L'ex sicario Sergio, ritiratosi a Malta dove gestisce un locale, viene contattato dall'amico d'infanzia Francesco e da sua sorella, che vogliono ingaggiarlo per vendicarsi della banda dei fratelli Ventura.
Disponibile per il noleggio su Prime Video.
'Cause getting old ain't for pussies
L'ex sicario Sergio, ritiratosi a Malta dove gestisce un locale, viene contattato dall'amico d'infanzia Francesco e da sua sorella, che vogliono ingaggiarlo per vendicarsi della banda dei fratelli Ventura.
Disponibile per il noleggio su Prime Video.
Così come non tutti i dischi di cover sono uguali, nemmeno tutti i dischi di cover figli del lockdown lo sono. Infatti, l'altra faccia della manciata di artisti o band che durante la clausura imposta dal covid hanno rilasciato album derivanti da registrazioni casalinghe improntati alla "buona la prima" è rappresentata dagli immarcescibili Deep Purple (siamo alla MK VIII) che non avevano certo bisogno di ulteriori esempi della loro classe senza tempo, ma insomma, ci hanno tenuto a ricordarcela.
Alla fine il pezzo più "normale" è anche il più famoso (White room dei Cream), mentre la conclusiva Caught in the act è una festosa sarabanda (quasi completamente) strumentale, che mette, in medley, Booker T and the MGs, Allman Brothers, Led Zeppelin e Spencer Davis Group.
Non il disco dell'anno (passato), ma che goduria!
Arrivati al ventesimo album e dopo un flirt interminabile, i Gov't Mule celebrano la loro unione con il blues. La musica del diavolo infatti aveva sempre innervato muscoli e ossa della band, ma non aveva mai avuto l'onore esclusivo dei riflettori, spartendosi la scena con il soul, il rhythm and blues, il folk, il southern e il rock, da sempre cibo dell'anima degli onnivori sudisti.
Che ti piaccia o meno il blues, fossi in te un giro tra queste note me lo farei.
I Gov't Mule saranno quest'estate in Italia.
LETTURE
Jacopo De Michelis, La stazione
In un'Italia devastata da guerre e successivi intossicamenti di acque e terreni, un ragazzo e suo padre vivono in una sorta di casa/palafitta in una laguna inaccessibile, attraverso un sistema di chiuse, al mondo esterno. Unici "vicini", raggiungibili via barca, Aringo, un vecchio rancoroso, aggressivo e violento e Strega, una donna cieca che ha buoni rapporti con padre e figlio. Il figlio, che vive senza sapere nulla della precedente era "civilizzata", a seguito di un avvenimento dovrà abbandonare quel mondo povero e ingeneroso, ma protetto, per avventurarsi nell'ostile territorio oltre le chiuse della laguna.
Forse, ma aspettiamo le necessarie conferme, dopo tante preghiere non esaudite, il cuore del cinema italiano di genere sta ricominciando a battere. Il 2021 in questo senso è stato un anno particolarmente pregno di segnali. Oltre al tentativo di blockbuster Freaks out, sono usciti un altro eccellente post apocalittico, Mondocane, un noir indipendente di sorprendente fattura, Cattivo sangue (mi piacerebbe recensire entrambi, ma, insomma, si vedrà, intanto segnateveli e magari recuperateli), un ottimo Diabolik, ed ad altri progetti magari meno riusciti (Calibro 9, Bastardi a mano armata, Il mostro della cripta, etc.) ma estremamente lodevoli negli intenti.
Tratto dall'omonima graphic novel di Gipi, La terra dei figli si avvale di una regia (Claudio Cupellini) dosata ed estremamente coerente con il mood distopico della storia che, a sua volta, si intreccia con location rugginose, meravigliosamente desolate (il film è stato girato tra il delta del Po, nel ferrarese, nel Polesine e nella laguna di Chioggia) nel quale lo specchio d'acqua riflette l'immobilismo di un mondo distrutto (si intuisce) dalla bestialità umana che, non ancora paga, invece di capire dai propri errori, amplifica ancora di più la propria crudeltà, stavolta giustificata da un disperato spirito di sopravvivenza.
Detto di regia, esterni e fotografia, l'altra arma vincente del film è la prova di tutti gli attori. Laddove infatti, il grosso scoglio di produzioni italiane coraggiose è troppo spesso l'amatorialità delle interpretazioni, qui tutti i protagonisti sono resi in modo credibile e convincente, a partire dal figlio, interpretato mostruosamente bene dall'esordiente classe 2001 Leon de la Valèe (già rapper con il nome di Leon Faun) passando al padre (Paolo Pierobon), Aringo (Fabrizio Ferracane, visto di recente in Ariaferma e Il traditore), Maria (Maria Roveran), il capo (Alessandro Tedeschi), per finire con una delle migliori recenti prove attoriali, non a caso fuori dalle sue normali comfort zone, di Valerio Mastandrea (il boia). Nel cast anche Valeria Golino (la strega). Il più grande rimpianto è non averlo visto al cinema.
Anche se deontologicamente sbagliato, lo inserisco "postumo" nella lista dei miei migliori film del 2021.
Disponibile su Sky e Prime video.
Un serial killer di ragazzine miete come sua ultima vittima la moglie di un agente dei servizi segreti, figlia di un ex commissario di polizia. I due uniscono le forze per individuare il colpevole. In particolare il vedovo, trasfigurato dalla perdita, una volta trovato l'assassino, mette in atto una forma di vendetta terrificante e violentissima, incurante dei danni collaterali che provocherà.
In premessa alla parte critica della recensione voglio segnalare il lavoro della Far East Film, che, oltre a tenere annualmente a Udine la più importante manifestazione cinematografica di film asiatici, da tempo ha anche attivato un sito (Fareastream) dove è possibile scegliere tra un buon numero di film asiatici, vecchi e nuovi, da vedere in streaming. Io mi abbono "random" ma seguo gli aggiornamenti dei titoli, ed è così che ho scoperto dell'inserimento di questo film, scandalosamente inedito in Italia, che era da tempo sulla mia wish list.
Kim Ji-woon, regista sudcoreano formidabile e poliedrico, capace di girare, tra gli altri, gangster movie (l'epocale Bittersweet life) horror (Two sisters), commedie western ( Il buono, il matto, il cattivo) e fantascienza distopica ( Ilang - Uomini e lupi), con I saw the devil firma un thriller a tinte gore, oscuro, disperato e pervaso dalla violenza, dove la dicotomia tra bene e male, già normalmente sfumata nella grammatica cinematografica orientale, sparisce del tutto. Per mettere in scena questo dramma criminale Ji-woon si affida al meglio che la recitazione del suo Paese possa offrire: per l'agente dei servizi segreti Lee Byung-hun, dolente protagonista di Bittersweet life e per il serial killer Choi Min-sik, indimenticabile nel ruolo principale in Oldboy. Oltre a questo formidabile duo, il plus del film è, ovviamente, la mano dietro la mdp di Kim Ji-woon, che regala più di una sequenza nella quale la tecnica superiore non è fine a sè stessa, ma contribuisce ad alimentare, a seconda dei casi, tensione, pathos, angoscia o empatia con i personaggi.
Non mi stancherò mai di ripetere quanto il cinema asiatico stia dando al cinema di genere, e in particolare al noir/crime/thriller/horror, portando i classici americani, francesi, italiani, di cui si è alimentato, ad un livello superiore. Non c'è proprio partita, e dover constatare che un film come I saw the devil (per me tra i migliori thriller dei duemila), a dodici anni dalla sua uscita, non abbia ancora trovato qualcuno che lo distribuisca in Italia mette un'enorme tristezza, oltre a far riflettere sulle scelte strategiche dei nostri distributori (viste le schifezze che invece girano).
Se non si fosse capito, straconsigliato.
Disponibile su fareastream.it.
Come gli AC/DC, ma senza l'isteria mass-mediatica, come i Motorhead, ma molto meno cool, i Saxon fanno da trent'anni lo stesso disco. Trenta e non quaranta, nonostante la band sia attiva discograficamente dal 1979, perchè escludo il primo lustro degli ottanta, quello della massima espressione, e il secondo, quello in fin dei conti non così tremendo, della fase hair/glam/aor. E' dunque con Forever free del 1992 (vedi che i conti tornano?) si sono messi sulle spalle il ruolo di defenders of the faith e non hanno più sgarrato, muovendosi dall'heavy metal classico al massimo per sconfinare con qualche brano nell'epic/power. Tredici dischi in trent'anni dicono un disco ogni due anni, al massimo tre. Qui dal precedente Thunderbolt ne sono passati quattro, ma in mezzo sono stati rilasciati, rispettivamente, il primo disco solista di Byford e un album di cover (entrambi prescindibili, per chi scrive).
La premessa mi serve per dire che nessuno si aspetta svolte particolari nel sound dei Saxon, ci si accontenta della potenza di fuoco e che il songwriting sia in buona condizione d'ispirazione. E in questo Carpe diem, a partire dall'epica copertina con due legionari romani sul Vallo di Adriano, è un disco riuscito. La produzione è coerente con il mood, i suoni sono potenti, la voce di Biff sempre solida e affidabile. L'attacco con la title track dal "solito" ritornello killer made in Saxon, la successiva Age of steam, con un interessante testo sull'avvento della rivoluzione industriale, e via via l'ottimo mid-tempo The pilgrimage, Remember the fallen, Lady in grey, ci consegnano una band sul pezzo e un leader che, tra gli inevitabili acciacchi dell'età (sono settantuno, eh), gliela ammolla ancora come un ragazzino.
Keep the faith.
Altrettanto centrale nella narrazione è lo scenario storico, con l'America sotto shock per i delitti della famiglia Manson che metteva una pietra tombale sulla stagione dell'amore che aveva contraddistinto la seconda metà dei sessanta. Da lì a breve, con l'avvento dei settanta, sarebbe iniziata una conflittuale stagione di lotte e ribellione incarnata con incredibile preveggenza, rabbia e nichilismo dalla band.
Va da sè che Iggy è un personaggio che da solo potrebbe reggere anche ore di intervista senza annoiare, ma la bravura di Jarmush è quella di creare un patchwork che fluisce dinamicamente tra interviste vecchie e nuove, immagini di repertorio e altri inserti (vecchi film, cartoon, spezzoni di televisione), per un risultato finale oltre che godibilissimo, imprescindibile per chi voglia approfondire la storia e il peso storico di un frontman come Iggy Pop e di una band come gli Stooges.
Questa non è una recensione, piuttosto una semplice riflessione comune a due film molto diversi tra loro, sorprendentemente accumunati da una filosofia che si pensava appartenere al passato . Il primo, Red Sparrow (2018), decorosa pellicola di spionaggio con doppi e tripli giochi tipici del genere, l'altro, A proposito dei Ricardo (2021), buon film che celebra, con una modalità tipicamente americana, un episodio nella vita televisiva degli anni cinquanta degli attori di una serie epocale, I love Lucy. Qual è l'elemento in comune? Beh un ritorno, in un caso molto evidente e irritante, nell'altro più sfumato, alla classica divisione tra impero del bene (USA) e del male (Russia/URSS) attraverso un'ottica propagandistica cui non mi capitava da tempo di assistere.
La dicotomia è sbattuta in faccia senza vergogna in Red Sparrow, storia ambientata ai tempi nostri, dove tutti gli agenti segreti di oltre cortina sono abietti, crudeli e senza scrupoli mentre la controparte ammerigana altruista e nobile d'animo. Vale a dire zero sfumature e assenza di zone d'ombra che accompagnano le produzioni più verosimili sul tema.
A proposito dei Ricardo, ambientato nei cinquanta, nel periodo della caccia alle streghe maccartista, nel quale bastava una parola fuori posto per decretare la fine di un artista, è il classico film divertente di Sorkin: dialoghi scoppiettanti e dinamicità verbale, ma che, con una semplice battuta verso la conclusione del film, messa in bocca al co-protagonista di origini cubane (Desi/Javier Bardem), arriva in sostanza a giustificare la terrificante macchina di distruzione umana del senatore McCartney, perchè gli avversari comunisti, protagonisti della rivoluzione cubana, erano sostanzialmente una manica di selvaggi, assassini senza scrupoli che hanno privato la popolazione dell'isola del proprio benessere. Pertanto, andava bloccata sul nascere e con qualunque mezzo la loro "avanzata" sul suolo americano. Il capitalismo non poteva essere messo in discussione.
A questa doppietta di film potrei aggiungerne un terzo, l'atroce The King's Man - Le origini (co-produzione USA/UK), terzo capitolo-prequel della saga, che, a differenza degli altri due, è anche un film di rara bruttezza la cui "trama", sviluppata in un vomitevole tripudio di computer grafica, ipotizza (certo, in chiave semi seria) complotti e alleanze fantasiose tra Lenin e un'organizzazione segreta prima e con addirittura un giovane Hitler poi, senza farsi mancare, anche qui, messaggi molto poco subliminali atti a dipingere i sovrani russi come governanti buoni e generosi, vittime innocenti dei terribili bolscevichi.
Ho atteso un pò più della prassi, ma prima di stilare la lista delle mie pellicole preferite del 2021 volevo recuperare una manciata di titoli a cui tenevo particolarmente. Ora che l'operazione, tra sala, supporto fisso, Sky e varie piattaforme, è quasi riuscita (non sono proprio stato in grado di vedere One second) vado a proporre quello che mi ha più emozionato e coinvolto nell'anno da poco salutato. Alcuni film li ho recensiti nel corso del tempo (la recensione è recuperabile attraverso il link del titolo), altri no, ragion per cui in questo caso mi sono concesso una riga di commento. Tutti i titoli sono in ex aequo.
Qui la prima parte della recensione
Il terzo CD del tributo ai Metallica si apre con quattro versioni di una delle tracce più iconiche del Black album: Wherever I may roam. Purtoppo, lo affermo subito, le interpretazioni offerte dal rapper colombiano J Balvin, dal duo inglese di musica elettronica Chase & Status, dai The Neptunes (Pharrell Williams e Chad Ugo) e dal giovane countryman Jon Pardi non vanno oltre il livello di proposta gradevole, ma del tutto innocua.
Dopo la mattanza rappresentata da più di un'ora di versioni di Nothing else matters (ormai solo a scriverne il titolo sono colto da malore) quello che viene dopo è una boccata di aria fresca e rigenerante. Anche perchè siamo arrivati alla coda del disco, con le canzoni meno celebrate, e probabilmente meno commerciali del Black album. A dimostrazione di questo status, è solo una, ma molto riuscita, la cover di Of wolf and man, presentata dai folkers Goodnight, Texas. Per The god that failed, uno dei miei brani preferiti del disco originale, sono proposte due versioni, suonate dagli Idles e da Imelda May. Anche qui, in entrambi i casi obiettivo centrato, in particolare per i post-tutto inglesi, che si appropriano con arroganza della canzone, modellandola in modo da indossarla perfettamente. Arrivati a My friend of misery (tre versioni) esplode incontenibile tutto il mio entusiasmo, grazie all'interpretazione del sassofonista Kamasi Washington che ci porta in una prima parte del pezzo su terreni jazzy per poi esplodere, nel bridge, in un caotico, affascinante free che ti fa dimenticare tutte le Nothing else matters del mondo. Brividi. Chiudono Rodrigo y Gabriela che fanno, prendere o lasciare, i Rodrigo y Gabriela su The struggle within.
Best tracks:
Beth, durante un viaggio di lavoro ad Hong Kong contrae una nuova forma di virus. Il giorno dopo essere tornata a casa dalla sua famiglia si sente male e viene ricoverata d'urgenza. Da lì a poco le persone con cui è entrata in contatto (ad eccezione del marito) si ammalano a loro volta, mentre anche in altri Paesi si verificano casi analoghi. Le autorità scientifiche e quelle militari intuiscono di trovarsi di fronte all'inizio di una pandemia e cercano disperatamente di individuare una soluzione, mentre, tra la gente comune, anche a causa delle informazioni distorte che viaggiano sul web, cresce la diffidenza verso l'establishment e le fonti ufficiali.
Contagion è probabilmente il film che ha avuto la maggiore rivalutazione postuma in tutta la storia del cinema. In effetti, una decina d'anni prima dell'avvento del famigerato covid-19, Steven Soderbergh, su soggetto e sceneggiatura di Scott Z. Burns, ha messo in scena un'opera che ha predetto una fase futura di vita vera con inquietante precisione. La realizzazione del film ha probabilmente dietro un lavoro importante di studio sulle procedure d'ingaggio di una pandemia, perchè i comportamenti, le terminologie, i tentativi e le soluzioni trovate assomigliano tremendamente a ciò che ci è recentemente capitato, e che ancora condiziona la nostra vita. Attraverso l'utilizzo di un cast sontuoso, per assortimento e qualità, assistiamo ad una serie di storylines (che a volte si intrecciano) nelle quali i personaggi affrontano, ognuno assecondando la propria natura e le proprie possibilità, questa catastrofe umanitaria, a partire da Beth/Gwyneth Paltrow, il "paziente zero", moglie occasionalmente fedifraga di Mitch/Matt Damon che contrae il virus durante un viaggio di lavoro a Hong Kong e lo veicola negli States, l'eroica dottoressa Mears/Kate Winslet e il blogger subdolo e approfittatore, divulgatore di fake news, Alan/Jude Law. L'idealista dottoressa Orantes/Marion Cotillard e la scienziata Hextall/Jennifer Ehle, il capo del dipartimento delle scienze Cheever/Lawrence Fishburne e il responsabile della sicurezza nazionale Haggerty/Bryan Cranston. Il film si apre con il counter dei giorni, che segna la progressione della pandemia, partendo dal giorno due. Geniale l'ultima sequenza del film che mostra gli accadimenti che fanno da prologo alla storia contrassegnandoli con giorno uno.
Dentro un tipo di narrazione assolutamente corale e su un soggetto di finzione, Soderbergh realizza un'opera che oggi fa tremare i polsi per il suo realismo. La sovrapposizione tra lavoro di fantasia e fatti reali sicuramente condiziona il giudizio puramente artistico del film, che tuttavia, anche facendo uno sforzo di affrancamento dalla realtà, risulta coinvolgente e ben realizzato.
Disponibile su Prime Video
Un pò megalomani, dopo il raggiungimento del successo planetario, i Metallica lo sono sempre stati. Basti pensare a come decisero di pubblicare l'attesissimo disco live celebrativo, a valle dell'incontenibile entusiasmo scaturito dalla pubblicazione del Black Album (1991) e del relativo, lunghissimo, tour mondiale, quando optarono più che per un cofanetto, per un vero e proprio baule, contenente tre cd o cassette e tre VHS, oltre a memorabilia varia, per un prezzo non esattamente alla portata di tutti. Oggi, nell'ambito delle celebrazioni dei trent'anni di un disco (sempre il Black album) contestato dai vecchi fan, ma che, dato di fatto, ha sdoganato il metal estremo al grande pubblico, i Tallica "se la cavano" con un monumentale tribute album composto da quattro CD, che ospita cinquantatre versioni, per altrettanti artisti, delle dodici tracce originariamente previste sul disco del 1991. Non è la primissima volta che si realizza un tributo non genericamente dedicato alla produzione di una band/artista ma ad una sua opera singola (ad esempio ricordo l'omaggio a Nebraska di Springsteen), ma è senza dubbio senza precedenti la portata di questa operazione. Nel ricordare che la metà dei proventi dalla vendita dell'opera sarà devoluta in beneficienza, concludo andando al punto, cioè alla modalità con cui ho deciso di recensire un lavoro così particolare, suddividendo la mia analisi in due parti, iniziando con i primi due CD, contenenti un totale di venticinque versioni di Enter Sandman, Sad but true, Holier than thou e The unforgiven.
Enter Sandman, probabilmente il pezzo che ha fatto da grimaldello al successo mainstream del disco e della band, anche grazie all'altissima rotazione del video, era probabilmente il più scivoloso da riprendere. E infatti gli artisti e le band che ci si cimentano non riescono, se non a tratti, a trovare una chiave particolarmente originale per presentarlo. Ne vengono fuori quindi copie pressochè fedeli all'originale per Mac DeMarco, Rina Sawayama e, purtroppo, per i Weezer, da cui viceversa mi aspettavo molto. Nel mezzo si piazza il colombiano Juanes, che propone una versione sincopata del pezzo, e sul podio ci vanno la godibilissima cover pop-metal di Alessia Cara assieme alla band messicana dei The Warning e quella dei Ghost, che però a mio avviso perdono un'occasione, in quanto partono con un mood molto gotico, solo piano e voce, per poi riprendere sostanzialmente il pattern originale. Avessero realizzato l'intero brano come la prima strofa/ritornello, a mio avviso sarebbe stato un centro clamoroso.
Dalla traccia sette alla tredici (sette versioni) troviamo Sad but true. E qui si viaggia subito alla grande con le prime tre interpretazioni proposte da parte di Sam Fender, che regala una suggestiva perla acustica (dal vivo, ma non si sente) alla Roy Orbison; Jason Isbell and the 400 Unit, che propongono un irresistibile southern rock, con tanto di slide e voglia di ubriacarsi di bourbon, e infine la meraviglia dei Mexican Institute of Sound, che, come consuetudine, creano una osmosi tra il brano orginale, la musica tradizione messicana e l'hip hop, per un risultato godereccio e divertentissimo, che ti porta ad alzare il volume di una tacca, poi di un'altra e di un'altra ancora. Chiudono la sezione di reintrepretazioni di Sad but true le versioni feroci ma senza sussulti dei Royal Blood e dei White Reaper, mentre emerge maggiormente la personalità degli interpreti nelle versioni di St. Vincent e dei coreani YB.
Aprono la tracklist del secondo CD, e le cinque interpretazioni di Holier than thou, gli scozzesi Biffy Clyro, band alternative rock che del brano fornisce una versione sicuramente personale ma che mi sembra resti un pò a metà del guado. Magari sarà apprezzata dai loro fan. Molto buone, dritto per dritto, le botte punk degli australiani The chats e hardcore punk del supergruppo degli Off! che regalano interpretazioni oneste e in linea con la filosofia originaria dei Tallica. Entusiasmante per passione ed energia la prova di Corey Taylor (Slipknot): niente di particolarmente originale ma attitudine a strafottere, con la sezione ritmica che nella seconda parte della canzone asfalta tutto.
E' il turno della prima ballata del disco, The unforgiven, proposta in ben sette versioni. Aprono gli stilosi Cage the Elephant con un'interpretazione che ammicca al pop più elegante. A seguire un duo indiano: Vishal Dadlani e Divine, che alternano cantato in inglese a rap in indiano. Proposta particolare. Molto virata alla melodia la cover del duo americano di indie rock Diet Cig, mentre torniamo al rap metal con venature ragamuffin per Flatbush Zombies & DJ Scratch. Evocativa anche se sull'orlo del baratro del kistch la versione latin pop delle Ha*Ash, mentre il meglio arriva in coda: la scarna, emozionante, suggestiva interpretazione di Moses Sumney sbaraglia decisamente la concorrenza, che, a differenza dell'artista ghanese/americano, su questo brano non offre nessuna reinterpretazione che fa saltare sulla sedia.
Best tracks:
1/2 - continua
Dopo oltre vent'anni di manicomio, Norman Bates viene rimesso in libertà sotto la supervisione dello psicologo che l'ha curato. Norman torna nella sua casa e al suo motel, nel frattempo gestito da un viscido individuo. Per guadagnarsi da vivere lavora in una tavola calda dove conosce Mary, una cameriera dalla vita privata incasinata, cui Norman offre ospitalità. Le stanze della sua vecchia abitazione, e in particolare quella della madre, mettono però a dura prova la stabilità mentale di Norman.
A questo sequel ne è seguito un altro (III) e a Norman Bates è stata dedicata anche una serie tv, Bates Motel, che si è conclusa dopo cinque stagioni (2013/2017).
Visioni seriali
Due asce. Una, Adrian Smith, ha fatto la storia della musica heavy metal, visto che è negli Iron Maiden quasi dall'inizio (Killers, secondo album del 1981). L'altro, Richie Kotzen, pur essendo un nome noto, e nonostante l'ottimo approccio stilistico blues oriented , mai è riuscito ad imporsi al livello del primo, forse per il suo status di "freelance" (dopo una prima cacciata dai Poison, ha alternato progetti solisti alla militanza in altre band, su tutte i Mr Big dei primi duemila e The Winery Dogs). Non mi è chiaro come i due abbiano deciso di collaborare, la certezza è però che, per una volta, due sono i nomi che campeggiano sul disco e, sostanzialmente, due sono i musicisti coinvolti nelle registrazioni di tutti gli strumenti. Infatti, al netto di qualche eccezione (l'altro Maiden Nico McBrain alla batteria su Solar fire e tale Tal Bergman, sempre dietro le pelli, sulle ultime tre tracce), Smith e Kotzen si dividono voce, chitarre, basso e drums in tutti i nove brani di cui si compone il disco.
Restava da capire chi dei due artisti avesse condizionato maggiomente l'altro. Beh, non vi è dubbio alcuno che questo self titled di debutto sia totalmente schierato dalla parte di un hard rock di matrice settantiana, con una forte matrice blues e marcate aperture melodiche: in sostanza la tazza di tè di Richie Kotzen. In ogni caso Smith si cala con entusiasmo in questo mood, mettendo a disposizione il suo indiscusso talento chitarristico e facendosi apprezzare anche come cantante. Tracciate le coordinate stilistiche, e quindi avendo un'idea di cosa ci riserva l'ascolto, si parte e si rimane subito conquistati prima dalle grandi melodie dei due pezzi d'apertura Taking my chances e Running, talmente belli che sembra di conoscerli da sempre, e poi, via via che ci si inoltra nell'ascolto, dai sontuosi duelli chitarristici (Scars, Glory road, You don't know me). I riferimenti sono facili: la mach III dei Deep Purple, Whitesnake, Bad Company, ma anche, verso la coda dell'album, e soprattutto in 'Til tomorrow, qualcosa dei Soundgarden più mainstream.
Nulla da eccepire, proprio un gran bel disco.
In un elegante palazzo di Roma si intrecciano le storie di tre gruppi familiari: il primo composto dagli anziani giudici Vittorio e Dora e dal figlio Andrea, colpevole di omicidio stradale, il secondo dalla neo-mamma Monica, spesso lasciata sola dal marito, e il terzo da Lucio e Sara, che temono che la propria figlia di sette anni sia stata abusata da un anziano vicino di casa al quale erano soliti affidarla.
Aggiungo che l'utilizzo di taluni temi emotivamente intensi quali i rapporti genitori figli, la vecchiaia e i rimpianti che sopraggiungono nell'ultima fase della vita sembra vengano messi in scena come spuntata arma di commozione di massa. Beh, mentre a Cannes il pubblico ha tributato a Tre piani una standing ovation di undici minuti, nel mio caso la leva subdola della facile emotività non ha raggiunto l'obiettivo di superare la sospensione dell'incredulità e nascondere gli enormi difetti tecnici di un film che sembra quasi fatto controvoglia.
In programmazione e on demand su Sky
Premessa autobiografica. Com'è ormai universalmente riconosciuto, la prima metà degli anni ottanta è stata l'epoca più straordinaria e coinvolgente della musica metal. Certo, negli anni successivi è arrivata altra roba eccitante, la velocità di esecuzione dei pezzi si è quintuplicata, il metal è diventato mainstream eccetera eccetera. Però il primo lustro degli eighties ha rappresentato qualcosa di impareggiabile, una scossa (come ciclicamente capitano) della musica popolare, la nascita di un movimento, una cultura ancora oggi fortemente radicati. Il contraltare era che ascoltare (anche) l'heavy metal in quell'epoca, consultare le riviste specializzate che cominciavano a nascere, ed essere al contempo squattrinati era un vero tormento, laddove si leggeva di miriadi di band "grandiose" a cui, con la possibilità di comprare al massimo un disco al mese (non necessariamente di genere HM), e in assenza di "amici di metallo" in grado di rifornirci di cassette registrate, non era possibile avere accesso.
Tra i combo cui avrei voluto dare una chance vanno annoverati gli Agent Steel, autori di due ottimi dischi speed/thrash tra l'85 e l'87 (Skeptics apocalypse e Unstoppable force), poi vittime di una lunga iato seguita da una prima reunion, senza il cantante originale (tre album, tra il 99 e il 2007), quindi ancora un inabissamento, e finalmente, grazie ad un contratto con la piccola ma effervescente etichetta inglese Dissonance Productions, l'ultimo comeback, stavolta per merito di John Cyriis, il cantante brasiliano protagonista dei lavori ottantiani. E anche qui ce ne sarebbe da scrivere sul soggetto, un fanatico di fantascienza ed extraterrestri, al punto da avere, in passato, dichiarato di essere sopravvissuto ad un rapimento alieno.
Per vecchi e nuovi metallari.
Rob vive da eremita in una baracca senza acqua ne elettricità nei boschi dell'Oregon. La sua unica compagnia è un maiale da fiuto che lo aiuta a cercare tartufi poi venduti ad un giovane imprenditore di città. Una notte qualcuno irrompe nella fatiscente casa di Rob, aggredendolo e rubandogli il suino. Rob decide di cercare i ladri e riprendersi il suo amico a quattro zampe.
Insomma, filmone.
In programmazione e on demand su Sky
Ad ogni modo, anche se poco, io mi ci sono anche divertito. Sarà l'età.
Julio Blanco, ultimo proprietario dell'azienda di famiglia che da sempre produce bilance, è un padrone onnipresente nella vita della fabbrica ma anche dei suoi dipendenti, al punto da sconfinare nella loro vita privata offrendosi come mediatore all'insorgere di conflitti personali. Insomma un gentile maniaco del controllo dell'ecosistema della fabbrica. Il tutto più o meno funziona fino a quando si approssima la scadenza per l'assegnazione di un premio statale che aprirebbe la porta ad importanti contributi economici statali e, contemporaneamente, i problemi deflagrano. A quel punto ad emergere sono il lato oscuro e l'assenza di scrupoli di Blanco.
Il capo perfetto non è l'irresistibile commedia evocata da qualche claim pubblicitario, il film viaggia piuttosto dentro un buon equilibrio dolceamaro, tra il grottesco, il dramma e la commedia. Insomma robe in cui noi italiani eravamo maestri e che, purtroppo, non sappiamo più fare. Ovviamente gran parte della riuscita del film va ascritta alla prova di un Javier Bardem totalmente inedito, che si misura in maniera straordinaria in un ruolo che richiede misura e naturalezza. Nel comportamento del boss Blanco/Bardem c'è ben poco di "perfetto" e nel definire i lavoratori della sua fabbrica come la sua famiglia c'è la stessa enorme ipocrisia che capita di vivere quotidianamente in tanti posti di lavoro, così come nell'allupamento verso le giovani stagiste c'è tanto dei vizi della classe imprenditoriale corrente e passata.
Il film ha un buon ritmo, magari qualche forzatura mirata ad accentuare la parte comica (la figura dello scioperante solitario e il suo rapporto con il guardiano della fabbrica), ma nel terzo atto il regista Fernando Leòn de Aranoa (Perfect day, Escobar - Il fascino del male), attraverso la messa in scena delle "soluzioni" individuate da Blanco per risolvere i tanti casini, mette ogni cosa al suo posto, avviando la pellicola ad una conclusione tragica ma carica di amara ironia.