lunedì 31 ottobre 2022

Di Si vis pacem para bellum (2016) e di Stefano Calvagna

Stefano è un criminale al soldo di un potente uomo d'affari romano in odore di malavita. Per lui svolge ogni tipo di commissione violenta, dal pestare al gambizzare, fino all'omicidio. Per il resto conduce una vita anonima e solitaria, formalmente fa il buttafuori di un locale (dello stesso imprenditore) e frequenta una palestra. Ha un suo contorto senso della giustizia e infatti, durante una delle tante cene solitarie in un ristorante cinese, difende una cameriera dall'aggressività di un gruppo di teppistelli e da quell'episodio nasce con lei una storia destinata a cambiargli il corso della vita.

Scrivo di Si vis pacem para bellum (il noto motto latino se vuoi la pace prepara la guerra) per parlare di un regista italiano che ho scoperto di recente, vero e proprio lupo solitario (come lo definisce il critico Francesco Alò) del cinema italiano, con uno sconfinato amore per il cinema che l'ha portato, sempre in condizioni di micidiali ristrettezze economiche, a girare venti film in vent'anni. 
Una vita, la sua, autenticamente avventurosa iniziata con una formazione americana (New York - Actor's studio - e Los Angeles dove ha girato episodi di Beverly Hills 90210) e proseguita costantemente in trincea, durante la quale ha subito agguati a colpi di pistola, processi e finanche detenzione (con successivo proscioglimento con formula piena) nonchè di stridenti contraddizioni che lo vedono al tempo stesso ultras (della Lazio con orientamento politico affine) ma anche estimatore, come emerge chiaramente nelle sue opere,  di neorealismo, Pasolini e Caligari (oltre che di Lenzi, Di Leo e Melville).

Posto il contesto di assoluta indipendenza artistica e di conseguenti bassi budget, a chi volesse entrare nel suo mondo cinematografico consiglio di non fermarsi ad un unico film, perchè si correrebbe il rischio di valutarne superficialmente solo la povertà dei mezzi, ma di guardarne una manciata, approfittando di Prime Video, che nel suo catalogo ne ospita ben tredici. In questo modo, viaggiando tra i generi (non solo noir, ma anche drammi, commedie e biopic) si riesce ad avere una visione più piena e rotonda dell'opera di Calvagna. 
Io fino ad oggi ne ho visti sette (l'esordio del 2000 Senza paura, Il lupo, Non escludo il ritorno - il biopic sugli ultimi anni di Califano, nel quale recita in un cameo anche Michael Madsen, fan dichiarato di Calvagna - , La fuga, Cattivi e cattivi, Baby gang - con attori non professionisti - e infine la pellicola di questo topic), non tutti riusciti o quadratissimi, spesso "sporchi" ed imperfetti, ma con la costante di una chiara idea di cinema perseguita con tenacia, fame e tensione artistica.

Si vis pacem para bellum è un classico noir metropolitano con i protagonisti cinici e disillusi dalla vita, ma che in fondo non hanno smesso di sperare in un'occasione di riscatto dal disincanto quotidiano. Insomma il motore di tutto il cinema noir americano degli anni quaranta/cinquanta e di quello francese (noir/polar), ma dentro l'ambientazione di una periferia romana sporca, senza senza regole, onore o leggi. 
Nel cast, oltre allo stesso Calvagna nel ruolo del protagonista, da segnalare la presenza di Massimo Bonetti qui al terzo ruolo con il regista dopo Il lupo e Cattivi e cattivi

Nonostante la fede politica di destra, totalmente opposta alla mia, ho maturato apprezzamento e in qualche modo affetto per il lavoro ostinato, sfrontato, coraggioso e indipendente di Calvagna, oltre ad una condivisione delle sue analisi sul cinema italiano, anestetizzato dai soliti due tre argomenti dei soliti due tre nomi i cui progetti regolarmente ricevono finanziamenti pubblici, mentre chi si arrabatta e riesce miracolosamente a girare, produrre e distribuire (anche nelle sale) un film all'anno viene costantemente tenuto ai margini. Non c'è posizionamento politico in questa considerazione, solo un'amara, necessaria, dolorosa constatazione sullo stato dell'industria (???) del cinema italiano.

Prime video

lunedì 24 ottobre 2022

Victoria Mary Clarke e Shane MacGowan, Una pinta con Shane MacGowan


Nel totale disinteresse degli editori italiani verso la biblografia sui Pogues (sono sempre speranzoso che qualcuno si decida a tradurre e pubblicare almeno Here comes everybody, la storia della band scritta dal membro James Fearnley) spicca, anche per una discreta esposizione mediatica, la recente pubblicazione in Italia de Una pinta con Shane MacGowan, che sarebbe anche uscito in prima edizione oltre vent'anni fa, ma, vista la totale lacuna editoriale sui Pogues, non è proprio il caso di cercare il pelo nell'uovo. Come spiega nell'introduzione Victoria Mary Clark, la curatrice del volume nonchè compagna di vita di Shane, il progetto nasce come una canonica biografia, fatto salvo che, una volta sbobinate le centinaia di ore di interviste e dato forma al testo, VMC si è trovata davanti ad un risultato troppo pulitino che strideva rispetto al mood di "spontaneità macgowaiana" delle interviste. Per questa ragione ha cambiato impostazione, ed ha trascritto integralmente il contenuto delle interviste con il marito. Il risultato è sicuramente interessante e, dato il cattivo rapporto di Shane con stampa e critici, ci permette di entrare sostanzialmente per la prima volta nella sua complicatissima testa. 

I primi anni di vita del giovane MacGowan sono rielaborati con nostalgia ed affetto, nonostante un'educazione sui generis, nella quale gli veniva concesso qualunque vizio, incluso quello di bere alcolici e superalcolici in età prescolastica (e insomma, qualche attenuante per le sue tante dipendenze future, forse ce l'ha), ma vissuta felicemente per lo stile di vita da fattoria, i tanti parenti attorno, gli animali, la libertà della campagna. 

La parte che ho trovato più interessante della biografia è quella del periodo punk di Shane, che era al posto giusto (Londra) al momento giusto (1976/77) e che ritiene, non è l'unico, che il movimento punk, quello vero, quello pericoloso per le band e per chi si atteneva ai quei codici di outfit, sia durato giusto una manciata di mesi. E' questo un periodo in cui le risse e le imboscate sono all'ordine del giorno, e Shane impara (e ci spiega) come comportarsi una rissa, come darle e come incassare. 

Il racconto sul periodo Pogues è purtroppo carico di tensioni e di rancore. Verso Elvis Costello, verso gran parte del resto del gruppo, in qualche caso ritenuto anche tecnicamente inadeguato (Jem) e verso la produzione discografica a lui imposta che, dopo If I should fall from grace with god (terzo della discografia), è andata in una direzione contraria a quella desiderata da Shane, che arriva esausto e disinteressato agli ultimi tour. Costanti del racconto dell'irlandese sono digressioni culturali e letterarie, magari non sempre a fuoco, ma che dimostrano il suo cospicuo bagaglio culturale. E' raro trovare memorie di rockstar infarcite di comparazioni tra Joyce, Beckett o Behan. Meno anomalo, ma comunque non così diffuso, è anche l'amore di Shane per ogni tipo di genere musicale, in un range che, oltre a quelli ovvi (punk, traditional, folk) si sposta imprevedibilmente dal soul, al reggae al cajun, giusto per limitarsi a qualche esempio.

Insomma il libro funziona, anche se a tratti si impantana un pò, a mio avviso per l'eccessiva invadenza della curatrice (la Clarke) che interrompe non sempre opportunamente il flusso di coscienza del marito, talvolta anche in maniera irritante ed inutile, quasi nell'inconsapevole intento di mettere sè stessa e non Shane sotto i riflettori. 
Ovvio che, trattandosi dell'unico volume tradotto in italiano su Shane (e, indirettamente, sui Pogues), non sono queste facezie ad impedirmi di consigliarne caldamente la lettura.

lunedì 17 ottobre 2022

Capitano Kòblic (2016)


Argentina 1977. Il capitano della marina argentina Tomas Kòblic è ai comandi, a sua insaputa, di uno dei tanti, tragici, famigerati, voli della morte, in cui gli sgherri della dittatura fascista gettavano in mare i prigionieri politici (ancora vivi) per far sparire i corpi. Sconvolto da tanta atrocità, Kòblic diserta e, per nascondersi alle autorità militari,  si rifugia nella pampa argentina più povera e dimenticata, aiutato da un vecchio amico che possiede una piccola compagnia aeronautica di disinfestazione dei campi.

La ferita della dittatura del generale Videla, il cui colpo di stato organizzato dagli USA di Henry Kissinger mise al potere l'esercito e diede il via a persecuzioni, imprigionamenti, torture, uccisioni e desaparecidos, è, necessariamente, sempre aperta, nel popolo argentino. 
In attesa di vedere il recentissimo Argentina, 1985, ho recuperato questo film di qualche anno fa, che con Argentina, 1985 condivide il protagonista: l'immenso Ricardo Darìn. 
Partendo dai drammatici fatti di quegli anni, il regista Borensztein, ambienta le vicende del protagonista in una classica terra di frontiera, dove il tempo sembra non essere mai passato e non passare mai e dove c'è l'omologo dello sceriffo che ha potere di vita e di morte sulla povera gente. In pratica un western (analogia esplicitata dalla sequenza clou verso la conclusione del film), ma anche, per l'angosciante sensazione del protagonista di non avere vie d'uscita, un noir d'altri tempi. 
Superfluo affermare come Darìn sia perfetto nel ruolo, interpretato per sottrazione, perchè tanto l'attore argentino lo è sempre, impeccabile. Ma convincente lo è pure, nella sua placida perfidia, il villain Velarde, interpretato con misura da Oscar Martìnez. 

Anche se gioca coi generi sopra citati, Borensztein tiene sempre salda la leva del cinema di denuncia, e quando, nel flashback finale, vengono mostrate per intero le vicende che hanno portato Koblìc alla diserzione, deflagra tutto il dramma degli oppositori argentini e, con esso, l'atroce, ottusa, implacabile brutalità dei bastardi agli ordini di Videla.

Il film è consigliato, soprattutto, a chi queste cose ancora non le conosce o, peggio, a chi le ha giustificate nel nome di una democrazia da esportare che nascondeva ben altri obiettivi politico-economici.


Prime Video

lunedì 10 ottobre 2022

Ministri, Giuramenti (2022)


Dopo un EP, Cronaca nera e musica leggera, che nelle intenzioni doveva fotografare una fase creativa di maggiore introspezione e che invece, a seguito di covid e blocco forzato delle attività, è venuto fuori ancora più incazzoso del solito, per i Ministri erano maturi i tempi per il ritorno al formato full lenght, atteso da quattro anni. 
Allora il titolo dell'album era Fidatevi, oggi è Giuramenti, quasi a cercare una totale sintonia fideistico-emozionale con il proprio pubblico. 

Il nucleo storico della band (Davide Autelitano - voce e basso - ; Federico Dragogna - chitarre -  e Michele Esposito - batteria - ) è arrivato alla soglia dei quarant'anni d'età ed è evidente che l'approccio creativo non può e non deve essere quello di venti anni fa, ma ciò che definisce l'onestà intellettuale di un artista è anche la capacità di bilanciare l'impeto giovanile con la riflessione acquisita col passare del tempo, e in questo credo che Giuramenti sia un disco perfettamente riuscito. 
I testi dei nove pezzi (per trentacinque minuti di durata) contenuti nel lavoro sono, come da tradizione, riluttanti inni generazionali che sembra volino lontano, nel surreale, per poi piazzare improvvisa e dolorosa la coltellata nelle carni marcie di un Paese ("arrivi a fine mese / solo se è febbraio" da Numeri) sordo ad ogni richiesta di aiuto del tessuto sociale.
Dal punto di vista stilistico rabbia e rassegnazione si alternano, in una raccolta di canzoni che a mio parere contiene almeno tre pezzi tra i migliori mai incisi dai Ministri (Scatolette; Documentari; Numeri) e che riesce comunque a mantenere, anche nella restante tracklist, il solito livello d'eccellenza cui la band ci ha abituati, in ambito indie italiana.

Siamo in un periodo storico atroce, dopo più di mezzo secolo torniamo a lambire un rischio che pensavamo archiviato per sempre, quello dell'utilizzo di armi atomiche. Gli artisti possono recitare un ruolo prezioso nel prendere posizione e raccontare lo smarrimento di tanti davanti ad una spirale che sembra senza fondo. 
Questo compito, un pò come Guccini che in Eskimo poteva permettersi di cantare  "tu giri adesso con le tette al vento / io ci giravo già vent'anni fa", i Ministri lo svolgono da sempre, visto che attraverso titoli quali  "I soldi sono finiti" e "Tempi bui", tre lustri fa cantavano di uno strisciante disagio generazionale che, nel frattempo, si è fatto esplosivo.
Basterebbe questo, ma non possiamo dimenticare l'instancabile contributo alla musica altra italiana, che non si rassegna ai personaggi preconfezionati perfetti, anche nelle provocazioni, per le prime serate televisive o per Sanremo.
Viva i Ministri!

lunedì 3 ottobre 2022

George Simenon, I fantasmi del cappellaio (1949)


Fine anni quaranta, la cittadina francese di La Rochelle vive nel terrore per la presenza di un assassino che sta uccidendo una dopo l'altra donne anziane. Kachoudas, un sarto immigrato armeno, scopre casualmente un indizio che sembra accusare per gli omicidi seriali il rispettabilissimo e ben inserito cappellaio del paese, Leon Labbè.

I fantasmi del cappellaio è considerato uno dei più importanti libri noir di tutti i tempi. E' un romanzo che esula dal ciclo di storie che Simenon ha scritto con protagonista Maigret e, forse, proprio per questo, lo scrittore francese ha potuto operare in piena libertà e, soprattutto, fuori dai canonici tempi/vincoli delle indagini poliziesche. A dimostrazione di ciò, la tensione che regge la storia non è costruita sul mistero dell'identità dell'assassino che, prima ancora ci si cali nel mood della narrazione, è sostanzialmente svelato a pagina otto. Piuttosto Simenon il meglio lo dà nel raccontare, dalla soggettiva del cappellaio, la quotidianità di due personaggi, Labbè e Kachoudas, teoricamente divisi solo da una stessa strada, al punto che , tende permettendo, riescono a vedere uno nelle stanze dell'altro, vivendo così un pò nella pelle del rispettivo dirimpettaio, ma in realtà separati da una solida barriera sociale.

Questa condizione è descritta efficacemente dall'autore, che si sofferma sulle classi dei due protagonisti: quella del cappellaio, benestante e ben inserito negli ambienti locali, e quella del piccolo sarto, al contrario emarginato e tenuto a debita distanza, anche quando tenta di confondersi tra gli altri avventori al Cafè des colonnes, abituale ritrovo degli uomini del posto.  Una condizione che però, chissà, per Kachoudas potrebbe mutare, grazie alla taglia di ventimila franchi promessa a chi darà indizi concreti alla polizia per debellare la minaccia del serial killer. Una polizia che, a differenza dei settantacinque romanzi con protagonista Maigret, viene tratteggiata come incompetente e, impersonata dal commissario Pigeac, vanesia e ottusa. 

Simenon mostra la psicologia del serial killer con una modalità in netto anticipo su molta letteratura di genere a venire, scavando nell'impulso ad uccidere dell'assassino ben oltre il compimento del suo piano razionale, che, infatti, quando termina gli lascia un senso di vuoto, così come in anticipo sui tempi è la descrizione, anche qui lasciata tra le righe, dell'inconscio desiderio di essere catturato. 

L'edizione di Adelphi che ho letto riserva poi una sorpresa a quanti, come faccio io abitualmente, si immergono nella lettura senza vivisezionare indice o appendici del libro. La narrazione si conclude infatti a "sorpresa" quando mancano una settantina di pagine alla conclusione del volume, lasciandoti di sasso. Il motivo è presto detto: in coda al romanzo l'editore ha aggiunto la prima stesura di Simenon, dal titolo Il piccolo sarto e il cappellaio, molto più breve, che si fa apprezzare per il rovesciamento della prospettiva, da Lubbè a Kachoudas, e per un finale differente. Anzi, un doppio finale, perchè l'autore, evidentemente irrequieto sullo sviluppo della sua storia, ha sviluppato una conclusione alternativa (anch'essa presente in questa edizione). 
Entrambe le conclusioni non valgono comunque quella drammatica e amara, della versione definitiva.