giovedì 28 gennaio 2016

80 minuti di Anthrax

Nei prossimi giorni uscirà For all kings, l'undicesimo album in studio degli Anthrax. Quale occasione migliore per postare una selezione antologica del gruppo dell'immarcescibile Scott Ian?
La playlist che segue spazia nell'intero repertorio della band, dall'esordio di Fistful of metal del 1984 a Worship music del 2011, attraverso i diversi cambi di formazione, sopratutto alla voce, con i diversi avvicendamenti tra Joey Belladonna e John Bush. 
Bring the noise!

1. Metal thrashing mad
2. Soldiers of metal
3. Madhouse
4. Among the living
5. Indians
6. Make me laugh
7. Antisocial
8. Got the time
9. Bring the noise
10. Only
11. Black lodge
12. Fueled
13. NOthing
14. Crush
15. Safe home
16. Taking the music back
17. I'm alive
18. The devil you know


lunedì 25 gennaio 2016

Whitey Morgan and the 78's, Sonic ranch


Basterebbe ascoltare Whitey Morgan and the 78's per avere un'idea su quale sia, per il sottoscritto, il significato di true country music. Innanzitutto partiamo dal sound: siamo dalle parti dell'interpretazione elettrica del country, riportata all'audience con una strumentazione (slide guitar e tastiere in prima linea) che potrebbe in qualunque momento far switchare il suono verso un rovente southern rockE poi i testi, imperniati rigorosamente sulla vita dei losers, dei drifters, dei personaggi sempre ai margini della società. 
Insomma Whitey Morgan, all'anagrafe Eric Allen, nel corso degli anni (Sonic ranch è il suo terzo album) ha cominciato a spintonare mica male per farsi largo nell'affollatissimo panorama della redneck music americana.
Di certo oltre alla mia attenzione ha catturato anche quella della critica più attenta ed esigente, che ha collocato i suoi lavori nel ristretto lotto dei più interessanti tra quelli usciti negli ultimi anni.
Non fa eccezione, anzi, permette all'artista di fare un ennesimo passo in avanti, Sonic Ranch, dove, in dieci canzoni e meno di quaranta minuti, Morgan riesce ad esprimere al meglio il suo talento nel solco dei grandi del passato, con riferimenti a Waylon Jennings, George Jones e Hank Williams jr, la cui monumentale All my rowdy friends è citata nella prima traccia Me and the whiskey, propedeutica ad illustrare in maniera inequivocabile il mood del disco, che si muove tra midtempo e ballate, tutti contaminati dallo stesso intreccio tra malessere esistenziale e tignoso orgoglio sudista.
I titoli delle composizioni dicono già molto (Lowdown on backstreets; Waitin round to die; Still drunk, still crazy, still blue) ma entrare nella rete delle melodie che accompagnano i loro testi resta comunque un viaggio affascinante e dunque tutt'altro che scontato.

Nuovi country heroes crescono.

lunedì 18 gennaio 2016

Bachi da Pietra, Necroide


La folgorazione sulla via dei Bachi da Pietra è arrivata relativamente tardi, ma è stata sconquassante. Infatti, nonostante il gruppo (in realtà un duo, composto da Giovanni Succi a voce, chitarra, basso e Bruno Dorella alla batteria/percussioni) sia attivo dal 2005, solo con Quintale, la release del 2013, è entrato nel radar dei miei ascolti. Lo ha fatto però sfondando la porta principale: conquistandosi il podio dei migliori dischi dell'anno e diventando l'oggetto delle mie sfrenate raccomandazioni all'ascolto.

L'atteso ritorno dei Bachi è stato diluito in due fasi: l'uscita di Necroide (a settembre) è stata infatti anticipata di qualche mese dalla pubblicazione dell'EP Habemus Baco, composto da tre pezzi esclusi dal full lenght finale, probabilmente per poca assonanza con il mood del lavoro e per un approccio stilistico definito da qualcuno più commerciale rispetto alla storia della band. In effetti la title track dell'EP, che dal vivo potrebbe diventare un discreto anthem autocelebrativo e Tutta la vita sono quanto di più ascoltabile inciso finora dai BDP, viceversa Amiamo la guerra (trasposizione in musica dell'omonima poesia di Giovanni Papini) rientra di diritto nel solco artistico di Succi e Dorella. 

Necroide già dal titolo rivolge inequivocabilmente la sua attenzione a tematiche macabre e oscure. Non una novità per il gruppo che sin dagli esordi si è occupato di argomenti di questa natura, a prescindere dal vestito sonoro usato per accompagnarli. Laddove eravamo infatti in presenza  di un blues spettrale, minimale, oggi, in parte, le liriche vengono accompagnate anche da strappi e accelerazioni riconducibili al death metal. Al death quindi più che al black, nonostante quest'ultimo sia chiamato in causa dal pezzo di apertura Black metal il mio folk, che punta l'indice contro il campionario di brutale banalità delle band che praticavano questo genere nei primi anni novanta.
Chiariamo però subito che Necroide può essere considerato un album di metal estremo solo da un profano del genere, non solo per l'eterogeneità delle singole tracce, che spaziano su diversi spettri sonori tenendo come denominatore comune un hard rock di matrice blues, ma anche per la personalità autoctona che emerge nei pezzi che si rifanno a quelle sonorità più estreme. 

Scorrendo la tracklist si passa infatti agevolmente da un pezzo come Fascite necroide, che per titolo e testo farebbe la felicità dei Carcass e per sonorità quella degli Obituary, a Slayer and the family stone, geniale e caustica digressione sulla scocciature di dover morire, ad Apocalinsect, per il quale Succi utilizza un effetto voce robotico nel solco della dance anni ottanta.
Questo scollegamento stilistico dei pezzi è, paradossalmente, il collante più forte che tiene insieme il tutto. Non è da chiunque comprendere nello stesso album una canzone come Feccia rozza, assalto sonoro eseguito utilizzando la tecnica vocale growl,  e splendide ballate elettriche caratterizzate da una struggente nostalgia, come Virus del male, suggestiva rievocazione dei primi frastuoni giovanili articolati in una rock band. Eppure dentro Necroide tutto questo funziona ed è funzionale al progetto, e il gruppo si permette persino un eccellente pezzo doom come Cofani funebri.

Meno immediato del suo predecessore, Necroide ha avuto bisogno di più ascolti per imporsi alla mia attenzione, ma, col tempo, la sua ascesa è  stata progressiva e inarrestabile, grazie al traino di una manciata di canzoni che, per profondità di songwriting ed intuizioni sonore, sarebbe delittuoso lasciare confinata agli appassionati della musica indipendente italiana.

lunedì 11 gennaio 2016

Gang, Sangue e cenere


Quindici anni di attesa tra la pubblicazione di un album di inediti e l'altro sono un'eternità. Soprattutto se si parla di una band che, attorno al nucleo dei fratelli Severini, non si è mai sciolta e non ha mai interrotto la sua attività live. Per la verità non ha mai nemmeno smesso di incidere album, seguendo però la strada delle registrazioni dal vivo, delle reinterpretazioni dei propri classici, magari assieme ad altri gruppi con i quali condivide affinità politiche, oppure insistendo nella riproposizione di canzoni che hanno fatto la storia italiana come La rossa primavera, che da queste parti è stato giudicato il miglior disco del 2011L'ultima manciata di canzoni nuove, i Gang le avevano pubblicate nel 2000, dentro lo sferragliante Controverso, disco che si è portato dietro una scia di conflitti anche giudiziari con la Wea che ha, di fatto, chiuso al gruppo le porte dell'industria musicale.

Non è solo per questo, ma soprattutto per la volontà di non scendere a compromessi e conservare la propria indipendenza, che i Severini hanno deciso di affidarsi al crowdfunding per produrre il nuovo lavoro. La risposta dei fans è stata incredibile, se è vero che i contributi arrivati a Marino e Sandro hanno sfiorato il mille per cento del target inizialmente ipotizzato.
Il risultato di tutto questo enorme feedback affettivo è Sangue e cenere, un undici tracce che, dietro una copertina che richiama i Basement tapes di Dylan & The Band, si avvale dell'ispirazione compositiva dei tempi migliori, filtrata dall'esperienza e da uno sguardo più consapevole, coniugati all'immancabile carattere combattivo, oltre che, musicalmente parlando, della produzione artistica di Jono Manson che dagli USA ha lavorato al sound caldo e robusto coadiuvato da un nutrito manipolo di musicisti locali.

I temi dell'album sono quelli da sempre cari a Marino, le diseguaglianze sociali, la resistenza, i lati oscuri della storia italiana, ma anche i rapporti umani, la famiglia, gli affetti, la casa, i valori autentici.
I primi tre pezzi del disco, tra malinconia, denuncia sociale e impettita rievocazione storica, rappresentano un ottimo sunto di questi temi. Nel dettaglio, la title track è una ballata agrodolce che mette in evidenza, oltre ad un bel testo introspettivo, la profondità del suono del combo allargato; Non finisce qui, una delle canzoni migliori dell'intera raccolta, traccia invece una parabola umana che parte dell'immigrazione e termina con la morte da lavoro. E' cantata con Marino che impersona il figlio di un operaio ucciso dall'esposizione all'amianto e non può non ricordare i sacrifici dei nostri genitori, che hanno lasciato una vita semplice ma senza prospettive, per costruire un futuro migliore alla propria famiglia lontano dalla terra natìa. Alle barricate, il cui testo rievoca i fatti di Parma del 1922, si impone dal primo ascolto come un classico moderno che spaccherà in due i concerti dei Gang.

A livello di onestà intellettuale la band vola su livelli irraggiungibili da quasi qualunque altro artista, l'integrità anche politica del gruppo ci fa dunque perdonare pezzi come Fausto e Iaio, dall'elevato valore civile, ma un pò troppo retorici nelle liriche e nello sviluppo. Viceversa, per un vecchio cuore comunista pieno di dubbi e incertezze come il sottoscritto, un brano come Nino (riferito ad Antonio Gramsci) tocca le giuste leve emotive e riaccende idealmente un faro, ad illuminare il percorso di questi tempi oscuri. 
Si chiude in uno straordinario crescendo con una canzone dedicata a Moreno Gabriele Locatelli (Più forte della morte è l'amore) e la suggestiva Mia figlia ha le ali leggere, anche se il pirotecnico commiato è senza dubbio rappresentato da Nel mio giardino, infuocato errebì nel quale la macchina da guerra di organo e sezione fiati apparecchiati da Manson dà il proprio straordinario meglio.

Bentornati Marino e Sandro. Davanti ad un disco così c'è da accendere un cero a qualche entità laica superiore pregando che siate tornati per restare.



lunedì 4 gennaio 2016

Alice Cooper & Motley Crue, Milano 10.11.2015 parte 2/2

In un tempo ragionevolmente breve il palco principale è pronto e, a luci spente, con le note di So long, farewell ad accompagnarli, salgono sul palco Vince, Nikki, Mick e Tommy.

L'unico precedente dei Motley Crue in Italia, se escludiamo la partecipazione a qualche festival, è stato sempre a Milano, nell'allora Palatrussardi, il 18 ottobre del 1989. Io ci andai da solo, esattamente come questa volta ed esattamente come questa volta scelsi la medesima posizione del mio posto a sedere, anche se oggi il criterio risponde ad uno schema che mi sono fatto in relazione all'età: concerti in location grandi/poltroncine; concerti in piccoli club/sotto il palco.

Lo show inizia con l'inconfondibile rombo di Harley che introduce Girls girls girls e per l'occasione salgono sul palco un paio di ballerine che accompagnano l'esibizione della band, ma il mio occhio cade inevitabilmente sul frontman Vince Neil, quello che, negli anni, più degli altri ha subito un colossale declino fisico: inquartato com'è sembra di vedere il cantante dei tempi migliori attraverso uno specchio deformante. Una sensazione stranissima che si protrarrà per tutta la durata dell'esibizione nonostante il suo impegno, la sua mobilità e beh, i suoi trucchi del mestiere per non sforzare troppo la voce (il microfono teso spesso verso il pubblico a sollecitare i canti;  il ricorso al falsetto quando c'è da scalare le ottave). 


Tuttavia sono sincero: pensavo peggio
Ad ogni modo dei quattro l'unico per il quale il tempo non sembra passare mai è Tommy Lee, che a due terzi di concerto delizia tutti con questa incredibile esibizione con la batteria che si arrampica, ruotando su sè stessa, su un binario proteso dalla postazione on stage fino al soffitto per poi scendere ad un piccolo palco dal lato opposto del forum, e  indietro, il tutto mentre il batterista non smette mai di suonare, nemmeno quando è a testa all'ingiù, ed incitare gli spettatori. In pratica la versione 2.0 di quanto fatto nel tour di ventiquattro anni fa. 
Gli altri dicevo. Nikki Sixx fa il suo con professionalità ma non sembra molto reattivo e Mick Mars, a causa dei noti problemi di salute, sembra un ragnetto rinsecchito e ricurvo su se stesso, ancora più vecchio dei suoi sessantaquattro anni, anche se quando imbraccia la chitarra per prendersi il palco con il suo solo, questa immagine si dissolve per lasciare spazio al mammasantissima di guitar hero che il signor Mars, nonostante i pattern a ciclostilo della band, indiscutibilmente rappresenta.

La scaletta è una prevedibile raccolta dei maggiori successi e questo, lo confesso, è l'aspetto più deludente della serata. L'unico guizzo inaspettato è rappresentato dall'esecuzione della judaspriestiana Louder than hell (da Theatre of pain), che mi ha letteralmente esaltato.
Tra  fuochi, fiamme (anche lanciati dal basso di Nikki durante Shout at the devil), effetti pirotecnici e bracci meccanici che hanno fatto oscillare Neil e Sixx sulla folla durante Kickstart my heart, l'esibizione arriva alla sua inevitabile conclusione con i quattro che rientrano su un piccolo palco a fondo sala per eseguire l'immarcescibile Home sweet home

E così si chiude l'avventura musicale dei Motley Crue. Non era difficile cogliere, nelle dichiarazioni rilasciate dai quattro durante l'ultimo anno di tour, quasi esclusivamente orientate alle aspettative per i futuri progetti solisti dei singoli componenti, o nella freddezza dei rapporti percepibile anche dagli spalti, la finalità esclusivamente commerciale di questa operazione. Nonostante questo e nonostante l'ossessiva ripetitività delle esibizioni (stessa scaletta dalla prima all'ultima data del 31 dicembre a Los Angeles, dove, per dirne una, avrebbero potuto suonare una canzone dei Motorhead in ricordo di Lemmy) credo che se questa sarà davvero la fine della band, sia stato dignitosa quanto basta. 
Aspettiamoci ora un 2016 denso di avvenimenti "postumi" come il documentario del tour d'addio, l'intero concerto della vigilia di capodanno, il film tratto dall'autobiografia The dirte poi sarà l'oblio. 
Giusto?


Le foto a corredo del post sono tratte dal sito onstageweb

Qui la prima parte

venerdì 1 gennaio 2016

Show me a hero


Show me a hero è una mini serie auto conclusiva in sei parti del tipo che, spiace dirlo perchè le produzioni italiane hanno fatto enormi passi in avanti, ci vorrà ancora molto tempo prima che saremo in grado di replicare da queste parti.
Perchè questo film a episodi riprende dei fatti realmente accaduti nella provincia piccolo borghese americana (Yonkers, New Jersey) riuscendo nell'impresa di illustrarli eludendo agiografia e paternalismo.
La storia ruota attorno alla figura di Nick Wasicsko, nel 1987 il più giovane sindaco di una città USA, che si trova a gestire una situazione complicatissima e totalmente antipopolare: un operazione di de-segregrazione che prevede l'insediamento di un lotto di duecento case destinate alle fasce più povere della popolazione nera dentro spazi fino a quel momento utilizzati dalla parte bianca e benestante della città. Il progetto è approvato da anni ma le precedenti giunte hanno fatto ricorso ad ogni espediente per evitarne l'adozione, fino a quando, in corrispondenza con l'elezione di Wasicsko (interpretato da un quasi irriconoscibile Oscar Isaac), la magistratura minaccia di portare il comune in bancarotta se non verranno avviate le pratiche per l'avvio dei lavori.
Senza alcun appoggio da parte del proprio Partito (i democratici), con i suoi elettori bianchi contro e senza riuscire ad avere nemmeno il sostegno dei votanti neri, i cui leader sono scettici sul progetto, Wasicsko, letteralmente travolto dagli eventi, riesce a far approvare il piano edilizio, pagandone in seguito un prezzo altissimo.
Come nella tradizione delle storie raccontate da David Simon (su tutte The Wire e Treme), l'autore tesse una tela formata da tante storie diverse, che vanno tutte insieme ad intrecciarsi fino a formare l'opera finale, astenendosi da dare giudizi ma mostrando l'America più reale, quella che faticosamente emerge dalla cronaca locale.
 
In molte dinamiche raccontate dagli sceneggiatori, come il tentativo di convincere i cittadini ostili del pericolo al quale sarebbe andata incontro la città se non avesse iniziato i lavori oppure l'atteggiamento di alcuni politici locali che, pur sapendo di non potere fermare l'operazione, si schierano con la popolazione per raggiungere traguardi personali, ho rivisto come in uno specchio nitidissimo situazioni che nella mia attività sindacale vivo in continuazione, e,beh, non nascondo che la cosa mi abbia, per una volta, gratificato, facendomi sentire virtualmente meno solo.
 
Poi certo, un altro elemento per me a fortissimo impatto emotivo è stato l'ampio contributo della musica di Bruce Springsteen quale commento alle immagini. Mai in passato il boss aveva aperto così ampiamente l'armadio del suo repertorio per concederlo ad un'opera cinematografica o televisiva. In ogni episodio suonano, a volte anche citati dai protagonisti, la media di due-tre pezzi di Springsteen, ma io vorrei concentrarmi su due di essi, considerati minori e che fanno viceversa un figurone. Si tratta di Give it a name (da Tracks) sui titoli di testa dell'episodio uno e Lift me up (inedito sulla prima versione del 2003 di Essential) che accompagna il  finale.

Opera asciutta, potente, magnifica. E di soli sei episodi. Anche i non adepti alle serie non hanno scuse.