappellaio è considerato uno dei più importanti libri noir di tutti i tempi. E' un romanzo che esula dal ciclo di storie che Simenon ha scritto con protagonista Maigret e, forse, proprio per questo, lo scrittore francese ha potuto operare in piena libertà e, soprattutto, fuori dai canonici tempi/vincoli delle indagini poliziesche. A dimostrazione di ciò, la tensione che regge la storia non è costruita sul mistero dell'identità dell'assassino che, prima ancora ci si cali nel mood della narrazione, è sostanzialmente svelato a pagina otto. Piuttosto Simenon il meglio lo dà nel raccontare, dalla soggettiva del cappellaio, la quotidianità di due personaggi, Labbè e Kachoudas, teoricamente divisi solo da una stessa strada, al punto che , tende permettendo, riescono a vedere uno nelle stanze dell'altro, vivendo così un pò nella pelle del rispettivo dirimpettaio, ma in realtà separati da una solida barriera sociale.

Questa condizione è descritta efficacemente dall'autore, che si sofferma sulle classi dei due protagonisti: quella del cappellaio, benestante e ben inserito negli ambienti locali, e quella del piccolo sarto, al contrario emarginato e tenuto a debita distanza, anche quando tenta di confondersi tra gli altri avventori al Cafè des colonnes, abituale ritrovo degli uomini del posto.  Una condizione che però, chissà, per Kachoudas potrebbe mutare, grazie alla taglia di ventimila franchi promessa a chi darà indizi concreti alla polizia per debellare la minaccia del serial killer. Una polizia che, a differenza dei settantacinque romanzi con protagonista Maigret, viene tratteggiata come incompetente e, impersonata dal commissario Pigeac, vanesia e ottusa. 

Simenon mostra la psicologia del serial killer con una modalità in netto anticipo su molta letteratura di genere a venire, scavando nell'impulso ad uccidere dell'assassino ben oltre il compimento del suo piano razionale, che, infatti, quando termina gli lascia un senso di vuoto, così come in anticipo sui tempi è la descrizione, anche qui lasciata tra le righe, dell'inconscio desiderio di essere catturato. 

L'edizione di Adelphi che ho letto riserva poi una sorpresa a quanti, come faccio io abitualmente, si immergono nella lettura senza vivisezionare indice o appendici del libro. La narrazione si conclude infatti a "sorpresa" quando mancano una settantina di pagine alla conclusione del volume, lasciandoti di sasso. Il motivo è presto detto: in coda al romanzo l'editore ha aggiunto la prima stesura di Simenon, dal titolo Il piccolo sarto e il cappellaio, molto più breve, che si fa apprezzare per il rovesciamento della prospettiva, da Lubbè a Kachoudas, e per un finale differente. Anzi, un doppio finale, perchè l'autore, evidentemente irrequieto sullo sviluppo della sua storia, ha sviluppato una conclusione alternativa (anch'essa presente in questa edizione). 
Entrambe le conclusioni non valgono comunque quella drammatica e amara, della versione definitiva.

lunedì 26 settembre 2022

Lo squalo (1975)

La cittadina di Amity, su di un'isola al largo di New York, si prepara ad accogliere le consuete ondate di famiglie e turisti per la stagione estiva. Proprio all'approssimarsi della festa nazionale del 4 luglio però una ragazza viene uccisa di notte da uno squalo. Il medico legale, condizionato dal sindaco, afferma si sia trattato dell'elica di una barca e quindi, contro il parere dello sceriffo Brody, non introduce divieti alla balneazione. Da lì a poco anche un ragazzino verrà attaccato mortalmente dalla stessa bestia. A quel punto non è più possibile negare l'evidenza della presenza di un pericoloso predatore marino.

Quando uscì Lo squalo avevo all'incirca sei anni, ma ricordo distintamente i manifesti del film che tappezzavano il mio paese (con ogni probabilità da noi arrivò uno o due anni dopo, in seconda o terza visione) e che lasciavano presagire qualcosa di terrificante. Ovviamente non lo vidi all'epoca, e anche se in seguito ho avuto innumerevoli occasioni per recuperare la visione di questa pellicola, mandata migliaia di volte dalle reti berlusconiane, chissà perchè, non l'ho mai fatto. 

Visto oggi, Lo squalo, appare perlopiù modernissimo, soprattutto per i suoi aspetti sia tecnici, tuttora, a quasi cinquant'anni di distanza, scopiazzatissimi, che di soggetto, visto l'ennesimo ritorno del trend "squalistico" che impazza soprattutto, ma non esclusivamente, nelle produzioni a basso costo. Il film di Spielberg ha tracciato un solco profondo anche nell'aspetto commerciale, strategico di produzioni di questo tipo, si può dire che abbia lanciato la dinamica del filmone mainstream (una volta si sarebbe detto l'americanata) posizionato nelle settimane più importanti della programmazione  dei cinema USA (giugno-luglio). Ma la pellicola, in qualche modo, osa anche su temi etici, anche qui in anticipo sui tempi: l'ingordigia della politica, la sicurezza messa in subordine rispetto al guadagno, e con esso il mantenimento delle posizioni di potere vincolate alla conservazione dello status quo, l'abitudine degli americani a sparare a tutto quello che si muove. 
Per il resto, beh, sequenze e dialoghi che sono entrati nella storia del cinema e del quotidiano ("Ci serve una barca più grossa"), così come la colonna sonora. E tutto questo, a prescindere dal genere (in questo caso puro intrattenimento) è caratteristica riservata ai soli film che hanno fatto la storia del cinema. 

Sky / Netflix

lunedì 19 settembre 2022

Volbeat, Servant of the mind (2021)


Dall'alto dello status di one of my favorite band, ho concesso diverse chance a Servant of the mind, l'ottavo album dei Volbeat, uscito a fine 2021. Al netto della diffidenza verso una copertina bruttina, stile prog rock anni settanta, ogni volta il mio entusiasmo si schiantava contro lo scoglio di Wait a minute my girl, la traccia numero due. In effetti non andavo molto lontano. Tuttavia, anche adesso che il disco sono riuscito ad assimilarlo, continuo a ritenere quel pezzo probabilmente il più brutto mai pubblicato dai danesi. 
E il resto del disco com'è? Mah, la mia impressione è che i Volbeat abbiano perso quella non comune capacità di coniugare orecchiabilità, asprezza dei suoni ed epicità. Ci provano, ma semplicemente non ci riescono più. Il disco è troppo lungo. Le singole tracce sono troppo lunghe. Questo giochetto di relegare il lato più canonicamente metal alle parti strumentali (incipit, bridge e coda) ormai mostra la corda. Dopodichè mentirei se affermassi che qualche canzone non centri il bersaglio lucidando un pò l'argenteria di famiglia (Sacred stones, Shotgun blues, The passenger), ma è davvero poca cosa. 

Se affermi di fare musica metal, anzi di essere un "big fan" del genere, devi fare attenzione a come ti trastulli con l'easy listening, perchè cazzo il rischio di sbracare è dietro l'angolo. I Ghost, per fare un esempio, sono dei maestri in quest'arte, la formazione di Poulsen mi sembra abbia invece deragliato. Speriamo non definitivamente. Poche speranze in questo senso. Un dato su tutti che fotografa l'inversione mainstream della band: prima i featuring si facevano con componenti di Kreator, Napalm Death, Meryful Fate, oggi con la cantante degli Alphabeat, un gruppo dance-pop. E senza neanche passare dal metadone delle Babymetal.
Buone le cover (Wolfbrigade, Cramps, Metallica) dell'edizione speciale. E, forse, questo potenziale metal inespresso fa incazzare ancora di più.

lunedì 12 settembre 2022

The carpenter (2021)

Sam vive guadagnandosi da vivere come carpentiere in un un piccolo paese della bergamasca, nascondendosi da qualcosa del suo passato che tuttavia torna inesorabilmente a cercarlo.

Pellicola indipendente scritta (assieme a Pietro Lovato) e diretta dall'esordiente Steven Renso, The carpenter, in considerazione del tipo di prodotto e del budget ridotto, ha molte frecce al suo arco. Innanzitutto Renso punta tutto sulla tensione crescente, più che sulla violenza (spesso fuori campo) o sull'azione in generale. Una scelta forse dettata dal contenimento dei costi, ma comunque vincente. L'ansia che coinvolge lo spettatore non ha infatti nulla da invidiare a produzione più ricche (anzi!) e tiene in piedi il film in maniera più che eccellente. Anche la perfomance del cast (il protagonista è Davide Gambarini) è, mediamente, oltre il livello della cinematografia indipendente, un paio di personaggi sono davvero azzeccati, come il protagonista e Romolo (interpretato da Pino Torcasio). 

Le location rurali, i boschi, i tornanti di montagna (ripresi anche dal drone) si rivelano un'altra intuizione felice. 
Qualche difetto è presente forse nell'eccessivo affollamento dei personaggi, che richiede uno sforzo di spiegazione della storia a mio avviso evitabile e porta conseguentemente con sè lo scarso approfondimento di alcuni character, così come di alcuni flashback, troppo tirati via.

Per il resto The carpenter è una bella botta di fiducia nel panorama degli indipendenti italiani. Sarei molto curioso di vedere cosa l'ottimo Renso sarebbe in grado di fare con un budget decoroso, anche se non nutro molte speranze in merito, posta la sostanziale indigenza in cui versa il nostro cinema di genere, che fa scopa con il disinteresse dei produttori e di un pubblico disabituato a questi stilemi. 
Spagna e Francia sono geograficamente ad un passo ma oggi, ahimè, cinematograficamente a distanze siderali, pertanto massimo apprezzamento verso chi, con passione, entusiasmo e coraggio rifiuta di rassegnarsi all'ormai grottesco rifugio nel "porto sicuro" della commedia e del dramma, da troppo tempo unici sbocchi del nostro cinema.

Visto su Prime video

giovedì 8 settembre 2022

Crazy Lixx, Loud minority (2007)

Il debutto (seguiranno altri sei album) dei glammers/sleazers svedesi Crazy Lixx  Loud minority, sebbene stilisticamente si inserisca dentro il canonico solco hair metal fine anni ottanta, ha dalla sua quella buona dose di entusiasmo che permette ai due leader, Danny Rexon (voce e chitarra) e Vic Zino (chitarra, nel frattempo fuoriuscito) di mettere assieme undici pezzi (la mia riedizione della Frontiers ha sette tracks in più rispetto alla release originale)  trascinanti che sì, richiamano i Bon Jovi e i Kiss ottantiani, i Crue, i Guns più glam e chi più ne ha più ne metta, ma con onestà intellettuale e gusto. 
Ne deriva che tra una Dr. Hollywood, una Make ends meet, una Death row e una Boneyard gli estimatori del genere possono tornare giovani per una quarantina di minuti. 

 

lunedì 5 settembre 2022

Ministri, Carroponte - Sesto San Giovanni 2 settembre 2022

Raggiungo il Carroponte con qualcosa tipo un mese e mezzo di ritardo, visto che avrei voluto assistere al concerto degli Idle del 14 luglio ma una trasferta di lavoro in Piemonte me l'ha impedito.Stavolta non potevo mancare, troppe volte, per un motivo o un altro, non sono riuscito a vedere uno dei gruppi indipendenti italiani che più amo, i Ministri. Così, alla boia d'un Giuda, scopro del concerto la mattina leggendo le pagine milanesi di Repubblica, ed eccomi ai cancelli del Carroponte.
La prima cosa che noto, mentre il posto va riempendosi, è l'atmosfera molto rilassata, da festa, che satura la location. Si respira forte l'aria di comunità, c'è più di una famiglia con bimbi piccoli a rimorchio (che, con un effetto straniante, a sei anni cantano il repertorio della band), insomma, vibrazioni positive per un vecchio rudere del novecento come il sottoscritto.


Dopo l'esibizione degli opener Gazebo Pinguins, che ho brevemente intercettato, alle 21.30, acclamatissimi, salgono sul palco i nostri. Con le classiche divise che li contraddistinguono, per questo tour di colore bianco, attaccano Mammut (dall'album del 2013, Per un passato migliore), e si capisce immediatamente che c'avevo visto giusto: proprio di festa si tratta, con buona parte dei convenuti probabilmente all'ennesimo concerto dei Ministri ma che reagiscono come se fosse il loro primo. 
L'esibizione di Davide e Fede è da frontmen consumati, alla batteria Michele non è da meno. Componenti aggiunti un secondo chitarrista (il cui strumento, in tutta onestà non ho mai sentito, ma può essere colpa della mia posizione rispetto alle casse) e un tastierista. La setlist, com'è consuetudine verte molto sull'ultimo lavoro della band (Giuramenti) e sull'EP che l'ha preceduto (Cronaca nera e musica leggera), mangiandosi quasi la metà della scaletta. I due leader cercano spesso e volentieri l'interazione con il pubblico (anche per dare modo a Davide, che non si risparmia, di ripigliare fiato), e se non bastasse questa loro predisposizione e il fatto di giocare in casa, stasera c'è un'occasione in più: il quarantesimo compleanno di Federico, ripetutamente celebrato. 


L'ultimo pezzo prima dei bis è Il bel canto, e tutti sanno che sta arrivando il momento del liturgico stage diving di Davide, che infatti si sveste della giacca e degli orpelli, fa fare qualche giro attorno al gomito al cavo del microfono, attacca il pezzo in piedi tra il pubblico, e poi, senza mai smettere di cantare, si fa trasportare dalle fedeli mani della gente, in un momento che devo ammettere risultare più catartico ed emozionante che folle. 
Gli encores sono per i pezzi più amati, scorrono in sequenza Bevo, Spingere, Una palude, Diritto al tetto e Abituarsi alla fine, prima della quale, in modo un pò criptico, la band ringrazia i presenti annunciando che questa sarà l'ultima data per molto tempo a Milano. 

Stasera colmo una mia grave lacuna e vengo ricambiato con un concerto tosto, vibrante, emozionante. Probabilmente qualche anno fa (ehm...diversi anni fa) l'avrei "vissuto" ancora di più, partecipando a pogo e singalong sotto al palco, ma anche così è tanta roba. Non sono un hater dei Maneskin, penso di essere stato oggettivo nella mia analisi al loro ultimo album, tuttavia, e questo sì mi sembra profondamente ingiusto, non è che il rock in Italia non esistesse prima di loro. Per la miseria, se i Maneskin ricevono plausi e prime pagine a profusione, chi ha sulle spalle anni di gavetta durissima, attraversati con tenacia, sudore, passione, fatica, e grandi, grandi canzoni (a differenza di Damiano e pards) si meriterebbe una cazzo di statua equestre. Fategliela, ai Ministri. Tanto sono sicuro si divertirebbero a distruggerla.



Messaggio subliminale

 


giovedì 1 settembre 2022

MFT, luglio e agosto 2022

ASCOLTI

Michael Monroe, I live too fast to die young
Fontaines D.C. , Skinty fia; Dogrel
Def Leppard, Diamond star halos
Liberato, II
Thunder, Dopamine
Lyle Lovett, 12th of june
Red Hot Chili Peppers, Unlimited love
Scorpions, Rock believer
Eddie Vedder, Earthling
Warrior Soul, Out on bail; Cocaine and other good stuff
Old Crow Medicine Show, Paint this town
Black Midi, Schlagenheim; Hell fire
Black Country New Road, Ants from up there
Thundermother, Black and gold
Ben Harper, Bloodline maintenance
Linda Ronstadt, Duets
Dwight Yaokam, dwightyoakamacoustic.net
Jesus Lizard, Down
Oceans Of Slumber, Starlight and ash
H.E.A.T., Force majeure
US3, Greatest hits + remix
Throwing Muses, Anthology
Jestofunk, Love in a black dimension
Amyl and the sniffers, Comfort to me
King Hannah, I'm not sorry I was just being me
Little Simz, Sometimes I might be introvert
Van Morrison, How long has this been going on
Regina Carter, Southern comfort
Willie Watson, Folk singer, vol 1

Playlist

Neil Young
Body Count
Jimi Hendrix
Idle
Hank III
Stan Getz

VISIONI (in grassetto i film visti in sala)

Flic story (3/5)
Top Gun Maverick (2/5)
Kiss Kiss Bang Bang (3,5/5)
Hustle (3/5)
Toc toc (2,5/5)
Chi è senza peccato - The dry (3,25/5)
L'ora più buia (3,25/5)
Good night and good luck (3,5/5)
Joy (2015) (2/5)
Una vita tranquilla (3,25/5)
I segreti della notte (2,5/5)
3/19 (3/5)
Fame chimica (3/5)
I don't feel at home in this world anymore (3/5)
Che: l'argentino (3/5)
Complotto di famiglia (3/5)
La signora delle rose (2,5/5)
Le catene della colpa (5/5)
Limitless (2,5/5)
Black box - La scatola nera (2,75/5)
Spiral - L'eredità di Saw (1/5)
Cry Macho (3/5)
I ragazzi venuti dal Brasile (3,25/5)
Frammenti dal passato - Reminiscence (3/5)
Nope (3,5/5)
Nella mente di Robin Williams (docufilm) (3/5)
La felicità degli altri (2,5/5)
The Carpenter (2021) (3/5)
Munich (3,5/5)
La morte e la fanciulla (4,25/5)
Crimes of the future (4/5)
Sputnik (3,75/5)
Bullet train (3,5/5)
Era mio padre (3,25/5)
Piano di fuga (3,25/5)
Nemico pubblico N1 - Istinto di morte (3,5/5)
Lo squalo (4/5)
Echo boomers (2,75/5)
Shaft (2000) (2/5)
La donna del ritratto (4/5)



















Visioni seriali

The staircase (3/5)
Better call Saul, 6 - seconda parte (3,25/5)
We own this town (3,75/5)
Una squadra - docuserie (3,5/5)
Trainwreck: Woodstock 99 - docuserie (3/5)



LETTURE

Victoria Mary ClarkeUna pinta con Shane MacGowan
James CainFalena
Charles Bukowski, Pulp