lunedì 26 giugno 2017

The Dead Daisies, Live & louder



Se, come me, da un disco dal vivo cercate l’immedesimazione totale più che la perizia tecnica o la pulizia del suono e, in ogni momento dell’ascolto, non solo all’inizio e alla fine dei brani, essere trasportati tra la folla scatenata e sudata, Live and louder dei Dead Daisies è decisamente l’album che fa per voi. Superfluo aggiungere che il merito va riconosciuto in larghissima misura a John Corabi e alla sua urgenza comunicativa che lo porta a interagire col pubblico, incitandolo, provocandolo e sollecitandolo continuamente durante la performance della band.
I Dead Deasies hanno tre album all’attivo, di cui solo due con Corabi alla voce, ed è su questi lavori in particolare che si concentra la tracklist, con i brani estratti dall’ultimo Make some noise a farla da padrone. 
Ma il valore e (se vogliamo) l’umiltà della band emerge anche e soprattutto in tributi senza soluzione di continuità alle grandi formazioni del passato, da qui la presenza di ben quattro cover (Fortunate son dei Creedence, We’re an american band dei Grand Funk Railroad, Midnight Moses della Sensational Alex Harvey Band e sette minuti di Helter skelter dei Beatles dentro i quali trova posto anche il riff di Nobody's fault but mine dei Led Zeppelin) e un’esaltante modalità di presentazione dei singoli componenti della band (che si prende tutta la traccia 12) modellata su brevi incipit di brani leggendari (Highway to hell, Living after midnight, Voodoo chile, Walk this way) in cui è onnipresente il singalong dell’audience.

D’accordo, si tratta pur sempre di musica derivativa e di grana grossa, ma oggi in giro ci sono poche band che possono offrire uno sleaze così convincente e un frontman dalle capacità vocali e dalla tenuta del palco pari a John Corabi.

lunedì 19 giugno 2017

Deep Purple, InFinite



La prima volta che ho sentito pronunciare il nome Deep Purple era il 1983, in prima superiore, grazie a Lorenzo, un compagno di classe appassionato di metal (non posso definirlo metallaro, perché esteriormente era – eravamo – più sul nerd), che mi aggiornava sui nomi più in voga del momento e mi riforniva di cassette C90 a tema (la più epocale delle quali fu quella che prevedeva sul lato A Shout at the devil dei Motley Crue e sul lato B Stay hungry dei Twisted Sister). A un certo punto l’amico mi fa, ho scoperto un gruppo un po’ vecchio che si è sciolto, ma veramente valido: i Deep Purple. Solo l'anno successivo la band si sarebbe riformata pubblicando un'altra pietra angolare: Perfect strangers. Oggi fa sorridere che due adolescenti non avessero mai sentito parlare di un gruppo epocale che fatto la storia della musica, ma trentacinque anni fa (minchia trentacinque anni fa!) le informazioni si tramandavano molto per via orale, non c’era il business delle vecchie glorie e una band composta da membri che si avviavano ai quarant’anni, ferma da quasi una decade, era acqua passata.
Curiosamente in dieci anni di vita del blog, non ho mai recensito un album dei Deep Purple, nonostante il massivo e costante ascolto delle formazioni storiche mark I,II e, più di recente, mark III. C’è voluto un disco del 2017, che in molti ritengono possa essere l’ultimo della band, per farmi aprire la sezione nuovo post del blog e cominciare a scrivere.
 
Partiamo dagli attuali componenti della band: attorno al nucleo originale superstite (Gillan alla voce, Paice alla batteria e Glover al basso), il combo, si è ormai consolidato con Steve Morse (chitarra, nel gruppo dal 1994) e Don Airey (tastiere, dal 2002). Sono loro che, attraverso una lunga gestazione, incidono InFinite, album numero venti della loro discografia.

Con i suoi rimandi al rock dei settanta, il mood del disco non può che essere classicissimo, ma al tempo stesso prende le distanze dal consueto sound chitarristico del periodo migliore della band, investendo le tastiere (piano, keyboards, organo), che pur sono sempre state centrali nel suono DP, della responsabilità dell'intero impianto infrastrutturale dei brani. Airey sugli scudi dunque, senza dimenticare però  Bob Ezrin, produttore dell’album e keyboards player aggiunto. Contrariamente a quanto si possa pensare (dopotutto parliamo di una delle più importanti hard rock band di sempre) questa scelta, in piena continuità con le produzioni più recenti, impreziosisce ulteriormente il lavoro, amalgamandosi alla perfezione con liriche, rullate di Paice e timbro di Gillan, come dimostra l’opener Time for Bedlam, che su un testo adattabile ad un soggetto buono per un horror dei cinquanta (un altro tributo a quel cinema, dopo il precedente Vincent Price?) ci regala pathos a quintalate. Rispetto al precedente Now what?! , InFinite riesce in questo senso ad essere meno cerebrale e più coeso e diretto. Il che si traduce in una partenza a frusta e un lotto di brani capaci di coniugare in misura efficace classe e accessibilità, con refrain/sequenze efficacissimi, come nel caso di Hip boots, One night in Vegas, Get me outta here o Johnny's band, nella pressoché totale assenza di filler (se proprio vogliamo essere pignoli il livello scende giusto un po' su On top of the world e per la graziosa ma superflua cover di Roadhouse blues dei Doors), fino alla conclusiva Birds of prey che ha il solo difetto di durare troppo poco.

 
Insomma, InFinite insegna una lezione su come si può continuare a fare musica altamente dignitosa dopo cinquant'anni nel business. Chissà cosa ne pensa in proposito l'amico Lorenzo.

lunedì 12 giugno 2017

1993 (serie televisiva, sequel di 1992)

Prima ancora dei meriti (qualcuno dice dei demeriti) della serie, "1993" si fa apprezzare per l'intuizione di partenza. La volontà cioè di romanzare l'epoca che più di ogni altra ha caratterizzato dal punto di vista politico-culturale, quelle generazioni (inclusa la mia) che erano troppo giovani per vivere a pieno i rivoluzionari cambiamenti dei sessanta e le lotte, anche tragiche, dei settanta e che pertanto hanno, nella vicenda partorita dall'inchiesta mani pulite, il massimo intreccio tra la propria esistenza e la storia d'Italia.

Lo schema usato dagli sceneggiatori è quello consolidato dai principali romanzi di fantasia inseriti dentro i grandi fatti della storia (su due piedi mi sovvengono i nomi degli inarrivabili De Lillo ed Ellroy, ma anche i nostrani Genna e  Sarasso), i quali mettono sul set di eventi realmente accaduti characters/testimoni, che interagiscono con i personaggi reali, svelandone, insieme ai retroscena, lati umani e debolezze.
Ovviamente il taglio di (1992) 1993 è decisamente meno noir degli esempi letterari presi a riferimento (ma anche dello stile usato in passato da Oliver Stone), e nello sviluppo non mancano incertezze e momenti di fiacca, ma nonostante ciò l'evoluzione dei personaggi è tutto sommato ben strutturata e non inverosimile rispetto a quella che la nostra società ha compiuto nel dato periodo.
L'ambiguità e la totale assenza di scrupoli di Leonardo Notte (Stefano Accorsi), pubblicitario motore dell'entrata in politica di Berlusconi; l'ambizione sfrenata di Veronica Castello (Miriam Leone), aspirante soubrette televisiva, e le implosive contraddizioni, a fatica contenute dalla straripante fisicità, di Pietro Bosco (Guido Caprino), ex militare alla deriva che diventa parlamentare per la Lega, unite alle efficaci interpretazioni di Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi); Sergio Cusani (Stefano Dionisi); Silvio Berlusconi (Paolo Pierobon) e Massimo D'Alema (Vinicio Marchioni) fotografano in maniera convincente i grandi cambiamenti del periodo e lo stato d'animo di un paese che chiudeva in maniera travagliata la sua prima repubblica. 
Certo, non manca qualche perplessità sul filtro usato per tratteggiare alcuni eventi e taluni personaggi, come ad esempio l'indulgenza usata per il Berlusconi privato (che ci viene mostrato sempre attraverso gli occhi di Notte/Accorsi) stride non poco con l'ambiguità del soggetto, ma, trattandosi di una trilogia, bisogna attenderne la conclusione per un giudizio definitivo.
Al netto di qualche pausa (ma non mancavano nemmeno nei celebratissimi Romanzo Criminale e Gomorra, per restare nell'ambito della stessa piattaforma televisiva) la struttura narrativa appare dotata di buona fluidità, ritmo e efficaci cliffhanger, come i due che concludono l'ultimo episodio della stagione. Altro elemento vincente del progetto è senza dubbio l'importante investimento sulla colonna sonora, che, assieme alle musiche più commerciali del periodo, si avvale, tra le altre, di Disarm degli Smashing Pumkins, Daughter dei Pearl Jam, Wild Wood di Paul Weller, Fade into you di Mazzy star e Mmm mmm mmm mmm dei Crash Test Dummies.
In assenza di intoppi (leggi cali di gradimento), la terza e ultima stagione (1994) coprirà il successo elettorale di Berlusconi e la sua rovinosa caduta, causata dalla forte instabilità sociale innestata dal suo governo di destra e dal tradimento di Bossi.


lunedì 5 giugno 2017

I feel good, L'autobiografia di James Brown


Eccola qui la dimostrazione più lampante che non servono tomi enciclopedici per raccontare in maniera efficace la vita di un artista dalla carriera pluridecennale, la cui rilevanza è fondamentale per l’intera storia della musica moderna
I feel good di James Brown consta di poco più di duecento pagine (220 per la precisione), di cui quasi quaranta occupate da una corposa introduzione di Marc Eliot.  Ne consegue che il Padrino del soul riesce nell’impresa di raccontare se stesso, la sua vita personale e artistica oltre ad uno spaccato incredibilmente emozionante che copre mezzo secolo di società americana,  in qualcosa di più di centosessanta paginette.
Probabilmente, se fossi un die hard fan del maestro, potrei lamentarmi per l’assenza di questo o quell’evento, questo o quel richiamo ad un particolare album, ma anche in quei panni credo faticherei a trovare vere e proprie critiche ad un modo di comunicare diretto e appassionato, come quello espresso da Mr Dynamite.
James Joseph Brown nasce vicino ad Atlanta nel 1933, la sua infanzia è segnata dall’abbandono della madre e dalla povertà (vivrà da solo col padre in una baracca sperduta in un bosco, prima di essere affidato alla zia) e impara in fretta le regole di sopravvivenza della strada, la prima e più importante delle quali è che i bianchi hanno potere assoluto di vita e di morte sui negri. Il riferimento non è solo ai brutali atti di violenza di quei tagliagole del KKK, ma alla polizia stessa e all’intero sistema giudiziario del sud: sei alla mercè del potere bianco, se decidono ti sbatterti in cella, lo fanno senza preoccuparsi del sistema accusatorio, delle prove o dei tuoi (presunti) diritti.
Ma il giovane James è scaltro e, a parte qualche scivolone, si tiene lontano dalle giacche blu e dai cappucci bianchi, diversamente a quanto avviene a molte persone a lui vicine. Poi, gradualmente, comincia la sua ascesa nel mondo della musica, con il primo successo Please please please del 1956, seguito da Try me nel 1958, e grazie soprattutto alle sue performance dal vivo, in cui introduce movenze ed elementi scenografici che costituiranno la base per intere generazioni di rockstar future (da Mick Jagger a Springsteen, per citarne solo due). La sua ambizione è pari alla sua tenacia. Analogamente a quanto fatto da Johnny Cash per il suo Live at Folsom Prison, Brown elude il rifiuto della sua casa discografica di pubblicare un disco dal vivo contenente le esibizioni all’Apollo Theatre di New York, investendo da solo nel progetto e riscuotendo un successo fragoroso con un disco (Live at Apollo) tra i più seminali di tutti i tempi.
Insieme alla fama, crescono anche impegno sociale, con i progetti che aiutano l’istruzione dei bambini neri più poveri, e attivismo politico, con le amicizie “bipartizan” con il presidente democratico Johnson prima e Nixon poi. Nel mezzo anche un avventurosa “tournee” in Vietnam, fortemente voluta e ottenuta nonostante l'ostracismo di molti.
Insomma fino alla prima metà dei settanta, James Brown non è solo uno degli artisti black più influenti, l’inventore del funk e lo scatenato performer che calca incessantemente i palchi americani. E’ anche un opinion leader indiscusso, che viene chiamato da diversi esponenti politici, manco fosse Mr Wolf, quando si tratta di gestire delicati problemi razziali (rivolte incluse).
Arriveranno poi declino artistico e umano, il carcere, i matrimoni e i divorzi, le denunce, ma anche la riscoperta dei suoi ritmi (su tutti il mitologico "One") da parte dei rappers che, tra la fine dei settanta e i primi ottanta, cominciano a prendersi la scena.
C’è tutto questo, contaminato da tanta umanità e orgoglio, dentro questa breve ma essenziale autobiografia, che esula dall’opera rigorosamente riservata ai fan musicali aprendosi invece ad ogni appassionato di società e costume USA, dal dopoguerra alle soglie degli anni zero.

giovedì 1 giugno 2017

MFT, maggio 2017

ASCOLTI

Gang, Calibro 77
John Mellencamp, Sad clowns and hillbillies
Fabri Fibra, Fenomeno
Deep Purple, inFinite
The Raphaels, Supernatural
Kreator, Gods of violence
The Mahones, Rise again

The Dead Daisies, Live and louder
Little Steven, Soulfire
Biters, The future ain't what it used to be
Phil Anselmo & Bill Moseley, Songs of darkness and despair
Zac Brown Band, Welcome home
Survivor, Ultimate
Chris Stapleton, From a room - Vol I
Cannibal Corpse, Tomb of the mutilated
Colter Wall, ST
Colter Wall, Immaginary Appalachia (EP)
Bob Wayne, Bad Hombre
Becca Stevens, Regina
Harem Scarem, United
Enzo Avitabile, Essential
Chickenfoot, Best + Live



LETTURE

Kent Haruf, Crepuscolo

Glenn Cooper, La biblioteca dei morti


VISIONI

1993
Sherlock, stagioni 3 e 4
Big little lies
Taboo