giovedì 30 aprile 2020

5 è il numero perfetto

5 è il numero perfetto - Film (2019) - MYmovies.it

1972. In una Napoli notturna, oscura, inedita per la costanza con la quale viene flagellata dalla pioggia, si aggira solitario Peppino Lo Cicero (Toni Servillo), apparentemente incurante dell'acqua che scende incessante. Il suo obiettivo è la bottega di un artigiano che in realtà svolge l'attività di armaiolo clandestino. Il suo intento è regalare un revolver al figlio, che, come lui ha fatto in passato, svolge l'attività di killer al soldo della camorra. Da lì a poco il suo piccolo mondo, le sue regole, la sua vita cambieranno per sempre.

Esordio alla regia per l'artista multimediale italiano  (fumetti, sceneggiature, musica, cinema) Igort (Igor Tuveri), già autore e disegnatore della graphic novel da cui è tratto il film.
5 è il numero perfetto è davvero un'operazione inedita e coraggiosa per il nostro cinema. Un film atipico, girato con una abilità non da opera prima, che si colloca con visionaria originalità nel filone noir, da cui prende gli stilemi dell'eroe solitario senza nulla da perdere perchè gli è stata tolta ogni cosa, della voce fuori campo, dell'oscurità notturna che tutto avvolge, plasma e modifica, delle imprese spietate ma al tempo stesso romantiche e disperate.
La messa in scena di Igort è sontuosa, le tante sparatorie pagano in maniera esaltante il debito al cinema d'azione orientale (da John Woo a Kim Ji-woon) con degli artistici, splendidi ciuffi di sangue che lasciano il corpo delle vittime appena i proiettili lo colpiscono.
In questo contesto non ci poteva essere interprete migliore di Toni Servillo, per dare volto e fisicità a Peppino. L'attore de Le conseguenze dell'amore, anche con un naso posticcio che gli squadra il viso, si cala perfettamente in questo personaggio pieno di rimorsi e di rancore che torna a vivere e a reclamare vendetta, inizialmente per il lutto che lo colpisce, ma poi per tornare a sentirsi vivo. 
Ottimo anche Carlo Buccirosso, che, nei panni del compare che accompagna Peppino, Totò o' Macellaio, dimostra ancora una volta, e ormai non dovrebbe neanche più essercene bisogno, la sua poliedricità di interprete.

Insomma un film che è un unicum nel panorama italiano (è passato veramente un secolo dai gioiellini pop di Diabolik di Bava o Kriminal di Lenzi) e che, purtroppo, ma inevitabilmente, in sala hanno visto in pochi. 
Il danno è doppio, perchè il film è valido e perchè se 5 è il numero perfetto avesse avuto il successo che stramerita avrebbe potuto aprire la strada ad un nuovo filone di genere, tutto nostrano. 
Un autentico delitto non sia andata così.

lunedì 27 aprile 2020

Cattle Decapitation, Death Atlas (2019)

CATTLE DECAPITATION – Death Atlas

Nell'affollato panorama death metal i californiani (di San Diego) Cattle Decapitation si sono ritagliati, nel tempo, uno spazio di grande credibilità. Attivi ormai da un quarto di secolo, ambientalisti e animalisti convinti e quindi con testi che rispecchiano queste sensibilità, concentrandosi sulle crudeltà degli esseri umani nei confronti sia del mondo animale che, più generale, dei propri simili (attraverso lo sfruttamento del pianeta, le guerre o i genocidi), in vent'anni di produzione discografica, i CD hanno rilasciato otto album, fra cui l'ultimo, del 2019, Death Atlas, oggetto della presente recensione.

Chi, magari anche il sottoscritto, apprezza le sonorità estreme ma teme un pò la monoliticità e l'ossessiva ripetitività del death, può approcciare con fiducia a questo disco, perchè i Cattle Decapitation riescono a mantenere viva l'attenzione dell'ascoltatore per tutti i cinquantacinque minuti dell'opera, in virtù di una tecnica invidiabile e di una capacità di variare mood da composizione a composizione, sia dal punto di vista della costruzione del pezzo che dall'approccio canoro.
Basterebbe già la prima doppietta (dopo il prologo Antophogenic:end trasmission) The geocide/Be still our bleeding hearts a mettere in tavola le poderose carte stilistiche del combo: dopo un attacco in pieno stile death, blast beat e growling a manetta, si passa infatti all'uso dello scream ed a un ritornello in falsetto. Il tutto senza mai perdere la velocità nell'esecuzione. Un lavoro incredibile a livello interpretativo da parte dello storico cantante Travis Ryan e dei suoi affiatati sodali.

Ad intervallare le composizioni, e quindi ad "alleggerire" ulteriormente l'ascolto, la tracklist prevede un paio di interludi parlati (in aggiunta al prologo) con sottofondo ambient (The great dying I e II) e parlato robotico che imbullona le derive black metal allo stile dei californiani. 
Il commiato è affidato alla lunga, magniloquente title track, che muta pelle strada facendo, con passaggi dal death a suggestioni dark, accompagnate dall'uso baritonale della voce, qui in modalità Nick Cave, fino ad un finale in stile sinfonico, per la degna conclusione di un meraviglioso e forse inarrivabile compendio di metal estremo, che continua a crescere senza stancare anche dopo settimane di ascolti.

giovedì 23 aprile 2020

The dirt (2019)

Risultato immagini per THE DIRT FILM POSTER

Da fan della prima ora di questo "mucchio di pagliacci" (traduzione approssimativa del monicker Motley Crue), e avendo già letto l'autobiografia collettiva all'origine della trasposizione, non nascondo avessi una certa curiosità di vedere come le vicende dei quattro Crue potessero essere tradotte in linguaggio cinematografico. 
Il progetto del film su The Dirt, dato il successo dell'autobiografia, dopo aver girato per anni di scrivania in scrivania delle diverse major cinematografiche, ha trovato la sua realizzazione grazie a Netflix, che ne ha prodotto la trasposizione.
L'apprezzamento del film da parte degli utenti della piattaforma di streaming è stato tale da "convincere" Vince, Nikki, Mick e Tommy, che da tempo si detestano cordialmente, a strappare il contratto stipulato solo qualche anno fa, dove si impegnavano solennemente a chiudere per sempre la carriera del gruppo, e tornare per un mega tour estivo (coronavirus permettendo) negli stadi americani in compagnia di Def Leppard, Poison e Joan Jett.

Ma torniamo a bomba. Com'è il film? Beh, si parte bene, con le adrenaliniche ed irriverentissime sequenze iniziali (pronti via un torrenziale squirting, in questo caso indotto da Tommy Lee) sottolineate dall'ottima Red hot, e una prima parte che, alternando un montaggio veloce a fermi immagine, vuole dare, riuscendoci, la percezione della folle velocità alla quale girava, nei primi anni, l'universo Motley Crue.
Tuttavia il film, nel proseguo della narrazione, perde la sua "sporcizia" non riuscendo più a distaccarsi dal canonico racconto "a fasi" di quasi tutti i biopic musicali, oltre ad far prevalere, anche oltre il consentito, la realtà romanzata rispetto ai fatti accaduti, con un finale da overdose, ma di melassa.
La seconda parte della carriera della band (post 1989, anno della pubblicazione di Dr Feelgood) è stata davvero edulcorata in maniera insopportabile (almeno per chi un pò la conosce), oltre ad essere completamente tagliata di una dozzina di anni di storia (1995/2007 , periodo in cui sono usciti due album con formazioni a...geometria variabile).
Si vuole inoltre far credere che la riappacificazione (che ha portato nel 2008 alla pubblicazione dell'ottimo album Saints of Los Angeles)  sia avvenuta  grazie ad un banale colloquio chiarificatore tra amici al bar, molto alla "volemose bene", quando invece, per ammissione degli stessi protagonisti, la riunione si fece, ma si trattò di un incontro complesso, litigioso e affollato dai rispettivi legali.

Nessuna annotazione particolare sulla prova dei quattro attori che hanno impersonato i Crue. Fa sempre un certo effetto vedere il sadico aguzzino "Ramsey Bolton" (l'attore Iwan Rheon) in un ruolo diverso da quello che l'ha consacrato ne Il trono di spade, nello specifico nei malaticci panni di Mick Mars, tuttavia ci si fa l'occhio (oddio, quei parrucconi sono davvero inguardabili). Tra l'altro, scorrendo la pagina wikipedia dell'attore si scopre che il buon "Ramsey" nel 2015 ha anche inciso un disco (non di genere glam metal, ma folk).
Per quanto riguarda il resto della ciurma l'altro viso noto è quello del rapper/attore Machine Gun Kelly nelle ciondolanti vesti di Tommy Lee, mentre non mi fanno suonare nessuna campana Douglas Booth (Nikki Sixx) e Daniel Webber (Vince Neil).

In conclusione, dovessi esprimere un giudizio andrei dall'8 della prima parte al 5 della seconda. Ne uscirebbe pertanto un decoroso 6,5, che a mio avviso bene esprime il valore del film.

lunedì 20 aprile 2020

James Taylor, American standard

American Standard: James Taylor, James Taylor: Amazon.it: Musica

Nonostante la mia  fascinazione per la musica del passato, James Taylor non è mai stato la mia tazza di tè. C'è da dire che il settantaduenne cantautore americano (di Boston), a dispetto dell'enorme notorietà e del successo commerciale (si stima che i suoi dischi abbiano venduto cento milioni di copie), non sia in generale artista molto citato o dichiarato come fonte d'ispirazione, dai tanti nu folkers in giro, forse perchè giudicato poco cool (vuoi mettere, ad esempio, col "maledetto" Nick Drake?), troppo agè o mainstream, vallo a capire.

Ad ogni modo, dopo il ritorno ad un lavoro di inediti del 2015 (mancava dal 2002), molto ben accolto da critica e pubblico, Taylor torna rinvigorito con un disco di cover, American Standard, appunto. A differenza degli altri suoi lavori di questo tipo (Covers, del 2008 e l'EP Other covers, del 2009) l'operazione, come suggerisce il titolo,  abbraccia quell'immenso bacino di musica americana che va dallo swing, al jazz, al dixieland al musical, ricordando in questa filosofia, l'analoga operazione compiuta da Bob Dylan per i suoi ultimi tre lavori (Shadows in the night; Fallen angels; Triplicate).
Il tutto con il suo inconfondibile stile, che emerge nitido "nonostante" il frequente accompagnamento di una band al completo.
Si va da pezzi notissimi, come My blue heaven o Moon River, posti in apertura, Pennies from heaven, Ol'man river, a brani meno conosciuti, ma pieni di swing, come Sit down, you rockin' the boat (dal musical Bulli e pupe), o composizioni che rilanciano il noto impegno sociale del democratico James (You've got to be carefully taught).

Il risultato finale, nel farci riscoprire classici magari non così conosciuti dalle nostre parti, affascina e cattura, per colpa di quel dolceamaro effetto nostalgia di cui il buon James è uno dei più titolati cantori.

giovedì 16 aprile 2020

Gli uomini d'oro (2019)

Gli uomini d'oro - Film (2019) - MYmovies.it

Mi ero ripromesso di celebrare i progetti italiani che in qualche modo tentassero di uscire dai soliti soggetti nei quali la nostra industria cinematografica è precipitata da anni, e lo faccio volentieri con questo Gli uomini d'oro.
Il film di Vincenzo Alfieri (regia, co-sceneggiatura, co-soggetto), liberamente ispirato ad una vicenda realmente accaduta (un furto avvenuto a Torino nell'estate del 1996), ci racconta la storia di due uomini, portavalori delle poste, e dei loro complici, diversissimi tra loro, che per necessità assortite decidono, in maniera astuta e non violenta, di sottrarre tutto il denaro contenuto nel furgone blindato che quotidianamente guidano.

Alfieri mette in scena il film dedicando ai tre protagonisti principali (Morelli, De Luigi, Leo) un capitolo ciascuno ( "Il playboy";"Il cacciatore";"Il lupo") disallineati su tre linee temporali che alla fine si intrecciano, alla Tarantino, per intenderci (e ancora prima alla Rapina a mano armata di Kubrick). Scelta che a mio avviso fa fare uno scatto in avanti alla pellicola, dandogli spessore internazionale e personalità. Molto buono a mio avviso anche lo spunto che origina ognuna delle singole storie, cioè il terrificante (per i tifosi granata) cinque a zero che la Juventus di Vialli e Ravanelli inflisse al Torino nel dicembre del 1995. Il tema degli sfottò tra i tifosi delle due squadre, anche sfociando nei più ignobili cori, resterà sottotraccia per tutto il film, deflagrando nel finale.
Dal punto di vista attoriale non c'è partita. Fabio De Luigi fornisce un interpretazione "all'americana" di un personaggio schivo, frustrato e deluso dalla vita, che controlla a fatica la sua enorme rabbia repressa. Un interpretazione lontana dai canoni classici dell'attore comico, che potrebbe aprire una seconda fase della sua carriera, o almeno, concedergli maggiori possibilità di alternare i suoi canoni (un pò come successe con Abatantuono).

Quello che invece non funziona, a mio avviso, è parte del finale - spoilero - , cioè l'assolutamente inverosimile ritrovamento dei soldi (la prima cosa che la polizia mette a soqquadro in questi casa è l'abitazione) e poi il personaggio dello strozzino interpretato da Gian Marco Tognazzi, troppo abbozzato e caricaturale, con un epilogo che boh, sembra messo lì tanto per tirare le somme.

Il mio personale giudizio finale è comunque positivo, alimentato anche dalla sensazione che il film possa cresce con più visioni.

lunedì 13 aprile 2020

Fulci, Tropical sun (2019)

Fulci - Tropical Sun (2019, CD) | Discogs

E' impossibile, almeno per me, non amare una band che trae il proprio monicker dal nome del mitologico regista romano Lucio Fulci. 
Amarla a prescindere, mi spingo a dire, dal genere musicale proposto. 
Se poi il genere è dell'ottimo e professionale death-metal di scuola americana, la cosa mi viene ancora più facile.
Dopo l'esordio di Opening the hell gates (ne ho scritto qui), ispirato dal film del Maestro Paura nella città dei morti viventi, i casertani Fulci "si occupano" del capolavoro horror del Lucione, quello Zombie 2 vero e proprio cult del genere per una moltitudine di appassionati.
Se da un lato assistiamo ad una conferma, quella della proposta di un death di matrice slam e passaggi doom (come nella reinterpetazione dello strumentale March of the living dead, originariamente composta da Fabio Frizzi per il film), dall'altra non si può che evidenziare i passi in avanti che la band ha fatto in merito a pulizia del suono, produzione e tiro.
Più ancora che nel debutto emergono efficacemente gli inserti (in lingua inglese) della pellicola tributata dal disco, con un intreccio musica-dialoghi che, in una marea di proposte death, rende riconoscibilissimo il marchio dei nostri.

Divertimento assicurato per metallari horror-cinefili, che, come sappiamo, sono davvero tanti.

giovedì 9 aprile 2020

Noi e lo stramaledetto coronavirus

Questa è la quarta settimana di fila che sto a casa (in cassa integrazione dalla mia azienda e in smart working per il sindacato). Prima di questo periodo ho avuto la fortuna di lavorare ininterrottamente per trentadue anni. Ci riflettevo oggi. 
Cioè su come sia dalle vacanze estive della quarta superiore (visto che nell'estate della quinta già lavoravo), a.d. 1987, che non mi fosse capitato di restare tra quattro mura domestiche per un periodo così lungo (che peraltro è verosimile possa proseguire).
E' una sensazione inedita e straniante.
Una delle tante.
Basti pensare a tutte le limitazioni a cui siamo obbligati per la salute nostra e della collettività.
Se solo un paio di mesi fa, a contagio cinese già noto, ci avessero prospettato la condizione in cui oggi ci troviamo, ci saremmo fatti una risata.
E' inquietante il video del 2015  in cui Bill Gates individuava non nelle guerre nucleari, ma nelle pandemie la vera minaccia per l'umanità negli anni a venire, giustificando la propria previsione con gli investimenti pressochè nulli che i Governi avevano stanziato per prevenire questo tipo di eventi rispetto a quelli per gli armamenti.

Non mi sono mai schierato per nessuno dei due partiti che per un pò si sono confrontati sul tema Coronavirus, registro che c'è stato un periodo in cui gli stessi virologi si spaccavano su come il Covid fosse un'influenza un pò più tenace e, al contrario, l'apocalisse.
Ricordo bene ancora oggi quando, il conduttore di una delle più seguite trasmissioni radiofoniche italiane, presente sul palinsesto della radio di Confindustria, si scagliasse ferocemente (come sua abitudine) contro il governo che, nella prima fase, aveva prodotto minime restrizioni alle attività commerciali, tacciandolo, chissà se per spirito di squadra o verve polemica, di aver causato inestimabili danni all'economia per un nonnulla. Ecco, era da tempo che quella trasmissione non mi divertiva più, ma da allora ho smesso definitivamente di seguirla. 
E ricordo come la Lega Calcio, nel pieno dell'incertezza sulla salute pubblica, non avesse trovato di meglio che proporre di disputare un'importante partita di calcio totalmente aperta al pubblico, solo spostandola di lunedì, invece che la domenica.
La partita era Juventus - Inter e se non si è disputata è stato solo per il fermo rifiuto della Società di Milano. Non lo dico da tifoso, mi limito a fotografare un dato di fatto. Quando si è disputata, a porte chiuse, la Juve ha vinto meritatamente (e più d'un giocatore delle due squadre è stato contagiato).

La verità è che nessuno ha mai dovuto fronteggiare un nemico di questa natura, non esiste un manuale a cui affidarsi che ci dica cosa fare a garanzia di pieno successo. Non ancora almeno. E quando l'esibizionismo di taluni scienziati e il cinismo politico si mettono di mezzo, tutto diventa ancora più complicato.
Ci vorrà del tempo per capire se, come e dove abbiamo sbagliato, ma, permettetemi, molto sommessamente di affermare come, stavolta, mi sembra che l'Italia abbia agito meno peggio degli altri stati europei (Inghilterra, Germania) o mondiali (USA) che hanno l'ulteriore aggravante di aver continuato a sottovalutare il contagio anche quando esso si era chiaramente irradiato fuori dalla Cina e stava flagellando il nostro Paese.
Insomma, per una volta non sono i nostri governanti ad aver banalmente parlato di "immunità di gregge" (Boris Johnson, in questi giorni colpito in forma grave dal virus) o di come come il COVID sia stato "praticamente sconfitto" (Trump,a febbraio).
Ho l'impressione che ci sia stata una prima fase (keep calm) nella quale il nostro governo ed enti locali volessero allertare la popolazione senza seminare il panico (da qui l'orribile #milanononsiferma che Sala vorrebbe poter cancellare dalla memoria collettiva) seguita da uno step successivo (ok, panico) nel quale si è presa coscienza dei rischi e si sono attuate, decreto dopo decreto, le norme necessarie (e, speriamo, efficaci).

Ma come al solito ho iniziato parlando della mia situazione per poi divagare. Torniamo a bomba. Con il post del 14 marzo mi lamentavo della nuova condizione di clausura imposta. In realtà, settimana dopo settimana, per quanto le difficoltà ci siano (non abito in un castello e a volte trovare una stanza tranquilla per lavorare è un'impresa) rischio di abituarmi a questa nuova modalità lavorativa. Intendiamoci, continuo a preferire l'ufficio, ma tutto sommato, chi mi conosce lo sa, io sono tipo piuttosto pantofolaio, e quindi stare in casa non è che mi sconvolga la vita. 

E poi, diciamoci la verità, che salvata ci ha dato 'sto virus, rispetto alle terrificanti, temutissime e fantozziane proposte di "gite fuori porta" per Pasquetta?

Siamo gli unici in strada", rider a Milano prendono possesso della ...

lunedì 6 aprile 2020

Albert Cummings, Believe

Believe: Cummings Albert: Amazon.it: Musica

Ogni tanto mi prende la voglia di blues. Non sempre in quelle occasioni trovo musica inedita che mi soddisfi e mi tocca ripiegare sui classici. Stavolta invece a grattarmi con immensa soddisfazione il prurito ci ha pensato Albert Cummings con la sua nuova release, Believe.
Cummings (classe 1968) ha una produzione discografica non vastissima (sette titoli in studio in vent'anni), ma suona la "musica del diavolo" da sempre e ha messo il suo talento al servizio di alcuni tra i migliori bluesman americani (B.B. King; Johnny Winter; Buddy Guy) sviluppando, col tempo, un tocco magari non personalissimo, ma davvero inconfondibile.

Believe consta di undici pezzi, suddivisi in maniera sostanzialmente equa tra cover (cinque) e inediti (sei). L'opener è un classicone, quella Hold on scritta Isaac Hayes e portata al successo da Sam & Dave. Un pezzo trascinante ed irresistibile che ci proietta immediatamente nel mood dell'album: un impasto di soul e blues che, personalmente, mi riporta con la memoria ai primi lavori di Robert Cray (peraltro anche lui fresco di nuova relase).
Rimanendo in ambito cover, non manca la celebrazione di Willie Dixon, tributato con ben due pezzi, l'epocale Little red rooster, con quel pattern capace di spostare le montagne, e My babe. Ci sono poi una Crazy love molto buona, ma che non può rivaleggiare con l'originale di Van Morrison, per il semplice fatto che nessuna cover può farlo, e infine Me and my guitar, nota per la versione di Freddie King.
La coerenza del disco è dimostrata dalla perfetta continuità tra cover e composizioni inedite (tutte firmate da Cummings), che permettono di passare agevolmente da una rodata Hold on alle nuove Queen of mean; Do what mama says o Call me crazy.

In conclusione Believe è un disco se vogliamo anche ruffiano, ma capace di infondere felicità e regalare grandi soddisfazioni. 
Nel caso dovesse prendervi quella voglia di blues, sapete cosa fare.