lunedì 30 novembre 2020

Ritmo Tribale, La rivoluzione del giorno prima


Con il vecchio frontman Edda ormai definitivamente impegnato nella propria carriera solista, tornano i milanesi Ritmo Tribale, a più di vent'anni dall'ultima uscita discografica (Bahamas, 1999), quando ormai non li aspettavamo più.

E sarà che pubblicare un disco dopo così tanto tempo e giunti ad una certa età può aver levato dalle spalle dei Tribali ansia da prestazione e paura di toppare, ma La rivoluzione del giorno prima riesce ad essere un vero e proprio ritorno a quella stagione forse irripetibile per il rock indipendente italiano, gli anni novanta, senza mai risultare derivativo o auto-celebrativo. Forse perchè i RT, di quella stagione, non recitarono il ruolo di comparse ma di protagonisti.

Provocatoriamente l'album si apre con una intro che avvolge ancora di più all'indietro il nastro del tempo, esattamente a cinquant'anni fa (quando i giovani la rivoluzione volevano farla veramente) e ad uno dei capolavori di Elio Petri, quel Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di cui viene riportato il monologo reazionario di un maestoso Gian Maria Volontè (spero il film sia patrimonio comune, in caso contrario potete guardare qui la sequenza, al minuto 03:25). Poi si parte davvero, con la combo Le cose succedono e la title track, due pezzi che mettono subito in chiaro la situazione, la band non è tornata per finta, l'urgenza comunicativa è intatta, le canzoni trascinanti.

Ovvio, il chitarrista e, dopo l'abbandono di Edda, cantante Scaglia ha una performance vocale diversa da Edda, tuttavia, ascolto dopo ascolto, si entra in sintonia con il suo stile e la sua personalità, a volte debitrice a Manuel Agnelli altre a Giovanni Lindo Ferretti (come nel caso di Resurrezione show, sebbene sia una cover di The death and resurrection show dei Killing Joke), ma dalla cifra complessiva coerente con il mood musicale proposto. Milano muori è l'omaggio corrosivo alla città che ha fatto da palcoscenico all'attività dei Ritmo Tribale, mentre Jim Jarmush, tra White riot dei Clash e Sui giovani d'oggi ci scatarro su degli Afterhours, il punkettone con il ritornello più azzeccato e condiviso degli ultimi anni ("voglio i capelli di Jim Jarmush/voglio i capelli di Jim"), soprattutto per tutti quelli con problemi di alopecia più o meno gravi. Chiude questo viaggio da otto tracce (più l'intro) per una quarantina minuti di durata Buonanotte, un pezzo riproposto dalla band oltre venticinque anni dopo la sua prima apparizione su Mantra. Il tempo l'ha trasformato da un indie-rock tirato e incazzoso in una ballata suggestiva ed delicata. 

Non ha invece scalfito, il tempo, la cazzimma dei Ritmo Tribale, nuovi sotto molti aspetti, ma riconoscibilissimi per classe e tiro. La domanda è: sono tornati per restare?

giovedì 26 novembre 2020

The Boys, stagione due


Dopo la folgorazione della prima stagione di The Boys, devo ammettere che attendevo con una certa curiosità il prosieguo delle avventure di Billy Butcher e soci, minuscoli Davide contro il gigante Golia della Vaught e dei suoi "super", The Seven.

Com'è andata? Beh, onestamente così così. L'elemento di maggiore delusione è stato l'ammorbidimento del gruppo dei buoni che, assecondando il trend canonico della serialità, è passato da comportamenti border-line, cinici e spigolosi a pattern più di prassi che prevedono sentimento, razionalità e precisi codici eroistici. Insomma si è persa un pò di imprevedibilità, puntando decisamente sulla fidelizzazione dello spettatore nei confronti dei characters. Per fortuna ci sono i villain, che nel mondo di The Boys sarebbero poi anche i super-eroi, i buoni. Quelli fortunatamente non hanno smarrito carica reazionaria e strafottenza (in questo Homelander/Antony Starr, episodio dopo episodio, è insuperabile, fino alla sequenza finale della masturbazione sulla cima di un grattacielo, con cumshot sulla città) garantendo piena continuità con la prima stagione. Tra i nuovi arrivi molto efficace l'inserimento nei Sette di Stormfront (interpretata da Aya Cash), che in quanto a sadismo ed "evil agenda" si staglia per distacco su tutti. Altra gradita new entry è quella del nuovo CEO della Vaught, Stan Edgar, interpretato da Giovanni Esposito.

Positive sono anche le varie letture di sottotesto inerenti la modalità di gestione dei leaks (compound V) delle multinazionali, il tema delle fake news e della manipolazione della verità attraverso meme, hashtag e social, qualche gustosa stilettata ai cine-comics e ai loro autori nerd ed infine, attraverso il fato di The Deep e di A-Train,  il subdolo ruolo delle sette religiose simil Scientology.

Devo poi esprimere tutta la mia gratitudine per la scelta della colonna sonora, vista la conferma dell'"endorsement" con Billy Joel, artista che adoro e che canto allo sfinimento, protagonista assoluto del commento musicale nonostante l'utilizzo di pezzi minori del suo fantastico repertorio, quali Pressure (utilizzato in maniera esaltante sulle prime sequenze dell'episodio 2X1); Only Human (Second wind) (per il quale si è addirittura recuperato il francamente inguardabile video ottantiano), un divertente sing-along di Hughie e Starlight su We didn't start the fire, fino alla conclusiva ed inevitabile, Only the good die young.

Tornando alla storia, registro la non banale decisione degli sceneggiatori di chiudere tutti i plot aperti nella prima stagione, concludendo sostanzialmente senza cliffhanger la seconda, sganciando così i telespettatori dall' "obbligo" di proseguire la visione per giungere al termine del plot. Una scelta magari dettata dall'incertezza sulla prosecuzione della serie (comunque la terza stagione pare proprio si faccia), ma che, da disintossicato dalla serialità industriale, ho molto apprezzato.

lunedì 23 novembre 2020

Thundermother, Heat wave



Attiva da una decina d'anni, ma fresca di un robusto rimpasto di line-up, la all-female band svedese delle Thundermother (basso, chitarra, batteria, voce) arriva con Heat wave al quarto lavoro di studio.
La ascolto per la prima volta e quindi nulla posso dire sulle loro origini e sulla (eventuale) evoluzione stilistica sviluppata, quindi mi limito a riportare le mie impressioni, che sono quelle di trovarmi al cospetto di un robusto rock/arena-rock con rimandi ai gloriosi anni settanta/ottanta e al revival per un certo tipo di sonorità. Quali sonorità? 
Beh, volendo rimanere nel benchmark del rock al femminile i collegamenti sono doverosi: le Heart del periodo Mutt Lange, le Runaways, Joan Jett (Back in '76 fa scopa con I love rock and roll) pur senza farsi mancare episodi più tosti, che richiamano, nel bersaglio piccolo Danko Jones, e in quello grande gli immancabili AC/DC.
Uno ascolta un disco così e pensa, si carino, ma tutta roba derivativa e già ascoltata. 
Vero. Ma posto che questo discorso varrebbe per il novanta per cento del rock (e del metal) che gira oggi, o, perlomeno, che gira sui miei devices, c'è da puntualizzare come elaborare pezzi dal grande impatto anthemico quali Dog from hell; Back in '76; Into the mud (tra i Motorhead e i Motley Crue, se posso osare); la title track o Mexico (con tributo iniziale agli ZZTOP), beh, non è proprio roba che si compra tutti i giorni dal pizzicarolo.
E poi le ragazze appaiono genuine e non artefatte, che, di questi tempi in cui le major spingono il metal al femminile, non è elemento scontato.

giovedì 19 novembre 2020

S is for Stanley (2016)


Quello che rende significativo un documentario su un personaggio già ampiamente coperto da innumerevoli operazioni analoghe è trovare una chiave di lettura che dica a fan e curiosi qualcosa di diverso, di inedito sul personaggio in questione.

E se è vero che i contributi di approfondimento sulla vita e le opere di Stanley Kubrick non si contano, è altrettanto vero che con S is for Stanley il cineasta italiano Alex Infascelli ha trovato una nuova e sorprendente luce per inquadrarlo. Questa luce si chiama Emilio D'Alessandro, ed è stato l'autista e il tuttofare del Maestro per qualcosa come un quarto di secolo (suddiviso in due periodi), a partire dal 1971 e dalla lavorazione di Arancia meccanica.

Il documentario è tratto dall'autobiografia di D'Alessandro (Stanley Kubrick e me), e narra due vite in parallelo, quella di Kubrick, ovviamente, ma anche quella, non meno avventurosa di Emilio. E se l'interesse iniziale è tutto spostato verso uno dei più importanti registi di tutti i tempi, nel corso della visione lo stesso si sposta verso questo pacato immigrato laziale con il sogno di diventare pilota professionista riciclatosi per una casualità nella persona a cui Stanley affidava le incombenze quotidiane a cui teneva maggiormente.

D'Alessandro racconta (in inglese, probabilmente per una maggiore vendibilità del prodotto nei mercati stranieri, ma forse anche perchè dopo tanti anni vissuti in Inghilterra gli viene naturale) delle tante manie e delle vere e proprie fissazioni del regista, che emergono grazie agli innumerevoli bigliettini che Kubrick lasciava al suo tuttofare (conservati da Emilio e letti in maniera incantevole dal doppiatore Roberto Pedicini, storica ed inconfondibile "voce" di Kevin Spacey), del suo sconfinato amore per ogni vita animale e del suo modo tutto particolare di dimostrare affetto. Come nella fase finale della sua vita, quando, al colmo della gioia per il ritorno di Emilio (tornato al suo paese, Cassino, per alcuni anni), ha voluto regalare a lui e alla moglie due affettuosi cameo nella sua opera finale, Eyes wide shut.

Insomma un documentario riuscitissimo ed emozionante, una testimonianza affettuosa ed incantevole, non solo per i fans di Kubrick.


S is for Stanley è disponibile su Rai Play


lunedì 16 novembre 2020

Justin Townes Earle, The saint of lost causes . Ricordando Justin Townes (1982/2020)


Milano, Rolling Stone, anno 1998. Steve Earle suona con i suoi Dukes nell'ambito del tour dell'album El corazon. Il concerto è coinvolgente, Steve che l'aveva iniziato (come d'abitudine) diffidente ed imbronciato, si è progressivamente sbloccato, dando vita ad una performance memorabile. Sui bis presenta uno speciale chitarrista aggiunto, suo figlio adolescente Justin Townes che, visibilmente felice, emozionato ed anche discretamente impacciato, si produce in un breve assolo. A vederli dal pubblico davano la percezione di un'idilliaca rappresentazione del rapporto recuperato tra un padre problematico (droga, arresti, violenze) e il proprio figlio. 

Quando ripenso a Justin Townes Earle, nonostante nel tempo sia riuscito a ritagliarsi un proprio importante spazio nella musica, è spesso questa l'immagine che mi torna in mente (col beneficio di un dubbio, non sono certo che l'episodio sia avvenuto nel tour di El corazon o invece in quello di Trascendental blues, tre anni dopo, visto che entrambi gli show si svolsero al compianto Rolling Stone ed è passato del tempo). A giudicare da come, nella sua carriera a venire, Justin Townes abbia continuamente tentato di elaborare "il lutto" dell'assenza paterna, si deve essere trattato di una delle poche eccezioni di gioia nel rapporto col genitore. Ma che JT fosse destinato ad una vita di talento e di sofferenze, per chi crede nel destino di un nome (nonchè nella genetica), era forse già scritto proprio nel nome che il padre scelse per lui, quel Townes (Van Zandt) suo maestro di arte e, purtroppo, di dipendenze (anche lui morto prematuramente a causa degli abusi da sostanze stupefacenti), oltre che dalle sue stesse abitudini , praticate almeno fino alla metà degli anni novanta.

L'adolescente felice che saltellava sul palco imbracciando la sua Fender, da lì a poco avrebbe lasciato il posto ad un uomo che non ha avuto paura di mostrare cicatrici e rancore attraverso la sua arte, anche in maniera esplicita, fino alla pubblicazione di due album "gemelli" usciti a pochi mesi di distanza tra il 2014 e il 2015, ed intitolati, quasi a voler dire: "non serve nemmeno che li ascoltiate, il messaggio è nel titolo": Single mothers e Absent fathers.

Devo essere onesto, a parte l'elemento curiosità di ascoltare la proposta del figlio di uno dei miei eroi musicali, non ho mai "coperto" la carriera musicale di JT, limitandomi a dedicargli giusto una recensione, in occasione dell'uscita del suo disco del 2012 (qui) più una playlist monografica l'anno successivo. Lo stile che si era ritagliato Earle jr, comprendente old time music, folk, ballate, country e blues (molto in analogia con l'ultima parte della carriera del padre), coniugato a liriche spesso malinconiche e suggestive, era certamente interessante e rientrava appieno nella mia tazza di tè, pur tuttavia senza riuscire, per quanto mi riguarda, a stagliarsi con personalità sulla folta concorrenza.

Non di meno, per ragioni che forse non sarei in grado di spiegare, la sua prematura morte mi ha colpito.

Questa recensione è quindi, in parte, solo una scusa per parlare di un (altro) artista che non è sopravvissuto ai suoi demoni, facendosi probabilmente (la causa di morte non è stata definita, anche se si sospetta un overdose) sopraffare da quello che assumeva per alleviare il dolore. 

Quando è stato trovato morto nella sua abitazione di Nashville, il 20 agosto scorso, Justin Townes aveva 38 anni. Un anno prima aveva rilasciato l'ottavo disco (in dodici anni) della sua produzione, a detta di molti recensori, il suo migliore. A riascoltarlo oggi è facile cadere nella trappola di individuare indizi che potessero condurre al suo "desiderio di morte", tuttavia, più verosimilmente, al netto di una copertina davvero premonitrice, l'album non è altro che la continuazione, in musica e versi, della sua arte, contraddistinta da una folta coltre di malinconia.

E' un personaggio da noir anni quaranta, il primo che emerge dalla title track, deputata all'apertura del disco, certamente uno dei pezzi più struggenti dell'intera tracklist, splendido nell'inquadrare un protagonista indurito e reso cinico dalla vita ("First you get bad/ Then you get mean / Then there's nothing else but grow cold / And prey the saint of lost causes"). Un personaggio insomma che avrebbe fatto un figurone su Darkness on the edge of town di Springsteen, ma anche su The hard way, del babbo. 

Il disco (che sfiora l'ora di durata) è ben assemblato dentro l'alternanza dei pezzi, assecondando un'amalgama che lo fa scorrere in maniera coerente. Se non mancano i brani introspettivi (oltre alla citata title track dico Morning in Memphis; Frightened by the sound; Over Alameda), JT non fa mancare nemmeno il divertimento, con due irresistibili tracce di revival rock che farebbero la felicità di Wayne Hancock (Flint City shake it e Pacific Northwestern blues); un vivace folk rurale su liriche ecologiste (Don't drink the water); un languido bluesettone (Appalachian night) e un punk-folk da perfetto busker (Ain't got no money). 

Un album insomma che ben rappresenta la summa stilistica di un artista. Difficile poi mantenere la giusta distanza critica ed evitare di cadere in meste riflessioni da senno del poi quando le ultime strofe che Justin Townes Earle ha lasciato al pubblico, in coda all'ultimo brano della tracklist del suo ultimo disco (Talking to myself) sono: "I just can't remeber when / All the drugs begin to fail me / Left me only with a lonely child to fend / Cause I tried to love and I failed / I've put my heart on a shelf / These are things I say only when I talk to myself / These are things I say only when I talk to myself". 

giovedì 12 novembre 2020

Forgotten


Una famiglia, padre, madre e due figli maschi adulti, apparentemente felice, sta viaggiando in auto verso la propria nuova casa. Jin-seok, il più piccolo dei due figli, si sveglia di soprassalto da un incubo, ma viene subito rasserenato dalla madre, seduta accanto a lui. Jin-seok vive nel mito del fratello maggiore, che, nonostante un incidente gli abbia messo fuori uso una gamba, è un autentico fuoriclasse in ogni campo e disciplina. La famiglia arriva alla nuova, bellissima abitazione, e Jin-seok viene avvisato dai genitori del divieto di entrare in una stanza dove il precedente proprietario ha lasciato effetti personali che recupererà in un secondo momento. Quella stanza provocherà in Jin-seok incubi ricorrenti.

Film sul quale ci sarebbe da dire il meno possibile, come ho tentato di fare nella sinossi, per godersi colpi di scena, tensione e una sceneggiatura ad orologeria che ne accompagna la visione. Scritto e girato da Jang Hang-jun, Forgotten è un film di vendetta (sotto-genere che torna spesso nel cinema asiatico) originale ed avvincente, nel quale lo spettatore, già dai primi istanti di visione, come in un viaggio onirico, capisce che quello a cui sta assistendo non torna, ma, anche il cinefilo più agguerrito, che con l'inarrivabile Old Boy di Park Chan-wook pensa di averle viste tutte, deve attendere il terzo atto della pellicola perchè l'intreccio riveli tutti i suoi diabolici ingranaggi. 

Non mi stanco di ripeterlo e forse i lettori del blog si sono stufati di leggerlo, a conferma del momento di superiorità del cinema di quelle latitudini (Corea del Sud, in questo caso), la prova attoriale collettiva è maiuscola, così come tutto il comparto tecnico: regia, fotografia, montaggio, commento sonoro. Nonostante la tensione e l'angoscia guidino la visione della storia, nemmeno in questo caso il regista dimentica il passaggio di denuncia sociale, citando la terribile crisi finanziaria che ha sconvolto quella regione del mondo nel 1997, gettando nella povertà milioni di persone (consiglio il l'efficace film di denuncia coreano Default, con Vincent Cassel, del 2018).

Anche questo è un film da non perdere, a patto di essere consapevoli di correre il rischio di entrare nella dipendenza da film asiatici, come è successo, ormai da tempo, a me.

P.S. Forgotten è disponibile su Netflix

lunedì 9 novembre 2020

Hellbound glory, Pure scum

Dietro un oltraggioso titolo da punk rock (non a caso gli Hellbound Glory dichiarano tra le loro influenze, oltre ai "doverosi" Hank Williams Sr e Jr, i Nirvana) torna, a tre anni dal precedente Pinball, la band di Leroy Virgil, una delle migliori e più sottovalutate (forse per la loro provenienza, che non è il Tennessee e nemmeno il Texas, ma il più marginale Nevada) formazioni country USA.

Pure scum, il sesto disco in dodici anni di carriera è il "solito" gioiellino di roots country dalle melodie irresistibili che sovente si intrecciano con testi fortemente debitori all'outlaw, infarciti come sono di temi legati ad esistenze alla deriva, abuso di droghe e quotidiana disperazione. Le carte sono subito messe in tavola con l'opener Ragged but alright, midtempo trascinante che potrebbe diventare la risposta di chiunque di noi alla domanda "come va?" formulata in questi tempi bastardi. Un disco con queste caratteristiche, concedetemelo, non può che raccordarsi vistosamente anche al terzo grado della stirpe hankwilliamsiana, cioè quel Hank III, perso da sette anni in chissà quali abissi esistenziali, che viene evocato nell'attacco di violini di Loose slots, così come nelle liriche di Dial 911 (dal pattern che più classico non si può). 

Il disco è ottimo, qualunque amante del pure country sono certo non se lo sarà fatto sfuggire. Visto che sugli Hellbound Glory ci ha puntato forte Shooter Jennings, qui alla sua seconda volta da produttore, speriamo questa grande band raggiunga la visibilità che merita.

giovedì 5 novembre 2020

MFT, settembre & ottobre 2020

ASCOLTI

Hellbound Glory, Pure scum
Justin Townes Earle, The saint of lost causes
Fontaines D.C., A hero's death
Sturgill Simpson, Cuttin' grass
Kyle Nix, Lightning on the mountain & others short stories
Enslaved, Utgard
Protest the hero, Palimpsest
Raven, Metal city
Dead Lord, Surrender
Armored Saint, Punching the sky
Benediction, Scriptures
Incantation, Sect of vile divinities
Faster Pussycat, ST
Bruce Springsteen, Letter to you
Carlos Vives, Cumbiana
Raul Malo, The Mavericks en espanol
Ritmo Tribale, La rivoluzione del giorno prima
Eels, Earth to Dora
Elvis Costello, Hey, clockface
Rev. Greg Spradlin & The Band of  Imperials, Hi-Watter


VISIONI

Zero Dark Thirty
(3,5/5)
Outrage (3,75/5)
Mission Impossible - Fallout (2,75/5)
La notte ha divorato il mondo (3,75/5)
Genitori quasi perfetti (3/5)
Unit 7 (3,5/5)
Dolor y gloria (3/5)
Fraulen (2,5/5)
The Outsider (2018) (3,25/5)
La sindrome di Stoccolma (3,5/5)
A beautiful day (2017) (3,5/5)
The host (3,75/5)
The chaser (4/5)
Bianca (3,5/5)
L'ufficiale e la spia (3,75/5)
Matinee (3/5)
The Zero Theorem (3,5/5)
Solo gli amanti sopravvivono (4/5)
Pusher II - Sangue sulle mie mani (3,5/5)
The rhythm section (2/5)
Memories of murder (3,75/5)
Paul, Mick e gli altri (3,75/5)
Message from the king (2,5/5)
Georgetown (3/5)
Moon (3,75/5)
Diamanti grezzi (4/5)
Immortals (3,75/5)
Hit - La vendetta (3,25/5)
Cristian e Palletta contro tutti (2/5)
JoJo Rabbit (3,5/5)
Clockers (4/5)
Anon (3,75/4)
7 psicopatici (3,75/5)
Fino all'inferno (D'Antona)  (3/5)
A mano disarmata (2,5/5)
Un figlio di nome Erasmus (2/5)
Tre colori: Film blu (3,75/5)
Brightburn - L'angelo del male (3/5)
Postcards killings - Cartoline di morte (2,5/5)
Forgotten (4/5)
Gamberetti per tutti (2,5/5)
Palm Springs - Vivi come se non ci fosse un domani (3/5)
Fulci for fake (3/5)
DjangoUnchained (3,75/5)
Frank Costello faccia d'angelo (3,75/5)
S for Stanley (4/5)
Kill zone - Ai confini della giustizia (3,75/5)
Lenny (4/5)
Sono solo fantasmi (1,5/5)
Bronson (3,75/5)



Visioni seriali

The Boys, 2 (3/5)
Perry Mason (2020) (3,5/5)



lunedì 2 novembre 2020

Karen Souza, Essentials (2011)/ Essentials II (2014)

Argentina di La Pampa, Karen Souza inizia la sua carriera nel music business prestando la propria voce a composizioni di musica elettronica, per poi esordire a proprio nome nel 2011 attraverso uno smooth jazz elegante e mainstream, e con il primo di quelli che saranno due album di cover, Essentials.

Mi sono imbattuto in lei grazie alla cover, particolarmente suggestiva, di Creep dei Radiohead, posta sui titoli di coda dell'ottimo The zero theorem di Terry Gilliam, e da lì ho voluto approfondire, concentrandomi su questi due dischi di reinterpretazioni ed ignorando invece i tre di inediti che fanno da corredo agli ultimi dieci anni di produzione della Souza.

Come spesso accade in operazioni analoghe a questa, nelle due tracklist convivono rivisitazioni efficaci, che donano nuova linfa a pezzi noti, assieme ad altre più fiacche e prevedibili, che configurerei sotto la definizione di musica per ascensori. Nella prima categoria, oltre alla già citata Creep, troviamo una sorprendente e confacente (alle liriche) versione di Do you really want to hurt me? dei Culture Club, nonchè una New Year's day degli U2 offerta in una evocativa versione da night club e una convincente doppietta blues pescata da due artisti agli antipodi: Ian Dury (Wake up and make love to me) e Creedence Clearwater Revival (Have you ever seen the rain).

I miei personalissimi highlights del secondo volume partono invece dalla felice intuizione di reinterpretare un pezzo, Skin trade dei Duran Duran, che adoro, come tutto l'album nel quale era contenuto (Notorius), seguito da The sound of violence del duo elettronico francese Cassius e da Everyday is like sunday, di Morrisey.

Consapevole che la curiosità derivante da queste operazioni si sfoga nell'andare ad ascoltare le versioni proposte di pezzi altrui (e spesso lì si esaurisce), mi sono limitato a citare i brani che mi hanno maggiormente colpito, lasciandovi il piacere di scoprire gli altri, che coprono in maniera trasversale il pop-rock prendendo in prestito il repertorio di artisti quali Bruce Hornsby,Beatles, Fleetwood Mac, Soft Cell, Police, Michael Jackson, Elvis Presley, REM, INXS e, ovviamente, Depeche Mode (da qualche anno a questa parte sembra impossibile proporre un disco di cover, a prescindere dal genere, senza di loro).