venerdì 28 giugno 2013

MFT, giugno 2013


MUSICA

Sul fronte degli ascolti sto attraversando un periodo di grazia come non ricordavo da tempo. Sono dietro ad una manciata di titoli che mi stanno facendo godere, nessuno escluso, come un riccio. E' capitato con una certa frequenza che questa lista degli album del mese contenesse, non per allungare il brodo ma per una sorta di anticamera all'ascolto, più titoli rispetto a quelli che stavo effettivamente sentendo, ma stavolta invece ogni singolo disco è in costante e alta rotazione sull'autoradio o sul lettore mp3 e l'elemento sensazionale è che non riesco a far a meno di nessuno di essi. Son cose eh.

Black Sabbath, 13
Suicidal Tendencies, 13
The National, Trouble will find me
Daft Punk, Random Access Memories
Skid Row, United world rebellion, chapter one
Newsted, Metal
Wayne Hancock, Ride
Elio e le storie tese, L'album biango
Grand Funk Railroad, Greatest hits



SERIAL

Giuro che non si tratta di sciacallaggio. Avevo confidato agli amici di voler riprendere la serie de I Soprano (da me amatissima e lasciata alla terza stagione una vita fa) prima della prematura dipartita del grandissimo James Gandolfini. Ma tant'è. A questo punto non vedo occasione migliore per celebrarlo. Nel frattempo mi sono rimesso il giubbotto di pelle e sono tornato in sella alla Harley insieme ai SAMCRO, nella quinta stagione di Sons of Anarchy.

LETTURE

Purtroppo quando devo sacrificare qualche attività sull'altare del poco spare time che possiedo, a farne le spese sono sempre i libri. Ne deriva che sono sugli stessi tomi del mese scorso (La saga de Il trono di spade di Martin e l'autobio di Lemmy dei Motorhead) che procedono alla velocità della riforma del mercato del lavoro del governo Letta...




mercoledì 26 giugno 2013

La grande bellezza


Hanno tutti ragione. Quanti sostengono che La grande bellezza sia un film: pretestuoso. Immaginifico. Ipnotico. Noioso. Emozionante. Inconcludente. Amaro. Fuori registro. Girato divinamente. Masturbatorio. Troppo lungo. Troppo corto. Anticlericale. Da 8x1000 alla Chiesa. Arrogante. Umile. Visionario. Realistico. Felliniano, mucciniano, morettiano e vanziniano (tutto insieme). Che cerca inutilmente il suo punto G. Politico. Mondano. Di denuncia. Superficiale. Gossipparo. Derivativo. Geniale. Estenuante. Eccitante. Magico. Prevedibile. Ondivago. Mistico. Democristiano. Comunista. Anarchico. Dispersivo. Poetico. Pro-Roma. Contro-Roma. Specchio dei tempi. Fuori focus. Debordante. Radicale. Da bicchiere mezzo vuoto. Da bicchiere mezzo pieno. Incomprensibile. Con un messaggio potente e diretto. Con un cast divino in stato di grazia. Che svilisce la bravura di Toni Servillo. Che tolto Servillo gli altri fanno pena. Che le canta a destra e sinistra. Che non prende posizione. Che "guarda che devi lasciarlo sedimentare, altrimenti non lo capisci, eh". Folgorante. Prezioso. Faticoso. Brillante. Drammatico. Farsesco. Trasversale ai generi. Che si poteva girare solo a Roma. Senza infamia ne lode. Con scene magistrali. Con scene da WTF?!? Dalla sceneggiatura a orologeria. Inconsistente a livello di scrittura. Da freak show. Che non durerà. Che verrà fuori alla distanza. Istruttivo. Per i radical chic. Per i salottieri. Per i radical-chic salottieri. Sopravvalutato. Che dimostra tutto il talento di Sorrentino. Nel quale Sorrentino mostra la corda. Pieno di spunti di riflessione. Fine a se stesso. Onirico. Interlocutorio. Suggestivo. Catartico. Edonista. Monotono. Evocativo. Sulla paura di morire. Sui vecchi che non mollano il potere. Nel quale Verdone e la Ferrilli sono spaesati. Nel quale Verdone e la Ferrilli rinunciano alle maschere e diventano magnificamente attori. Nel quale la casa di Jep (di fronte al Colosseo) è nella realtà quella posseduta "a sua insaputa" da Scajola. Maschilista. Gay-friendly. Romantico. Promiscuo. Metaforico. Illuminante. Sconfortante. Confortante. Irriverente. Conformista. Autoreferenziale. Trendy. Arrogante. Volgare. Decadente. Spiazzante. Che se lo vedi dalla fine all'inizio è un altro film ancora, pure migliore. Che doveva essere ad episodi. Triste. Deprimente. Caleidoscopico. Tragico. Spietato. Imperdibile. Coraggioso. Vigliacchetto. Ambiguo. Da grande occasione mancata. Vorticoso. Che resta si imprime nel subconscio. Che non lascia indifferenti. Sul talento sprecato. Definitivo. Autorevole. Distintivo.

Ma più di ogni altro ha ragione chi, come me, a un certo punto ha smesso di analizzare criticamente il film e si è lasciato travolgere dalle immagini fino ad affogarci dentro.

lunedì 24 giugno 2013

Black Sabbath, 13


Ok giovani, giù le chitarre. Spegnete gli amplificatori, mettetevi comodi. E' venuto il momento di tornare a scuola, di rivedere il programma didattico che era fermo al 1978. I Black Sabbath nella formazione (quasi totalmente) originale sono tornati e per voi replicanti il gioco si fa dannatamente duro. Già, perchè al mondo esistono poche bands che hanno avuto un'influenza su un genere (l'heavy metal) tanto rilevante quanto quello del combo guidato da Iommi e Osbourne e perchè ce ne sono ancora meno che hanno un'impronta sonora così inconfondibile, originale e saccheggiata, rispetto ai quattro (oggi tre, al netto della defezione del batterista storico Bill Ward) di Birmingham.

Questo "13" (stesso titolo della recente release dei Suicidal Tendencies, alla faccia dell'originalità) è senza dubbio alcuno tra i due-tre dischi più attesi dell'anno. Annunciato all'inizio del 2012, più volte rinviato a causa dello stato di salute di Iommi (affetto da linfoma), prodotto, e non poteva essere diversamente, dal guru Rick Rubin, è finalmente arrivato nei negozi all'inizio di giugno a soddisfare l'atavica fame di materiale nuovo di milioni di fans dell Sabba Nero. E una volta tanto l'attesa non viene tradita, perchè l'album si raccorda con il discorso interrotto non nel 1978 con i Black Sabbath allo sbando e una release dalla gestazione tribolatissima come Never say die!, ma con il poker d'assi che la band ha calato dal 1970 al 1972, quando, opere come Black Sabbath, Paranoid, Master of reality e Vol. 4 scrivevano un nuovo capitolo nell'enciclopedia del rock and roll. In questo senso End of the beginning (la traccia d'apertura), nelle atmosfere si allaccia direttamente al primo brano inciso dai Sabbath, omonimo della ragione sociale e del debutto self titled della band, connessione poi esplicitamente confermata dalla coda di Dear father (brano conclusivo del disco) che riprende gli inquietanti rumori di fondo (tuoni e pioggia) che di quel pezzo epocale costituivano l'allora terrorizzante prologo.

Stilisticamente emerge la scelta di orientare il suono del disco decisamente verso quella cadenza tra il lento e il midtempo che storicamente ha assunto il nome di doom, fonte alla quale, come accennavo in premessa, si sono abbeverate decine di bands (Candlemass, Cathedral, Paradise Lost, Pantera nel recente passato e più di recente Sword, Orchid e Kadavar, solo per citare le più importanti) e generati dozzine di sottogeneri musicali. Questo indirizzo potrebbe essere stato condizionato anche dallo stato fisico di Ozzy, che probabilmente comincia ad andare in difficoltà sui cambi di tonalità, di tempo o di velocità mentre si barcamena più che dignitosamente sulle parti più rallentate. Per quanto riguarda Tony Iommi, avrà anche ragione chi sostiene che suoni sempre lo stesso riff, ma per miseria, quanta emozione nel tornare a sentire il suo marchio di fabbrica, le sue progressioni i suoi cambi di registro all'interno delle singole canzoni. Prendete ad esempio God is dead?, che ha anticipato la release dell'album fissandone, a scanso di equivoci, con i suoi quasi nove minuti di timing, le coordinate a livello di mood e durata dei pezzi: atmosfere cupe, utilizzo della cosiddetta nota del diavolo, voce fredda al limite dell' inespressività, liriche che sfrucugliano col sovrannaturale. In pratica un bigino aggiornato al 2013 della consolidata architettura musicale del combo inglese.

Ma una band che ha svolto così assiduamente il ruolo di nave scuola nei confronti di un intero movimento musicale è giusto che a sua volta si faccia influenzare da chi magari ha preso in mano per la prima volta chitarra e microfono dopo aver consumato Paranoid. Ascoltando Zeitgeist registro in questo senso un flusso di andata e ritorno con i Pantera che fecero una straordinaria cover di Planet caravan, pezzo che i Sabbath registrarono per l'album Paranoid e che qui, in qualche misura, sono richiamati dai Nostri. Descrivevo la media della velocità del disco come medio-bassa, ecco l'unica eccezione è probabilmente rappresentata da Live forever, non a caso il pezzo più accattivante della tracklist per il quale è facile pronosticare un futuro da singolo. Con Damage soul abbiamo invece quasi otto minuti di irresistibile doom-blues che dovrebbe definitivamente accontentare i nostalgici (mi ci metto anch'io) dell'origine del suono sabbathiano, che affondava le sue radici nei potenti riff blues degli antenati.

"13" è stato pubblicato in due versioni, una standard, composta di otto pezzi per cinquantatre minuti di durata, una deluxe su doppio cd, con tre pezzi in più, e una per il mercato giapponese con le tre canzoni aggiuntive della deluxe più un'ulteriore traccia (Naivetè in black). Normalmente queste strategie commerciali non mi appassionano più di tanto, visto che riguardano pezzi minori giustamente scartati dalle take finali e destinate esclusivamente ad un pubblico di collezionisti o die-hard fan motivati dal must-have, ma in questo caso il discorso si fa più complesso. Sì, perchè le tracce aggiuntive (Methademic; Peace of mind e Pariah) non solo sono al livello delle principali otto (forse anche di più, in qualche caso)  ma, per una curiosa scelta della produzione, si rivelano essere anche i pezzi più veloci dell'intero lotto. Insomma, a mio avviso non si tratta di un surplus evitabile, ma di tessere indispensabili a completare il quadro generale dell'opera "13" e pertanto, nonostante con queste aggiunte l'album arrivi a sfiorare gli ottanta minuti, il mio suggerimento è di orientarsi proprio verso l'edizione deluxe, approcciandosi al tutto come se fosse un doppio lp dei bei tempi che furono.

Insomma, la band, nonostante gli acciacchi, è in stato di grazia. E se i riflettori dei media sono costantemente puntati sul duopolio Ozzy/Iommi, noi faremmo un grosso errore a non considerare l'enorme importanza del ruolo di Geezer Butler visto che, come per i gloriosi anni degli esordi, anche per questo album, il bassista, oltre a partecipare al processo creativo della parte musicale, ha anche composto tutte le liriche , muovendo come d'abitudine la sua prosa nelle zone d'ombra dell'esistenza, tra occulto e decadenza, facendo ancora una volta un lavoro superlativo.

La considerazione finale è di totale coinvolgimento con questo ultimo capitolo della saga Black Sabbath: personalmente non osavo sperare in un prodotto così potente, dignitoso e coerente con la storia del gruppo come effettivamente "13" dimostra di essere. Sono perplesso di fronte a quanti criticano l'album definendolo superfluo. Ma che cazzo vuol dire? E' chiaro che se ti devi approcciare con i Sabbath per la prima volta non è da qui che parti, ma diamine, se applichiamo questa critica a tutte le band/artisti storici del rock, allora quanto dobbiamo considerare superflui i lavori attuali di Springsteen, U2, Stones, Who e compagnia cantante? E quanto è invece più centrato e non agiografico questo lavoro dei BS? Mi accontenterei di averne anche solo uno all'anno, di album di questa fattura, altro che seghe mentali da hipster. 


10/10


sabato 22 giugno 2013

Chronicles 20

Il mio collega Stefano sostiene che vent'anni fa una cosa del genere non sarebbe mai potuta succedere. Sì perchè non c'è stata solo la cappa d'afa ad infestare le giornate milanesi della settimana appena trascorsa. Ben peggio di quello infatti è stato il raduno di naziskin provenienti da tutta Europa che si è svolto a Rogoredo con lo scopo di raccogliere fondi per i sodali che hanno problemi pendenti (ma non mi dire) con la giustizia. Questa feccia che Repubblica sostiene essere hammerskin, sezione oltranzista del movimento naziskin (!!!) , proveniente nientepopodimenoche dal Ku Klux Klan, ha festaggiato allegramente tra saluti romani, inni al fuhrer e croci celtiche insieme alla crema dei gruppi rock (?) dell'estrema destra di mezzo mondo. Ma hey, nonostante tutto ciò, prefettura e questura hanno ritenuto che non ci fossero gli estremi per impedire la concessione del meeting. Quando si dice svolgere bene il proprio lavoro. Non possimamo poi dimenticare l'ecumenica iniziativa di Casa Pound, che ieri nel mantovano ha accerchiato  con le sue festose bandiere l'assemblea nazionale della Croce Rossa e ups, coi fumogeni ha quasi dato fuoco a tutta la pianura, compresi i partecipanti all'assemblea. I fascisti non hanno rischiato niente, tranquilli, appena vista la malaparata se sono dati, lasciandosi le fiamme alle spalle. Che immagine poetica, eh?

Stai a vedere che davvero stiamo sulla strada buona per diventare la prossima Grecia.

mercoledì 19 giugno 2013

Conan the barbarian




"Io vivo. Amo. Uccido. E sono contento".
Conan il cimmero



Capisci (o meglio hai l'ennesima dimostrazione) che cominci ad avere una certa età, nel momento in cui ti partono dei collegamenti che la maggior parte di quelli sotto gli anta molto probabilmente ignorano. Quando ho saputo della nuova rivisitazione della figura di Conan il barbaro la memoria non è andata alla mini saga cinematografica che ha lanciato definitivamente nello starbiz Arnold Schwarzenegger e neanche, all'estremo artistico opposto, ai libri fantasy di Robert E. Howard nei quali Conan è nato, ma sempre e solo al ciclo di fumetti di questo personaggio, magistralmente illustrati nel corso dei settanta per la Marvel da John Buscema.
Questo disegnatore, grazie al suo stile classico e immaginifico, riusci infatti nell'impresa di fare apprezzare (a me e a migliaia di altri lettori) un personaggio che non aveva nessuna delle caratteristiche che andavo cercando, da ragazzino, nei comics dei supereroi. E, a mio avviso, la locandina che vedete sopra e alcune scene del film, sono, ancora oggi, profondamente influenzate dallo stile di Buscema.

Ma ok, parlo del film. Nei (succinti) panni del cimmeriano troviamo Jason Momoa, che per gli adepti di Game of thrones è l'indimenticato Khal Drogo, uno dei (tanti) personaggi che sembravano cruciali allo sviluppo di quel serial e che invece c'hanno fatto prematuramente ciao ciao con la manina. Della partita anche Ron Perlman (qui Corin, padre di Conan),uno che, pur avendo alle spalle decenni di ruoli (perlopiù) da caratterista, si affranca a fatica dal character di (ex) capo della gang di motociclisti SAMCRO, in Sons of Anarchy, altra serie televisiva che da queste parti si apprezza abbestia.
Nel complesso penso di poter dire che le moderne tecniche di ripresa hanno sicuramente dato una rinfrescata alla resa della storia, rispetto a quanto proposto dai film con Schwarzenegger, per il resto la pagnotta è portata a casa grazie ad un buon intreccio tra azione e ironia, un'opportuna dose di effetti speciali, più splatter-violenza ed una quota tette abbastanza rilevante.
Non mi aspettavo molto di più, onestamente.

lunedì 17 giugno 2013

Volbeat, Outlaw gentlemen & shady ladies

File:Outlaw Gentlemen & Shady Ladies Album Cover.jpg


Un azzeccato slogan di qualche anno fa recitava "la potenza è nulla senza controllo". Beh, in campo rock pesante mi vengono in mente poche bands che fanno loro quell'assioma, arrivando a coniugare potenza e melodia, bene come i Volbeat. Il quartetto danese, con i componenti fondatori  Michael Poulsen (voce e chitarra), Anders Kjoholm (basso) e Jon Larsen (batteria), coadiuvato alla chitarra dall'arrivo dell' ex-Anthrax Rob Caggiano, arriva in splendida forma al quinto album, come di tradizione battezzato con un doppio titolo: Outlaw gentlemen and shady ladies.


La voce baritonale (che qualcosina a James Hetfield la deve di sicuro) di Poulsen ci guida attraverso tredici tracce nelle quali la grande capacità della band di comporre pezzi evocativi e che ben si prestano al singalong (Pearl heart; The nameless one; Cape of our hero;l'anthemica Lola Montez), si raccorda con tributi all'heavy metal classico (Dead but rising; Black Bart e Room 24, scritta ed interpretata insieme alla leggenda metal King Diamond) ma propone anche l'inaspettata cover di un recentissimo brano di una giovane band americana (My body, dei Young the giant): di certo non una dinamica molto comune tra i gruppi affermati. 
Spiazzante anche la scelta della cantante inglese di pop elettronico Sarah Blackwood come co-singer di Lonesome rider, per inciso il pezzo in cui maggiormente la vena folk-country-western dei Volbeat, di norma fugacemente presente in brevi intro, suggestioni, break, bridge o prologhi ai pezzi (si veda a questo proposito Our loved Ones)  si prende il suo spazio più ampio. 

Non è semplice rimanere fedeli al proprio sound senza risultare (auto)derivativi o semplicemente ripetitivi. 
Se non sapranno rinnovarsi sicuramente i Volbeat correranno questo rischio, ma quel momento ancora non è arrivato, visto che, superata la boa dei primi dieci anni di attività (che personalmente ho celebrato cercando di mettere insieme una playlist monografica),  Outlaw gentlemen & shady ladies tiene brillantemente botta, tra picchi anthemici, semplice e ignorante heavy metal e brevi strappi folk. Bene così.

8/10





sabato 15 giugno 2013

Chronicles 19

Sono in molti a rallegrarsi per l'arrivo del caldo. Li capisco eh, però, per quello che mi riguarda, almeno fino alle vacanze, andavano benissimo anche cielo nuvoloso e temperature miti. Mettiamoci pure che da un giorno all'altro siamo passati dall'abbigliamento autunnale a infradito e shorts, e il quadro degli effetti devastanti di questa centrifuga climatica sul mio organismo è completo.
Ad ogni modo questa settimana ha registrato alcune belle soddisfazioni in ambito lavorativo, con un paio di intuizioni che hanno risolto situazioni abbastanza intricate, dandomi una provvidenziale botta di autostima. Peccato che la settimana avrebbe dovuto concludersi con il concerto dei Saxon, domani sera a Milano, ma che l'appuntamento sia saltato per ragioni che non sto nemmeno qui a spiegare. Nell'ultimo mese mi ero segnato sul calendario i live di Big Country, Springsteen e appunto, della band di Denim and leather, sperando di riuscire a vederne almeno uno su tre, e invece nada. Non so nemmeno perchè continui ad ostinarmi a credere di essere uno che può andare ai concerti quando vuole, visto che è del tutto evidente il contrario. Vaaaahbeh.

venerdì 14 giugno 2013

80 minuti di Coldplay

I Coldplay, loro malgrado, fanno parte di quell'ormai ristrettissima cerchia di bands che vende dischi e che dunque svolge la funzione di paracadute per l'industria discografica. Nel 2004, l'annuncio del ritardo nella pubblicazione di X&Y, attesissimo successore di A rush of blood to the head, arrivò addirittura a provocare un crollo in borsa del titolo della major Capitol. Ad oggi, il gruppo del gossippato Chris Martin ha rilasciato cinque album e una trentina di singoli. Necessario quindi allargare a due volumi la playlist monografica. La prima la trovate a seguire, per la seconda parte ho già archiviato una decina di pezzi, sono dunque accolti suggerimenti per arrivare alla fatidica soglia di 80 minuti.

1) Don't panic
2) Life in technicolor
3) In my place
4) Lost!
5) Shiver
6) God put a smile on your face
7) Fix you
8) Lovers in Japan
9) Clocks
10) Yellow
11) Talk
12) The scientist
13) Speed of sound
14) Trouble
15) Viva la vida
16) Violet hill
17) Stawberry swing
18) The hardest part
19) A rush of blood to the head

mercoledì 12 giugno 2013

L'industriale

Locandina L'industriale


Sul set fittizio di Boris, tra i tanti tormentoni c'era quello per cui, ogni qual volta si profilava per un attore un progetto o un ruolo interessante, la parte, alla fine, veniva sempre assegnata a Pierfrancesco Favino. Scherzavano con l'attualità, i perfidi autori del serial, ma, come per altri obiettivi del sarcasmo del programma, centravano il bersaglio pieno. Favino infatti, solo dal 2000 ad oggi, tra ruoli da protagonista e prove da comparsa, ha girato ben trentuno film per il cinema e undici per la tv, imponendosi come uno degli attori più richiesti da piccolo e grande schermo.
 
Ne L'industriale (2011) il romano interpreta Nicola, ultimo erede di una famiglia di imprenditori piemontesi, sposato  con Laura (Carolina Crescentini: l'attrice "cagna" proprio di Boris) , a sua volta discendente da una famiglia bene di Torino. Nicola ci viene presentato come una brava persona, che vive subendo la figura di successo del padre (deceduto), che parla abitualmente con gli operai della sua fabbrica e che, quando l'impresa paterna va in crisi, cerca con tutte le sue forze di evitarne il fallimento e/o la vendita. Laura ci appare invece come la classica alto borghese irrequieta e insoddisfatta, oppressa dalla madre invadente e sempre più distante dal marito. Del cast fa parte anche Francesco Scianna (Frank Turatello in Vallanzasca, Gli angeli del male), nei panni dell'avvocato di Nicola.
 
Il film è girato calibrando la pellicola su tonalità tendenti al bianco e nero/seppia: colori quindi tenui, pallidi, sbiaditi che conferiscono alle immagini  la cornice dei pomeriggi novembrini grigi,tristi e, appunto, incolore tipici delle città industriali del nord. La narrazione è per tre quarti lenta e (apparentemente) inconcludente, la vita matrimoniale (in crisi) di Nicola e Laura sembra tener banco più delle vicende della fabbrica, tema che lo spettatore vorrebbe invece impazientemente vedere risolto. Il turning point della storia illude su un lieto fine delle vicende, con una soluzione dei problemi della fabbrica che vira addirittura dal drammatico al farsesco ma, chiaramente, l'epilogo definitivo sarà diverso. E infatti il colpo di scena finale, inaspettato e amarissimo, riconduce il tutto al mood complessivo della pellicola, e perché no, ad una verosimiglianza con la realtà.
 
Film interessante, girato con personalità dal decano Giuliano Montaldo e, nel complesso, ben recitato.
 



lunedì 10 giugno 2013

Depeche Mode, Delta machine



Sono passati davvero tanti anni, trenta per la precisione, da quando i Depeche Mode subivano critiche feroci da parte della stampa per l'eccessiva freddezza della loro elettronica e, in qualche occasione, per l'utilizzo del playback dal vivo.Oggi la band,dopo aver nel corso del tempo allargato i propri orizzonti musicali arrivando a vendere milioni di dischi,  si è guadagnata lo status di gigante della pop music mondiale e con essa un'autorevolezza e una consapevolezza dei propri mezzi che le permette di dare alle stampe un disco come Delta Machine, che più lontano dai canoni di "commerciale" non potrebbe essere.

Con questo album infatti Gore, Gahan e Fletcher rinunciano ad accarezzarsi l'ego evitando di cadere  nell'autoplagio (rischio comune a tutte le band di lunghissimo corso) o di nascondersi nel rassicurante abbraccio rappresentato dal reiterare, coverizzandolo, il proprio sound, confezionando invece un'opera cupa, oscura, slabbrata e spesso sottoritmo, che torna sì all'elettronica, ma quella meno accessibile, riuscendo a raccordarsi solo occasionalmente al proprio brand consolidato degli ultimi anni (del lotto iniziale, Secret to the end) mentre nei casi di My little universe o Soft touch Raw nerve non è esagerato delineare un raccordo con Some great reward del 1984. Si torna anche ad scarnificare riff blues come nel fortunatissimo caso di Personal Jesus, ma quanta differenza passa da quella felice intuizione e il mood dimesso e senza lustrini dance di Slow o di Goodbye.

Non sono esattamente un fan dei Depeche Mode e onestamente non posso affermare che questo album abbia monopolizzato i miei ascolti, però rispetto ad una sorta di repulsione iniziale, con il tempo è indubbiamente cresciuto. Di certo massimo rispetto per una band che decide di far uscire un disco difficile, che quasi, contrariamente alle abitudini, ce la fa a non contenere nemmeno un singolo commerciale. Quasi. Perchè il tormentone (Soothe my soul) alla fine non manca, solo che è inserito alla boia d'un giuda in conclusione del disco, quando ormai ti sei abbandonato sulle gelide atmosfere dell'album e di certo non ti aspetti più il confortevole raggio di sole di un pezzo così cantabile. Anche questa, alla fine, è classe.

7,5/10

sabato 8 giugno 2013

Chronicles 18

Mio padre è stato sin da tenera età un attivista del sindacato e un militante del Partito. Quando si entrava insieme in un negozio per comprare qualcosa e si scontrava con prezzi oggettivamente esorbitanti, polemizzava sempre col bottegaio prima di andarsene senza comprare niente. Io lo seguivo in silenzio ma intanto mi domandavo perchè mai non si limitasse a non acquistare senza fare tutto quel casino. 
E mo che c'azzecca sto flashback? Penserà qualcuno. Prima un'altra premessa. Nelle prime pagine di Wild Thing (di Max Stèfani), si ricorda come, nei settanta, da parte dei gruppi più radicali della sinistra ci fosse la convinzione che la musica dovesse essere gratuita, ragion per cui, quando veniva annunciato un concerto (a pagamento) partiva la campagna diffamatoria sull'artista in questione, puntualmente seguita, il giorno dello show, da disordini dentro e fuori il palazzetto (situazione questa che, tra l'altro, ha tenuto alla larga dal nostro paese i grandi gruppi stranieri per molto tempo).
Ecco, con un esempio personale ed uno che fa parte della storia del paese, riflettevo sul come siamo passati da una fase nella quale tutto era scelta di campo politica ( i miei coetanei possono tranquillamente ricordare come vestiti, scarpe, zone delle città, tipo di musica ascoltata e film visti: ogni singolo elemento quotidiano era elemento di feroce discussione) a quella specie di grande marmellata nichilista nella quale siamo oggi immersi per cui ormai nessun comportamento ci indigna più, o se lo fa, non produce effetti più rilevanti di qualche post scandalizzato sui social network.
E' superfluo sottolineare come quelli dei settanta fossero comportamenti eccessivi e francamente esagerati ma insomma, mi sembra che, tra i due estremi nemmeno questo sia proprio esaltante. Per rimettere in moto il motore basterebbe magari (a partire da me, primo degli anestetizzati) anche solo un pò più di intraprendenza nelle questioni giornaliere che hanno riflessi sulla comunità e sulla vita sociale (non so, banalmente: chiedere sempre lo scontrino ai soliti furbetti), fare in prima persona invece di delegare sempre ad altri,  reagire con iniziative alle cose che c'indignano.

Tra l'altro, per onestà, devo confessare che la vera molla che mi ha spinto a scrivere questo post non è stata un litigio col droghiere perchè ha taroccato la bilancia o chissà quale altra nefandezza subita, ma semplicemente vedere un non più giovane attore lombardo fare da testimonial ad una catena di negozi di compravendita di oro, tipologia commerciale da sempre borderline tra dubbia provenienza della merce acquistata e sorta di approdo disperato per chi attraversa fasi drammatiche della propria esistenza (in questa fase sono in tanti). L'attore in questione (per il quale pure provavo simpatia), non può essere boicottato, visto che non fa film da secoli, però insomma, sarebbe curioso vedere la sua reazione se, incontrandolo per strada invece dell'autografo qualcuno gli dicesse: " 'A Renà, ma te servivano proprio gli spicci per 'er mutuo?!?".

Come al solito ho divagato.

mercoledì 5 giugno 2013

Giuseppe Genna, Le teste



Dal basso della mia prospettiva di lettore poco attento e di recente, purtroppo, anche abbastanza anoressico, del tutto privo quindi della statura intellettuale necessaria a dar forza alle mie affermazioni, considero Giuseppe Genna il migliore scrittore italiano. Un autore vero, che dà la folgorante impressione di scrivere con la stessa facilità con la quale respira. Che non sceglie un genere preciso, sperando così di trovare la vena d'oro che darà la svolta alla sua vita, e che scrive libri trasversali, profondamente diversi uno dall'altro, che possono essere imperfetti, difficili, perfino laceranti, ma che non risultano mai banali o superflui.
A questo proposito ho già avuto modo di dire come, per me, arrivare in fondo a Dies Irae è stata una specie di catarsi. La stessa che attraversano i protagonisti di quel libro affrontando demoni spaventosi annidati nei bui abissi della propria vita familiare o nella storia più nefanda di questo Paese.
Ecco, quando cominci una nuova opera di Genna non sai mai in quali terreni fangosi andrai ad impaludarti, e non mi riferisco solo ai plot dei libri ma anche alla struttura narrativa stessa, alla sovrapposizione dei temi, alle convinzioni che ti fai e che, puntualmente, al termine della lettura, crollano come castelli di carte.
 
 
Le Teste è stato pubblicato nel 2009 dalla collana Strade Blu di Mondadori, ma ha una genesi molto più antica, visto che l'autore, nell'epilogo del volume, rivela che il romanzo era stato ultimato ancor prima de Nel nome di Ishmael (2001) ma che andò perduto, per essere poi fortuitamente ritrovato diversi anni dopo e, quindi, dato alle stampe.
Protagonista del romanzo Guido Lopez, ispettore di polizia della questura di Milano, personaggio seriale creato dallo scrittore (in precedenza in: Catrame; Nel nome di Ishmael; Non toccare la pelle del drago, La grande madre rossa) che si trova ad investigare sul ritrovamento di una testa di donna mozzata e abbandonata dentro l'idroscalo, il tremendo lago artificiale di Milano a ridosso dell'aeroporto di Linate.
L'indagine ci conduce nei luoghi più oscuri e abietti della Capitale Morale, tra povertà, vecchiume, olezzo di rancido, derelitti, immigrati, reietti e tour nei quartieri più decadenti della città. Come sempre emergono le ossessioni di Genna per le trame invisibili delle strutture ancora più occulte dei servizi segreti ufficiali e per le tremende atrocità commesse in nome del Bene Supremo.
Attraverso gli sviluppi della trama, che si dipanano tra Milano e la romagna, tra Londra e il Pio Albergo Trivulzio, tra Linate e l'immenso Ortomercato di via Lombroso, Lopez subirà uno sfiancamento psicologico prima ancora che fisico, uno svuotamento da ogni residuo di idealismo e di convincimento rispetto a qualunque senso dell'agire delle istituzioni e delle forze dell'ordine: pulviscoli di sabbia che quasi mai riescono ad inceppare il Grande Disegno Complessivo. Unica concessione alle dinamiche popolari, seriali, commerciali, di comporre un romanzo è proprio l'epilogo della storia, con la sorte di Lopez, a mio avviso totalmente dissonante e poco coraggiosa rispetto all'architettura del racconto.
 
Da un punto di vista strutturale Genna alterna la narrazione vera e propria a digressioni storiche, accademiche, saggistiche, assecondando un punto di vista cangiante, che a tratti pare quello del deus ex machina, in altri quello del killer e in altri ancora quello della voce fuori campo dell'autore stesso. Queste parentesi,sovente verbose e poco fluide, indubbiamente rallentano il ritmo del romanzo, ma ne costituiscono l'originalità caratterizzando l'unicità di un'opera e di un autore oggettivamente fuori dal comune.
 
 
Volendo, inoltre, attraverso il sito dello scrittore è possibile consultare diverso materiale a corredo delle sue pubblicazioni. E' oltremodo interessante venire così a conoscenza dell'astio che l'autore nutre per la sua creatura più nota: proprio l'ispettore Guido Lopez; delle polemiche rispetto alla Mondadori per il prezzo imposto a questo libro e perfino del dissenso in merito all'immagine di copertina, effettivamente avulsa dal contenuto del romanzo.
 
Anche Le teste, come Nel nome di Ishmael va probabilmente considerato, per usare le parole di Genna, un falso thriller, una vicenda inventata dalla quale è doveroso entrare ed uscire estrapolandone tessere di verosimiglianza che, messe insieme, vanno a comporre una fotografia raccapricciante ma, appunto, verosimile, di questo tempo devastato e vile.





lunedì 3 giugno 2013

Krokus, Dirty dynamite


Quando gli svizzeri Krokus, dopo un esordio come band prog-rock, virarono il loro sound sintonizzandolo su quello degli AC/DC, il settore musicale ed i media non erano così concilianti con chi copiava, ahemm, si ispirava alle più importanti icone rock del globo. Se Metal Rendesvous, disco che gli elvetici pubblicarono nel 1980, uscisse oggi, sarebbe probabilmente accolto con la simpatia riservata a quanti fanno revival del suono hard-rock dei Black Sabbath, dei Led Zeppelin, e degli eisidisi, invece di trascinarsi appresso, insieme ad un buon numero di copie vendute, accuse di plagio come se piovesse. Il problema, si sa, sta tutto nella prospettiva temporale. Il 1980 era troppo a ridosso al picco di celebrità delle band di riferimento dei Krokus rispetto a quanto accade oggi ai nuovi gruppi di replicanti, visto che dai settanta di anni ne sono trascorsi una quarantina.

Tra varie vicessitudini e diversi turnover sono tre i componenti storici superstiti dalla formazione dei Krokus del 1980 (Von Rohr, Storace e Von Arb) che oggi danno alle stampe Dirty dynamite, il nuovo album che, manco a dirlo, non si muove di un passo rispetto al suono consolidato del monicker svizzero. Ma la buona notizia è che va benone così. Il lavoro, sin dall'apertura di Hallelujah Rock and roll, traccia infatti le sue semplici ma inequivocabili coordinate di disco trascinate e divertente senza pretesa alcuna di originalità. 
Potremmo star qui giorni a dibattere su quanto, ad esempio, il refrain di Go baby go debba a High voltage, ma vi garantisco che è molto più soddisfacente godersela ad un volume adeguato, sollevando il calice per celebrare Bon Scott e quegli AC/DC. 
E' evidente infatti che il core business dell'opera sia contraddistinto dal classico hard-rock-boogie di Angus e soci, ma non possono al contempo mancare richiami al glam metal in generale, e non solo, visto che la tiltetrack potrebbe tranquillamente stare nel repertorio di Graham Parker. Di stampo che più hair-metal non si potrebbe è invece la ballatona Help! (sì, proprio quella dei Beatles).

Insomma, mi rendo conto di quanto suoni banale e abusata, ad epilogo di una recensione, la chiosa it's only rock and roll, ma non trovo aforisma più efficace di questo per celebrare il ritorno dei Krokus. Se vi piacciono gli AC/DC e il glam metal anni ottanta, non fatevelo scappare. In caso invece foste alla ricerca di nuovi, seriosi, predicatori del verbo rock, state alla larga. Per me è un sì.

7/10


domenica 2 giugno 2013

MFT, maggio 2013

A sto giro sono andato un pò lungo con le scadenze di questa rubrica, che in genere posto al termine del mese preso in esame. Poco male comunque visto che, come scrivevo qualche post indietro, ho significativamente rallentato gli ascolti dei dischi nuovi e quindi la parte più rilevante di segnalazioni inevitabilmente viene svuotata.

MUSICA

Big Country, The Journey
EELST, L'album biango
Eric Church, Caught in the act
Ghost, Infestissumam
Hanni El Khatib, Head in the dirt
Krokus, Dirty dynamite
Orchid, The mouths of madness
Steve Earle, The low highway
John Fogerty, Wrote a song for everyone

VISIONI

Due episodi al termine, rispettivamente, della terza stagione di Games of Thrones e della quinta (prima parte) di Breaking Bad. Great expectations!


LETTURE

Condizionato dal serial, ho ripreso George R.R. Martin (Le cronache del ghiaccio e del fuoco vol. 1) che avevo mollato dopo poche pagine e di conseguenza ho un pò rallentato l'autobio di Lemmy La sottile linea bianca.


sabato 1 giugno 2013

Chronicles 17

Sottotitolo: l'uomo col megafono. 
Me lo avessero detto qualche anno fa non avrei mai creduto, col mio carattere, di poter fare comizi con il megafono in una pubblica piazza davanti a decine di persone, e invece devo dire che c'ho preso la mano al punto da gasarmici. 
Mettiamoci pure che a sto giro ci si mobilita per il posto di lavoro e che pertanto il culo che rischia è (anche) il mio e capirete bene che il tema del pudore proprio non si pone...