mercoledì 31 luglio 2013

MFT, LUGLIO 2013

ASCOLTI

Che annata meravigliosa, musicalmente parlando, quella del 2013. Dovessi compilare oggi, quando mancano ancora cinque mesi al termine dell'anno, la classifica delle migliori uscite, avrei già grosse difficoltà a stare nelle canoniche dieci. L'unico effetto collaterale un po' sgradevole è che, inevitabilmente, concedendo molto tempo ai dischi nuovi, ne sottraggo agli ascolti "di repertorio", che normalmente invece hanno una parte rilevante nelle mie playlist. Ad ogni modo luglio registra il gradito ritorno (seppure su EP), dei maestri dello sleaze-metal Dogs D'Amour, il debutto su full-lenght di Jason Newsted, l'arrivo del supergruppo The Winery Dogs (con il gigantesco Billy Sheehan al basso!) e la graduale retrospettiva sulla musica di Wayne Hancock e Bob Wayne.

Bob Wayne, Outlaw Carnie
Jason Isbell, Southeastern
The National, Trouble will found me
The Winery Dogs, self titled
The Dogs D'Amour, Cyber Recordings
Phil H. Anselmo and The Illegals, Walk through exits only
Eric Church, Caught in the act
Eleanor Friedberger, Personal record
Big Country, The Seer
Newsted, Heavy Metal Music
Wayne HancockThunderstorms and neon signs



VISIONI

Mentre scrivo sto ultimando alcuni recuperi importanti di serial storici. Mi appresto infatti alla visione dei final season dei Soprano (stagione cinque) e 24 (stagione uno). Di seguito, salvo ripensamenti, ne ho invece in programma una nuovissima: The Following con Kevin Bacon, in attesa naturalmente di seguire la conclusione della saga Breaking Bad, che sarà trasmessa in USA a partire dall'11 agosto.


LETTURE

Mentre sto valutando di recuperare alcuni bestseller in ambito thriller/noir consigliati da amici e blogger affini (Jo Nesbo, Donato Carrisi, Joel Dicker), ho accantonato alcuni libri che non mi davano più stimoli e ho iniziato Zulu, un thriller ambientato in Sudafrica, scritto da Fèrey Caryl.




lunedì 29 luglio 2013

Jason Isbell, Southeastern




Originario dell'Alabama, Jason Isbell (classe 1979), ha cominciato giovanissimo a comporre e suonare, unendosi poi, poco più che ventenne, per un breve periodo (2002/2006) ai  Drive-By Truckers (band roots rock con derive southern), per poi uscire dal gruppo e riprendere più convintamente la carriera solistica. Della band dei DBT ho perso le tracce da tempo (cioè da quando ho smesso di leggere il Buscadero, che me l'aveva fatti conoscere), mentre su questo nuovo disco del buon Jason (che ho scoperto essere il quarto della sua discografia personale) ci sono inciampato per caso e, come spesso mi accade, quando arrivo disarmato ad un ascolto, finisco per esserne folgorato.

Southeastern è infatti un album ispiratissimo, che muove sui terreni più melodici ed introspettivi del genere americana, nei quali Isbell risulta a proprio agio nel tessere una fitta ed evocativa tela di storie ed immagini.
Non deve stupire che Cover me up, la traccia d'apertura, sia idealmente collocabile dentro quel capolavoro che fu Love is hell di Ryan Adams, non solo perchè l'autore della North Carolina continua ad essere un punto di riferimento per chiunque voglia confrontarsi con questo stile musicale, ma anche perchè l'ex Drive-By Truckers lo ha recentemente affiancato, accompagnandolo in tour. Ma al di là di ogni condizionamento artistico, il pezzo è splendido: delicato e suggestivo, insieme al successivo Stockholm, rappresenta il miglior modo possibile per entrare nel mood del disco, che deflagra dolcemente con la traccia successiva. 

Già, perchè Traveling Alone si candida ad essere l'heartbreaker song dell'anno, il pezzo da usare per far capitolare definitivamente la persona che amate. Uno di quei brani il cui crescendo fino al ritornello è talmente armonioso da riempirti il petto di gioia e le cui parole sarebbero in grado di far piovere a dirotto anche sul cuore più arido. Con una traccia come questa tutto il resto non può che venire da sè, anche se Isbell non si siede sugli allori, continuando a fare centro con ElephantDifferent days e, proprio quando ci si abbandona alla dolcezza delle sue melodie, a graffiare con lo sferzante rock and roll di Super 8 (forse l'impronta più marcata dell'esperienza Drive-By Truckers) posto nel trittico di brani a chiusura del disco. Ma è inutile insistere con le singole canzoni: Southeastern è il classico caso in cui se rifacessi questa stessa recensione tra un mese, ad affiorare, tra i dodici titoli disseminati nella tracklist, sarebbero altri pezzi, inevitabilmente destinati a crescere col tempo.

Non so che dire: potrebbe tranquillamente essere una di quelle situazioni nelle quali mi identifico talmente a fondo nella musica di un'artista da vederci quello che magari per gli altri non c'è in misura così clamorosa (come per il pupillo Hayes Carll), ma trovo che Southeastern sia uno quei gioiellini nascosti, pieni di poesia e suggestione, che ti ti porti appresso custodendoli gelosamente, mentre Jason Isbell (che nell'immagine di copertina del disco, tra abito, taglio di capelli ed espressione, somiglia mostruosamente a Jimmy Darmody, il personaggio interpretato da Michael Pitt in Boardwalk Empire) sia un interprete da non perdere di vista.

8/10

sabato 27 luglio 2013

Chronicles 24

La parte più difficile del (provare a) fare il sindacalista è trovarsi di fronte uomini e donne che hanno bisogno di lavorare più che dell'ossigeno, ed essere totalmente impotenti perchè tutte le aziende alle quali mandi i loro cv ti rispondo se sei per caso pirla, a chiedere una posto di lavoro a tempo determinato in questo periodo. Parlo di persone che mantengono una famiglia con un reddito complessivo di meno di mille euro al mese,  che hanno uno sfratto che gli pende sulla testa, per le quali le istituzioni locali non riescono a fare niente, e che osservano con angoscia sul calendario la data entro la quale devono abbandonare la loro casa. D'altro canto siamo un paese nel quale un criminale di guerra,assassino e torturatore come Priebke si fa la sua passeggiatina quotidiana per le vie di Roma e serve un monito del sindaco per dissuadere (non impedire, temo) che qualche testa di cazzo di italiano gli organizzi anche una festa per il raggiungimento dei cento anni d'età. Magari qualche testa bacata come questo che ho visto aggirarsi ieri per le vie di Milano...


mercoledì 24 luglio 2013

Anarchy, inc / Sons of Anarchy 5



Jackson "Jax" Teller ha perso per strada il suo obiettivo. Puntava a realizzare il sogno del padre di ripulire i Sons of Anarchy dal traffico di armi e dalla violenza, e invece si trova a ripercorrere la strada delle macchinazioni e dei doppi giochi del detestato patrigno Clay Morrow, che del padre è l'assassino, e che, (anche) per questo, è stato quasi ucciso e degradato a semplice affiliato del club. Jax è quindi diventato presidente, e mentre continua a promettere alla compagna Tara di voler chiudere con il club, utilizza il ricatto e l'omicidio come strumenti quotidiani per raggiungere i suoi scopi o per vendicarsi dei torti subiti. L'eredità lasciata da Morrow, in merito alle alleanze con il cartello messicano di Calindo (trasporto di droga) e con la True IRA (per le armi), oltre al colossale casino messo in piedi da Tig (sempre a causa di Clay) con il vendicativo mega boss Damian Pope, non gli faciliteranno certo le cose.

La quinta stagione di Sons of Anarchy non si fa mancare nessuno degli ingredienti che hanno fatto di questo serial una produzione d'eccellenza nel panorama televisivo. I nuovi character, il bravo diavolo Jimmy Smits (NYPD Blue, Wesy Wing, Dexter) e il cattivissimo Harold Perrineau (Oz, Lost), garantiscono garanzia di qualità rispetto agli innesti del passato, mentre i colpi di scena sono assicurati fino all'ultima sequenza. In questo senso, dati ormai per scontati gli elogi al superbo lavoro di sceneggiatura di Kurt Sutter, mi spingo ad allargare il mio apprezzamento anche alla sua interpretazione del ruolo, piccolo, ma significativo, di Otto Delaney, ex membro dei SAMCRO, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza. Otto è una figura tragica che si trascina stancamente in attesa dell'esecuzione della sua condanna a morte, ma che il club proprio non riesce a lasciare andare. Le sequenze nell'infermeria della prigione tra lui e Tara riescono ad essere squallide, violente e commoventi allo stesso tempo. In conclusione, per questo personaggio, viene aggiunto un ulteriore, raccapricciante capitolo ai suoi atti di autolesionismo, quasi a mettere in pratica l'allegoria della morte che sopraggiunge giorno dopo giorno, portandosi via un pezzo per volta di te.
 
Come ogni serial che arrivi così avanti con le stagioni, infine, anche in Sons of Anarchy si registrano lutti importanti, uno in particolare ha colpito al cuore tutti i fans (e soprattutto LE fans) del telefilm.
 
La sesta stagione è prevista per settembre (qui un breve teaser promozionale).

lunedì 22 luglio 2013

Ghost, Infestissumam


Ci sono voluti tre anni perchè i Ghost dessero alle stampe il seguito di Opus Eponymus, esordio che, come avevo accennato nell'apposita recensione, aveva creato un hype crescente ed una netta spaccatura nella comunità metal, tra quanti adoravano la band, e chi al contrario, la detestava ferocemente.
Personalmente avevo trovato quel disco, e tutto il baraccone messo in piedi dai baldi svedesi, gradevole ma da sottoporre a verifica con nuovo materiale. Ora che da qualche mese ascolto Infestissumam (il termine dovrebbe stare per "il più ostile") posso schierarmi anch'io più convintamente in una frangia. E più precisamente in quella di quanti scuotono sconsolati la testa. No, proprio non ci siamo. 

Infestissumam infatti, invece di agire su quegli elementi che indebolivano il debutto, arriva ad enfatizzarli: mancano completamente pezzi tirati, tastiere e cori tracimano in misura molesta, manca la scelta di una direzione stilistica definita, qualcuno aggiunge addirittura che le citazioni in latino, di cui la band abusa, sarebbero spesso errate. Non che questo sia il problema principale, intendiamoci. I Venom (tanto per citare un gruppo considerato satanico) avrebbero potuto incidere la loro Buried alive in qualunque idioma zoppicante e comunque dell'atmosfera che sapevano creare non si sarebbe perso un grammo. Atmosfera, capito? Quella che qui sembra affacciarsi un pò giusto nella title track strumentale e nella successiva Per aspera ad inferi, ma che poi si perde nella mazurka-rock di Secular Haze e nel, boh, prog di Jigolo har megiddo, per poi svanire del tutto nell'interminabile Ghueleh/Zombie queen, che inizia come un art-rock sbagliato per poi trasformarsi in quella che sembra una parodia di un brano da musical. Si torna ad ascoltare qualcosa di minimamente dignitoso nella conclusiva Monstrance clock.

A questo punto raccolgo e rilancio il dubbio di quanti vedono nei Ghost un'operazione che sta tra la poderosa paraculata e una ben congeniata presa in giro del rock satanico. Se così fosse sarebbe ora che i misteriosi artisti dietro le maschere di papa Emeritus II e dei suoi monaci svelino (se non altro) la loro vera identità artistica. Che magari come nuovi Spinal Tap sarebbero anche bravini, eh.

5/10

sabato 20 luglio 2013

Nove



(Qui Stefano è con Golia, il criceto russo che da quasi un anno ha preso il posto di Squittino come membro aggiunto della famiglia)

venerdì 19 luglio 2013

Pacific Rim


Ci può essere qualcosa di più divertente, per un papà cresciuto con Mazinga e Jeeg e un bambino di (quasi) nove anni, di un film con giganteschi mostri squamosi che combattono robot alti come tre grattacieli? Ma ovvio che no! Ecco perchè appena ho saputo di questo Pacific Rim mi sono fiondato a vederlo insieme a Stefano, e indovinate un pò? Ci siamo divertiti come pazzi. 
Va da sè che se cercate un intrattenimento dotato di un briciolo di sceneggiatura decente o di dialoghi sopra il minimo sindacale fareste meglio a stare alla larga, ma insomma che non sia quella la vocazione della produzione lo si capisce a distanza di un chilometro.

Tra l'altro mi sono avvicinato al film senza nessuna nozione sul cast e grande è stata la sorpresa (e il piacere) nel vedere che il casting è stato composto affidandosi ampiamente ai serial televisivi. Protagonista principale è infatti Charlie Hunnam, il Jax Teller di Sons of Anarchy, mentre il capo della divisione pan-militare dei robot (poi passata in clandestinità) è Idris Elba, una buona filmografia alla spalle, ma per i fans di The Wire l'astuto criminale Stringer Bell. Un piccolo e divertente cameo poi per Ron Perlman, anche lui una vita da caratterista per il cinema ma da qualche anno a questa parte il perfido Clay, patrigno di Hunnam/Jax sempre in Sons of Anarchy.

Poi beh, Pacific Rim è un dichiarato omaggio alla cinematografia giapponese dei terribili mostri (Godzilla, Gamera) nati dalla paura del nucleare dopo l'attacco atomico americano, non è un caso infatti che le creature anfibie che qui emergono da un portale negli abissi marini per attaccare la terra, si chiamino Kaijù, proprio come quelle nate dalla fantasia degli autori della casa di produzione giapponese Toho Company. 
Il film chiaramente ha i suoi highlights nel realismo dei scontri, che siano in pieno oceano o fra i grattacieli, con il cumshot assoluto rappresentato dalla sequenza in cui Gipsy Danger (il robot considerato obsoleto, guidato da Hunnam prima insieme al fratello e poi con una giapponese  -interpretata da Rinko Kikuchi-  unica superstite della sua famiglia sterminata da un attacco Kaijù) si avvicina ad un mostro brandendo una nave transatlantico come se fosse una mazza da baseball per poi usarla per suonare come una zampogna la malvagia creatura anfibia.

Come dicevo in premessa, al netto di qualche sequenza che ha consigliato a Stefano la cautela della mani davanti agli occhi, divertimento assicurato. Un classico pop-corn movie.

mercoledì 17 luglio 2013

Bob Wayne live al Lo-Fi di Milano

Milano, Alabama 15 luglio 2013


Bizzarro come vanno le cose. Programmi di vedere un concerto con mesi di anticipo e tutto congiura contro per fartelo saltare, poi scopri con un preavviso di pochi giorni che un tuo pupillo suona a Milano e in tempo record riesci ad incastrare perfettamente genitorialità e tempo libero, in modo da potertelo godere. Questa è la premessa al mio concerto di Bob Wayne, illustre componente di quelli che definisco i Big Four dell'independent outlaw country americano (gli altri sono Hank III, Wayne Hancock e Joe Buck), del cui show al Lo-Fi di Milano mi sono avveduto casualmente solo martedì scorso, riuscendo a cogliere l'occasione al volo.

Arrivo al Lo-Fi Club di Milano intorno alle 21:30, cioè l'orario indicato per l'inizio del concerto, il posto è alla fine di una strada senza uscita che corre parallela ai binari della ferrovia (la stazione di Rogoredo è a due passi). Lo spazio è abbastanza piccolo (e questo per i miei parametri è un bene) e c'è davvero pochissima gente, non più di una ventina di persone, che scoprirò poi essere in gran parte componenti delle band italiane di supporto con amici/fidanzate a seguito. Il palco non è molto grande (diciamo che in cinque si sta stretti) ne molto alto (a occhio e croce sfiora il mezzo metro). Come da programma, è allestito anche un barbecue dove si arrostiscono hamburger e porchetta, ma io, che sono arrivato sul posto "già mangiato", lo ignoro e, assecondando le mie abitudini, mi dirigo invece al banchetto del merchandising, dove spendo un quindici euro per il cd Till the wheels fall off, titolo che a suo tempo avevo già consumato (l'avevo piazzato terzo nei migliori del 2012) ma che mi sento obbligato a comprare. Le mie radici democratiche (inteso come partito d'opposizione ai repubblicani USA) mi fanno desistere invece dall'acquisto di una splendida maglietta nella quale Bob imbraccia un fucile sotto la scritta "Bob Wayne doesn't call the 911". 

Sapendo che il concerto si sarebbe svolto all'aperto mi ero premunito portandomi appresso l'Autan d'ordinanza, ma niente avrebbe potuto prepararmi al micidiale assalto di zanzare che con gli altri presenti subisco ininterrottamente fino al calar del sole. In pratica un massacro. Per ammazzare la noia mi prendo una bionda, nemmeno il tempo di assaporarla ed eccolo lì mr Wayne, che fa il soundcheck e suona quasi per intero Till the wheels fall off. Saluto facendo cenno con la birra, canticchio il ritornello, lui ricambia con un gesto della testa.

Al termine delle prove Bob mi raggiunge indicando la mia t-shirt di Hank III, mi saluta, e dopo qualche convenevole ("These mosquitos suck!") si fa un giro col mio Autan. A vederlo da vicino il signor Wayne è un tipo alquanto bislacco, barba lunghissima che lui non manca mai di accarezzare, occhi spiritati, passo incerto, mole che lo fa sembrare un pò goffo, grande simpatia. Per tutto il tempo che lo separa dalla sua gig  (che sarà molto, visto che inizierà quasi a mezzanotte) continuerà ad aggirarsi tra la gente scambiando parole e tirando sberloni sui coppini altrui con la scusa di schiacciare zanzare. Una sagoma d'uomo.

Verso le dieci e mezza attacca il primo gruppo spalla, si tratta degli italiani Iron Mais, che, sulle orme degli Hayseed Dixie, propongo cover di noti pezzi rock reintepretati in salsa blugrass al fulmicotone. Tra le altre, ad assere omaggiate dal trattamento dei ragazzi, Ace of spades dei Motorhead, Enter sandman dei Metallica, Paradise Ciry dei GnR, ma anche Touch me di Samatha Fox (!!!) e El Diablo dei Litfiba, presentata col titolo di "18" per via del ritornello che fa sei,sei,seiiii (diciotto!) e Anarchy in the UK. Un combo divertente, al limite del demenziale, ma di buon intrattenimento.

Diverso il discorso per gli Hell Spet, band bresciana con all'attivo già diversi lavori, che propone un country/psychobilly devastante, orientato alla velocità e ai cambi di tempo. Schierati con una formazione che prevede tre chitarre, batteria, banjo e contrabbasso, i ragazzi pestano giù veramente duro per tutto il loro set, fino al deflagrante finale con i brani Dynamite e Hell Spet. Davvero ammirevoli per il coraggio di portare avanti una proposta così fuori posto sull'italico suolo e meritevoli di platee diverse, magari giù, a sud degli states.

Come anticipavo, è quasi mezzanotte quando giunge il momento degli Outlaw Carnies e del loro leader Bob Wayne, sotto il palco saremo poco più di una cinquantina di persone ma l'omone non si perde d'animo e scarica una bella dose di adrenalina con una partenza pirotecnica: Till the wheels fall off; There's no diesel trucks in heaven e poi Love songs suck e la scatenata Everything's legal in Alabama. Vista l'estrema confidenza venutasi a creare (dopo aver chiaccherato e scherzato con noi per un paio d'ore, volendo il cantante avrebbe potuto chiamarci tutti per nome) e l'assenza di barriere o di distanza minima dal pubblico, il botta e risposta tra noi e lui è una divertente costante della serata (tormentone assoluto l'unica frase in italiano che probabilmente l'americano conosce: "whiskey per tutti! Pago io!" seguita però da un eloquente dito medio alzato che sta per "si, col cazzo").
Sul palco il countryman è accompagnato da chitarra, contrabbasso,batteria e violino ma non dal banjo e questa cosa un pò mi stupisce. Il chitarrista è un vero manico, siamo tutti rapiti dal suo stile e dalla velocità dei suoi solo, mentre l'atteggiamento è molto distaccato e cool, a muoversi infatti sono solo le mani visto che per il resto non solleva nemmeno un sopracciglio per tutta la durata del concerto. Al violino l'unica ragazza che sale le assi del palcoscenico nell'intera serata, le sue parti sono determinanti per il sound della band.



Nel corso della setlist trovano spazio anche due pezzi inediti (uno dal titolo Evangelyne) mentre via via scorrono tutti i classici vecchi e nuovi di Bob: Roadbound, Estacata, Mack, Ghost town, Driven by demons, Lyza, Hunger in my soul, Chatterbox, Cardboard blues.
A un certo punto Wayne, nel ringraziare il pubblico, afferma di essersi sentito a casa nel vedere in giro tizi con le magliette di Johnny Cash e di Hank III (nel farlo indica me, che sono il più a portata d'indice) quindi ci dà notizie sul nuovo album dell'amico ("è quasi pronto") e ci informa che lui "is watchin' over you". Poi parte con Working man, brano originariamente cantato a due voci proprio con Hank e incluso sia in Damn right rebel proud del nipote di Williams sr che in By demons be driven.
Vengo di nuovo salutato con simpatia da Bob sull'attacco di All those one night stand (pezzo che adoro, e non faccio niente per nasconderlo)  ma probabilmente l'highlight della serata è il richiestissimo Fuck the law, anche perchè durante la sua esecuzione, prima del refrain, Wayne ci chiede la traduzione del titolo in italiano (qualcuno suggerisce "vaffanculo alla legge") e così l'omone prosegue cantando il ritornello in italiano e filmando il nostro singalong ("per un dvd sull'european tour", dice ).

Dopo meno di un'ora e mezza di concerto la serata si conclude con Spread my ashes on the highway e Bob che sulla coda del pezzo scende tra il pubblico a seguire con noi l'esecuzione degli Outlaw Carnies. Nessuno si stupisce che a quel punto la serata finisca tutti insieme con foto, autografi e altre chiacchere. Dopo aver ottenuto i miei feticci (foto ricordo e autografo sul cd) saluto con calore the man e mi dirigo alla macchina giusto in tempo per vederlo rifiutare offerte di alcolici (in effetti in tutta la serata l'ho visto bere solo Coke). Capisco voglia tenersi in forma:il suo leg europeo, tra palchetti da fiera di paese e autorevoli stand al Wacken, conterà quarantanove date in cinquantotto giorni (dal 14 giugno all'11 agosto). Normale anche si sia un pò risparmiato in una serata così, ma nonostante questo credo che nessuno spettatore sia rimasto deluso dalla sua performance, dal suo atteggiamento o dalla sua disponibilità. Non lo sono stato certo io che ho avuto dal concerto esattamente quello che chiedevo e forse anche un pò di più. Che siano proprio le serate meno programmate quelle che danno più soddisfazione?




P.S. Le foto non sono granchè a causa dello strumento usato (telefonino) e delle luci sparate fisse sul pubblico...

lunedì 15 luglio 2013


Mi sono avvicinato a Random Access Memories e ai Daft Punk (un monicker e un genere che non ho mai seguito) grazie alla gigantesca discussione che si è sviluppata in rete a seguito della pubblicazione del nuovo disco del duo francese, che mancava una nuova release da otto anni. Fans e amanti della musica elettronica hanno riempito migliaia di pagine sui forum musicali,  analizzando e dissezionando il lavoro dei deejay transalpini con una meticolosità che ritenevo di pertinenza esclusiva del mondo rock. Insomma, ho scoperto l'esistenza di una galassia (quella della musica elettronica, perlappunto) vastissima e popolata di gente che trasmette una sana e contagiosa passione. Una volta capito questo, e saputo che il cd è stato annunciato come un lavoro di "elettronica suonata con strumenti reali" tutta la discussione ha cominciato ad assumere un senso compiuto e il lavoro ad intrigarmi maledettamente.

Ora, io non mi darò arie da ascoltatore illuminato che sente "un pò di tutto", come è noto, di norma le mie coordinate segueno essenzialmente le ascisse del genere americana e le ordinate dell'hard rock/heavy metal. Però ecco, un merito me lo riconosco, se mi scatta la curiosità non mi precludo alcun genere. E, come spiegato sopra, di curiosità Random Access Memories (RAM per gli amici) me ne ha smossa parecchia, senza che, per una volta, le mie aspettative venissero poi deluse.
L'album è infatti un divertentissimo viaggio nella disco music anni 70/80, con tanto di ritmi cafoni, falsetti, vocoder e pezzi killer che farebbero la felicità di Tony Manero. Si sente eccome la collaborazione dell'ex-Chic Nile Rodgers nel creare il mood del progetto ed assemblarlo. La tracklist consta di tredici tracce e di un timing che arriva quasi a saturare la soglia massima di ottanta minuti del supporto digitale.

Si comincia con Give life back to music e The game of love stilose e propedeutiche ad orientare l'ascoltatore nella giusta dimensione, ma è con Giorgio by Moroder che viene calato il primo asso. Il pezzo infatti è uno straordinario tributo a questo produttore (e musicista) italiano che tanto ha inciso sulle sonorità pop-dance americane e sulle soundtrack di svariati film tra la fine dei settanta e gli ottanta (tra gli altri Fuga di mezzanotte, American Gigolò, Il bacio della pantera, Flashdance, La storia infinita, Scarface). Il brano è introdotto da un parlato di Moroder che racconta brevemente la storia della sua carriera, dall'adolescenza in Italia passando per la prima migrazione in Germania e poi negli USA, accompagnato da un sottofondo musicale discreto che non distoglie l'attenzione dell'ascoltatore dalle parole di Giorgio, per poi, terminato lo spoken, deflagrare in un coinvolgente funky-disco strumentale . Non pensavo di potermi emozionare con un pezzo di queste coordinate, ed invece il connubio tra le parole di Moroder, il suo inglese con cadenza italiana ("my name is Giovanni Giorgio, but everyboy calls me Giorgio")  e il crescendo della musica, mi hanno provocato esattamente quella reazione.

L'ascolto di RAM prosegue senza cali fino ad oltre la metà della tracklist, che entusiasma ancora con le ottime Insant Crush (feat. Julian Casablancas degli Strokes); Lose yourself to dance (feat, Pharrell Williams), Touch e, ca va sans dire, il singolone-tormentone Get Lucky (ancora con Pharrell Williams). Si può dire quello che si vuole sui pezzi che hanno appiccicato addosso il bollino delle hits, ma questa, a prescindere dallo straordinario successo commerciale (e di traino) conseguito, resta una traccia vintage elegante ed irresistibile, con il solo problema legato  alla sovraesposizione mediatica, che alla lunga te la fa venire a nausea.
Ecco, Get Lucky è la traccia numero otto, fino a qui il disco viaggia come un bambino che si lancia inconsciamente a tutta velocità su uno scivolo saponato, poi, a mio avviso cala un pò (o semplicemente a subentrarmi è un pò di stanchezza), per poi riguadagnare quota con Fragments of time e Doin' it right.

Un disco inaspettatamente entusiasmante, che ha penetrato la mia più totale indifferenza iniziale per passare all'inclusione pressochè certa nella top ten del 2013 di Bottle of smoke.
Perciò, anche se in pista ho l'eleganza di uno scaldabagno, non posso che congedarmi da questa recensione con il perentorio invito dei Daft Punk: lose yourself to dance!

8/10

sabato 13 luglio 2013

Chronicles 23

Da qualche anno con la mia sweet half abbiamo deciso di dividere in tre periodi distinti, da fare separatamente, le canoniche tre settimane di ferie, in modo da farle diventare sei e far passare più tempo con noi a Stefano, che per il resto va al CRED comunale, che è bello e divertente, ma che lo obbliga ad alzarsi presto tutti i giorni e insomma ha un pò i ritmi e i tempi della scuola. Quello che va ad iniziare è il mio primo periodo, e quindi, anche se non farò villeggiatura, i prossimi sette giorni li passerò con mio figlio: ho in mente qualche biciclettata in posti irrituali, piscina, un pic-nic...ma anche un pò di ozio tipicamente estivo. In ogni caso nessuna organizzazione militare e molta elasticità nei programmi. Vedremo giorno per giorno. Che la prossima è anche la settimana che si concluderà (sabato 20) con il suo nono compleanno, e i preparativi,come si dice, fervono.

mercoledì 10 luglio 2013

I Soprano, stagione 4


Correva il 1999, per le notizie sul mondo dello spettacolo ci si affidava esclusivamente agli strumenti canonici della carta stampata, della tv, del passaparola. Nella comunità degli springstiniani ad esempio, girava la voce della presenza di Little Steven (nelle vesti di attore) in questo telefilm su una famiglia mafiosa che stava avendo un grosso successo in USA. I tempi non permettevano le scorciatoie che oggi conosciamo per ridurre il gap tra le produzioni originali e il loro arrivo in Italia e dunque si dovette attendere quasi due anni perchè una televisione italiana (Canale 5) cominciasse a trasmettere le gesta dell'ipotetica cupola del New Jersey. Gesta, per inciso, che in breve riusciranno nell'impresa di sostituire nell'immaginario collettivo del pubblico americano, l'iconografia classica della Famiglia mafiosa rappresentata per quasi trent'anni dai Corleone (e da Il Padrino di F.F. Coppola), andando ad abbattersi prepotentemente sulla cultura pop a stelle e strisce. Tutto questo (e molto altro) hanno rappresentato The Sopranos.

A titolo personale, la serie, ideata dallo sceneggiatore David Chase, è stata anche una sorta di apripista ai serial moderni, visto che mi ha indotto per la prima volta a ragionare in termini di "stagioni" oltre che ad approfondire quel concetto di serialità che oggi domina le produzioni televisive che, a loro volta, sia  a livello di investimenti che di nomi, hanno abbandonato definitivamente lo status di parente povero del cinema.

L'idea di base di Chase è stata quella di mostrare, in tutta la sua ordinarietà, la vita del boss Anthony (Tony) Soprano, della sua cricca malavitosa, della moglie Carmela, dei figli Anthony Junior (A.J.) e Meadow. Chiari i riferimenti alla lunga filmografia sul tema (i lavori di Scorsese ed ovviamente i tre capitoli della saga de Il Padrino di Coppola), ma in questo caso lo sguardo degli autori è più focalizzato sulle questioni private di Tony (un boss che va in analisi dopo ripetute crisi di panico) attraverso un approccio disincantato, a rimuovere ogni presunta virtù connessa alle attività illecite dei cartelli mafiosi. Qui non esistono business disonorevoli, non ci sono vecchi saggi, il codice d'onore è carta straccia. Il profitto e il potere rappresentano tutto. 
La maggior parte dei protagonisti non brilla per intelligenza, è culturalmente sotto la media, usa la violenza senza ripensamenti ed è unicamente guidato dall'avidità, dall'arroganza e dal doppiogiochismo. La cerchia familiare dei protagonisti è costituita da mogli compiacenti che godono dei benefici della loro posizione passando ipocritamente sopra a tradimenti e illeciti e figli viziati che frequentano le migliori scuole infischiandosene delle origini del loro benessere.

Le prime tre stagioni della serie filarono via che fu un piacere, anche grazie a quelli di Canale 5 che, per recuperare il ritardo accumulato sulla programmazione originale, nel volgere di poco più di un anno si portarono quasi in pari con gli USA. Poi improvvisamente (calo di audience? problemi con i diritti?) un nuovo stop di due anni, e finalmente, nel 2004, la ripresa, penalizzata però da una programmazione irriguardosa (collocazione con orari ballerini che oscillavano tra la seconda e terza serata e improvvise modifiche del giorno di programmazione) che mi ha allontanato dal telefilm.

Da un pezzo mi ero messo in testa di recuperare i fili narrativi della vicenda (lasciati con Tony sempre più potente, l'ex boss "zio" Junior a processo, l'irritante sorella Janice a fare da mina vagante, la figlia Meadow in procinto di iscriversi al college, la tormentata moglie Carmela sempre in cerca di redenzione e il nipote Christopher Multisanti insoddisfatto della sua posizione nella Famiglia) ma le stagioni 4 e 5, acquistate in dvd non meno di sei,sette anni fa, continuavano a prendere polvere sullo scaffale fissandomi con aria severa ogni qual volta mi ci appropinquavo finendo però per scegliere qualcos'altro. Alla fine,ironia della sorte, il momento di rimettere la serie nel lettore dvd è giunto proprio a ridosso dell'improvvisa dipartita di James Gandolfini, grande attore e indiscusso mattatore del progetto Sopranos.

La premessa mi è venuta più lunga della recensione in se stessa, ma leggendola spero converrete con me che, nello spirito personalistico del blog, non potevo proprio risparmiarvela. Dunque, la quarta stagione dei Soprano ci consegna un Tony all'apice della carriera di malavitoso che si trova a dover gestire le grane dei rapporti con alcuni suoi luogotenenti, validi ma umanamente abietti come Ralph Cifaretto (interpretato da un eccellente Joe Pantoliano), ma anche  fedelissimi come Silvio Dante (Little Steven) o Paulie che nutrono, per ragioni diverse,rancore nei suoi riguardi. Grosse preoccupazioni gli arrivano anche dal nipote Chris Multisanti, che scala le posizioni di vertice dell'organizzazione e contestualmente scivola sempre più nella spirale dell'eroina, non accorgendosi che la sua fidanzata Adriana è stata agganciata dall'FBI. Per quanto riguarda i legami familiari, la trascurata Carmela è segretamente innamorata di Furio, il picciotto che Tony si è portato da Napoli a seguito del suo viaggio di affari (narrato nella seconda stagione) e che la ricambia anch'egli platonicamente. I rapporti con la psicanalisi e con la dottoressa Melfi cominciano a mostrare le prime crepe, causate da qualche incomprensione e da un'insorgente insofferenza che porterà Tony a lasciare le sedute.

Gli sceneggiatori concedono invece poco spazio ad un evento come il processo a carico di zio Junior, che in un serial "normale" sarebbe stato posizionato sicuramente in primo piano, catalizzando viceversa l'attenzione  dello spettatore su fatti apparentemente minori e irrilevanti, ma che alla fine hanno conseguenze determinanti. Il rapporto tra Tony e Ralph Cifaretto ad esempio, viene gestito magistralmente. Il riscossore non viene infatti eliminato quando offende pesantemente la moglie di un affiliato importante, perchè manca di rispetto Paulie o quando uccide di botte una spogliarellista del Bada Bing, ma a causa del suo probabile coinvolgimento nel rogo di una scuderia di cavalli che ha portato alla morte di una puledra alla quale Tony era affezionatissimo, e l'assassinio è contestualizzato in un momento in cui l'umanità di Cifaretto sembrava finalmente emergere a seguito di un grave incidente che ha coinvolto il figlio.


Si conferma una caratteristica degli screenplay de I Soprano: la violenza irrompe sempre all'improvviso, spesso nelle situazioni più inaspettate e sovente non ha a che fare con i classici regolamenti di conti ma con questioni personali che deflagrano fino alle estreme conseguenze.

James Gandolfini riempie con la sua presenza ogni inquadratura nella quale è presente. La sua mole riesce a conferire autorità ed incutere timore con la stessa facilità con la quale, in situazioni diverse, appare impacciata e fuori posto. Le emozioni alle quali è chiamato a dare forma attraversano il suo viso che mostra rabbia, incredulità, commozione, felicità o sarcasmo spesso nel breve volgere di due/tre inquadrature (si veda ad esempio la bellissima scena del colloquio con Meadow per convincerla  a rinunciare all'anno sabbatico). I suoi scoppi d'ira trasformano questa fisicità, apparentemente dimessa, in una micidiale macchina da offesa, sia che Anthony si scagli contro l'avversario, sia che si avvicini a lui serrando gli occhi e sventolandogli l'indice davanti al viso per minacciarlo. I suoi improbabili capi d'abbigliamento casual e la bulimia che lo porta a trangugiare compulsivamente qualunque alimento, dai prelibati manicaretti della moglie o dell'amico ristoratore Artie al peggiore junk food in circolazione, sono diventati un classico nel classico del serial.
Al suo fianco sarebbe delittuoso trascurare l'altrettanto brava Edie Falco nei panni della moglie Carmela che ben si cala nel ruolo de "la moglie del mafioso", con tutte le ipocrisie ed i turbamenti del caso. Il finale di stagione è tutto per lei.


Mentre mi appresto alla visione della quinta stagione, non avendolo fatto il 19 giugno, rivolgo un ultimo saluto a Gandolfini, morto a Roma all'età di 51. 
Bella lì e fanculo anche a te, James.




lunedì 8 luglio 2013

Wayne Hancock, Ride





"Wayne Hancock has more Hank Sr. in him than either I or Hank Williams Jr. He is the real deal." 
Hank III

La copertina, lo ammetto, è un pò banalotta. Può ricordare gli approssimativi dischi di compilation a tema che si trovano nei cestoni dell'autugrill. Ma vi giuro che questo è l'unico difetto di Ride, opera numero nove nella discografia del texano Wayne Hancock, classe 1965, che per il resto ha superato con l'enorme classe che tutti gli riconoscono il doloroso divorzio dalla moglie, inizialmente elaborato con un viaggio in moto attraverso gli States. Ecco spiegata la copertina, il titolo dell'album e la title track piazzata in apertura.
Il rockabilly di Ride ci conduce dunque all'interno di questo eleven tracks e lo fa con un ritmo traditional trascinate ed un refrain irresistibile. Ecco, a proposito della cifra artistica: ero un pò indeciso sull'opportunità di inserire la citazione di Hank III in premessa di questa recensione. Williams terzo ha infatti una adorazione assoluta per Hancock, ma, musicalmente, dopo un inizio nel quale ha preso in prestito più di un suo pezzo (87 Southbound, Thunderstorm and neon signs, Why don't you leave me alone) si è molto allontanato dagli schemi artistici dell'amico e temevo che qualche lettore che non apprezza l'Hank attuale potesse associare gli stili dei due e precludersi, a prescindere,l'ascolto di Wayne.
Il che, posta la passione non solo per il country, ma per tutta la musica tradizionale americana ante-fifties, sarebbe un vero delitto. Già, perchè con questo lavoro Hancock torna a maramaldeggiare alla grande con tutti i generi popolari a cavallo di quel periodo storico. Detto del rock and roll che apre il lavoro infatti, strada facendo troviamo due magnifici pezzi honky tonk nati già classici al punto da generare incredulità sul fatto che siano inediti e non cover. Si tratta di Low down blues e della magnifica Best to be alone, entrambe magicamente interpretate nell'inconfondibile stile di Williams sr.
E' incredibile che un sound così pieno e corposo come quello di Wayne possa essere realizzato senza l'ausilio della batteria. La band che coadiuva l'artista è infatti esclusivamente composta da strumenti a corda: due chitarre, una slide e un contrabbasso. Particolarità questa che non toglie un grammo al ritmo e all'attitudine del disco e non sminuisce l'impatto della band, versatile al punto di condire di improvvisazioni jazzistiche e assoli pezzi che nascono sotto latitudini differenti. Il segnale con il quale Hancock invita il suo chitarrista all'assolo ("Johnny...") risulta in effetti una delle consuetudini più piacevoli del lavoro.
C'è inoltre da sottolineare come,oltre agli strumenti citati, i pezzi più orientati allo swing-jazz sono impreziositi anche da una tromba fantasticamente retrò: è il caso dell'imperdibile, languido Fair weather blues, di Gal from Kitchen's field, delizioso tributo a Louis Armstrong, e dell'entusiasmante rock and roll/swing di Cappuccino boogie.
 
In sintesi, con Ride abbiamo tra le mani un'opera raffinata e affascinante che segna il ritorno di un artista incredibilmente (ma forse nemmeno tanto, visto il livello dei countryman di successo in USA) ai margini del grande successo, ma in grado di confermarsi, nel caso qualcuno nutrisse dei dubbi, come uno dei più credibili, onesti ed empatici traghettatori della tradizione musicale americana. Coltivo la speranza spasmodica di riuscire a vederlo in concerto, prima o poi.

8/10



sabato 6 luglio 2013

Chronicles 22

Non che abbia mai avuto un carattere particolarmente aperto alle relazioni interpersonali, ma in effetti mi sto accorgendo che il mio lato da "orso" sta definitivamente prendendo il sopravvento su quello più socievole. Nelle rarissime occasioni nelle quali mi trovo in assenza della mia famiglia infatti, tendo a declinare gli inviti ad uscire e mi dedico completamente a me stesso, in genere immergendomi nella musica, nei film o nelle serie tv, nella lettura. Ci rifletto sopra e la cosa non mi esalta. Ma d'altro canto riconduco il tutto al rapporto controverso che ho con la solitudine, che per certi versi mi terrorizza e per altri anelo.

venerdì 5 luglio 2013

80 minuti del meglio del 2013 (prima parte, gennaio/giugno)

Invece della consueta monografia, 80 minuti è dedicato stavolta ad una playlist di estratti dal meglio (a mio insindacabile giudizio) di questi primi, ottimi sei mesi del 2013. Ho dovuto rinunciare a qualche brano ma alla fine i dischi più importanti di questo semestre mi sembra di averli citati tutti. Ci si rivede a fine anno per la seconda parte.


1) Bachi da pietra, Brutti versi
2) Big Country, Last ship sails
3) Daft Punk, Instant Crush
4) Volbeat, Lola Montez
5) Ben Harper, You found another lover
6) Old Man Markley, Fastbreak
7) Skid Row, Let's go
8) Saxon, Stand up and fight
9) David Bowie, Where are we now
10) Big Time Rush, 24 / seven
11) Black Sabbath, Live forever
12) Depeche Mode, Slow
13) Dropkick Murphys, Burn
14) The National, Sea of love
15) W.E.T., Learn to live again
16) Newsted, Soldierhead
17) Krokus, Go baby go
18) Nick Cave, Wild lovely eyes
19) Mavericks, As long there's lovin tonight
20) Wayne Hancock, Cappuccino boogie
21) Steve Earle, Remember me

mercoledì 3 luglio 2013

Breaking Bad, Season 5 - part 1



 
Avevamo lasciato Walter White al culmine della sua trasformazione da tranquillo professore di chimica a spietato criminale. La pirotecnica eliminazione di Fring però, se da un lato gli ha salvato la vita, dall'altro ha inceppato l'oliatissima macchina d'affari di Gus, stravolgendo gli equilibri del traffico di metanfetamine nell'area di Albuquerque. La rete del manager di Pollo's Hermano infatti, dal reperimento delle materie prime, alla produzione della droga in laboratori avanzatissimi, fino distribuzione del prodotto agli angoli delle strade, era praticamente invulnerabile. Per White, che ormai ha assunto totalmente il physique du ròle del malavitoso, il problema non è da poco: se vuole guadagnare con le meths, deve cominciare da capo occupandosi anche di parti del business che prima non lo riguardavano. Per fare questo è obbligato a chiedere la collaborazione di Mike, uomo di fiducia del precedente boss, verso il quale nutre diffidenza. In più la DEA, guidata dal cognato Hank, ormai quasi del tutto ristabilito, sta stringendo il cerchio attorno alle persone dell'organizzazione di Gustavo e per finire in bellezza, a casa il rapporto con Sky è definitivamente lacerato, al punto da portare la moglie a confessare di sperare unicamente che gli torni il tumore a portarselo via.
 
L'ultima stagione di Breaking Bad è stata divisa in due parti da otto episodi ciascuna, trasmessi rispettivamente nell'estate del 2012 e a partire da agosto del 2013. Sono in molti a pensare (ed io tra loro) che l'amaro epilogo della quarta stagione fosse un finale perfetto per il serial, ma fin dal prologo della quinta (un flashback collocato un anno dopo gli eventi narrati in tempo reale) ogni dubbio sull'opportunità di continuare viene dissolto e sostituito dall'ansia di capire gli accadimenti che porteranno Walter nella drammatica situazione brevemente mostrata all'inizio della 5x1.
 
Sul piano della sceneggiatura da registrare il solito egregio lavoro da parte degli showrunners, capaci di trasmettere una tensione costante con alcuni considerevoli colpi da maestro (uno su tutti Dead Freight, la puntata 5x5). Le prove attoriali sono come di consueto all'altezza, con Bryan Cranston (Walt) sugli scudi, seguito ad un'incollatura da Anna Gunn (Skyler) e dal serafico Jonathan Banks (Mike). Ho molto apprezzato anche la new entry di Laura Fraser, nei panni della scaltra Lydia Rodarte Quayle, manager dell'industria farmaceutica collusa prima con Fring ed ora, suo malgrado, coinvolta nel nuovo "cartello".
 
La prima parte della stagione si è chiusa con un cliffhanger che per quanto si preannunci devastante ai fini dell'impatto sulle sorti dei personaggi, risulta, nella sostanza e non nel suo svolgimento, prevedibile, una volta venuti a conoscenza della decisione di concludere definitivamente la saga.
 
Agosto è vicino...

martedì 2 luglio 2013

Newsted, Metal

 

Doppia review musicale questa settimana. La ragione è ovviamente legata alla particolarità dei due dischi trattati (brevi EP), che considero, insieme, nell'ambito di un ipotetico 2x1 delle recensioni.  

 
Jason Newsted avrà tanti difetti, ma non è certo uno che si siede sugli allori o che resta troppo a lungo fermo in un posto. Ha suonato con artisti (Ozzy Osbourne) e band (Voivod; Flotsam and Jetsam) seminali del metal , anche se, naturalmente, quasi tutti colleghiamo il suo nome al periodo commercialmente (non artisticamente) più fortunato dei Metallica. Chiamato a sostituire Cliff Burton, proprio dopo che la band aveva rilasciato quelle che ancora oggi sono considerate pietre miliari di tutto il movimento del rock pesante (Kill 'em all; Ride the lightning e Master of puppets), Jason restò con la band dall'ambizioso ...And justice for all fino al deludente Reload, lasciandola sull'orlo dello split per crollo nervoso, per dedicarsi unicamente a quello che all'epoca era il suo side-project con gli Echobrain. 
Era il 2001. Da allora Newsted, faccia perennemente incazzata  e sguardo irrequieto, ha accantonato anche quel progetto per prestare le sue quattro corde ad alcuni degli artisti citati in premessa ed a diversi altri, sempre in ambito metallico.
Oggi il bassista s'imbarca in una nuova avventura come leader di un power trio al quale affibbia il proprio cognome in luogo della ragione sociale e nel quale, oltre all'apporto del suo strumento, Jason svolge anche la funzione di lead singer. La prima release dei Newsted è un EP di quattro pezzi, rilasciato a gennaio, e dal pragmatico titolo di Metal.
Sul lettore parte Soldierhead ed ecco che ci si sente come scolaretti che aprono il primo capitolo del libro di testo alla voce headbangin'.  Grande attitudine e convinzione nei propri mezzi al punto che anche un (per certi versi) banale break di basso può risultare entusiasmante. Non mancano ovviamente i richiami ai Metallica, ancora più evidenti nella traccia tre King of the underdogs, ma insomma, vista la storia di Jason, non c'è da gridare troppo allo scandalo. E anzi, in considerazione dell'attuale stato di salute dei four horsemen, risulta molto più ispirata la forma derivativa del loro ex-componente rispetto alle ultime prove dei Tallica.
L'EP ha anticipato l'uscita del primo album della band, la cui uscita è prevista per agosto con il titolo (all'anima della fantasia!) Heavy metal music.
 
7/10

lunedì 1 luglio 2013

Skid Row, United World Rebellion, chapter one (EP, 1/3)

Gli Skid Row sono probabilmente da considerarsi un fenomeno minore, una cometa nel vasto firmamento dell'heavy metal che conta. Eppure, tra la fine degli anni ottanta con l'esordio self-titled, e l'inizio dei novanta, con l'ottimo Slave to the grind, molte delle speranze per il futuro del rock duro poggiavano proprio sulle spalle di questi giovani del New Jersey, il cui sound affondava saldamente le radici nella musica dei padri fondatori della nwobhm, strizzando l'occhio al cosiddetto glam-metal, ma senza eccedere troppo in lustrini, spandex e lacca per capelli. I riflettori erano tutti puntati sul leader della band, quel Sebastian Bach che riusciva a coniugare capacità vocali e physique du ròle, attirando agli show sia true metallers che ragazzine urlanti. La stagione dei successi finì presto, e la band, pur continuando ad incidere, diventò marginale, spazzata via dal fenomeno grunge. Licenziato Bach nel 1996, gli Skid Row incisero solo due dischi negli anni zero, l'ultimo dei quali sette anni fa. 
E' con i soli bassista e chitarrista originari e l'attempato Johnny Solinger alla voce, che il combo si ripresenta oggi, tastando il terreno attraverso United World Rebellion, EP di cinque pezzi annunciato come chapter one, ma senza precise indicazioni sull'eventuale seguito.
Il disco è vibrante e convincente, lo dico subito. Pur nella brevità dei suoi diciotto minuti, è costruito secondo le dinamiche classiche degli ellepì metal di una volta. Per cui apertura con due pezzi al fulmicotone dai ritornelli assassini (Kings of demolition e Let's go), nei quali si fanno apprezzare furore e ricerca della melodia, subito seguiti da This is killing me, il classico lento ad orologeria, dal pattern strasentito ma non per questo meno efficace. Poi via che si riprende a pestare con un'ancora ottima Get up e la conclusiva Stiches, a mio avviso la traccia più debole del lotto. 
Staremo a vedere se sarà mai pubblicato un capitolo due e se sarà all'altezza, ma intanto c'è di che essere felici.

7/10