La liason del jazz con la musica cosiddetta leggera è solida, antica e strutturata, non inizia certo negli anni ottanta (che però sì, sono il decennio in cui del connubio si è più tristemente abusato) con Miles Davis che rifaceva Human nature e Time after time. A riprova di ciò le cronache ci riportano nei primi settanta un Miles, che al grande successo di massa ha sempre anelato, segnarsi nell'agenda degli impegni una jam con Jimi Hendrix, purtroppo giusto qualche giorno prima che il più grande chitarrista di tutti i tempi trovasse la morte con una modalità così dannatamente idiota. Il disco jazz con i pezzi di Jimi lo realizzerà poi (1974) il pianista Gil Evans assieme ad un'orchestra di venti elementi (qui una mia breve, indegna recensione). Tralasciando peraltro l'intuizione più spettacolare di tutte ad opera di John Coltrane, che da una banale canzoncina da musical ha tirato fuori uno dei pezzi jazz per cui vale la pena vivere, My favorite things.
I Beatles, appunto. Dopo quella gemma di Blackbird (The art of the Trio, volume 1 - 1997 - ) che, vabè, è solo il mio pezzo dei fab four preferito di sempre, il buon Brad decide di dedicare un intero lavoro alla musica della mitologica band (giudizio che prescinde dal mio gusto personale).
Il disco è registrato dal vivo assemblando una serie di serate a Parigi, e si chiude con un pezzo che dei Beatles non è, ma che, porca miseria, risulta il più bello, malinconico e struggente del lotto: Life on Mars? di David Bowie.