martedì 15 luglio 2025

Joker: Folies à deux (2024)


In conseguenza degli eventi narrati nel primo film, Arthur Fleck è ricoverato in una prigione manicomio, completamente mansueto e gestito con psicofarmaci. La conoscenza di un'altra prigioniera, Harley Quinzel, che lo idolatra dopo aver visto un docufilm a lui dedicato, farà deflagrare in Arthur sentimenti dimenticati, e lo metterà davanti alla prova decisiva della sua esistenza.

Dopo aver letto le sinossi a ridosso dell'uscita nelle sale del film, e i commenti negativi di alcuni tra i miei critici di riferimento, ho ignorato questo seguito del Joker di Todd Philips (dietro la mdp anche del sequel). Eppure alcuni elementi avrebbero dovuto farmi accendere una lampadina d'interesse. A partire dalle dichiarazioni di Phoenix che si era detto disinteressato a girare un seguito, per poi cambiare idea dopo aver letto lo script (d'accordo, a volte le star cambiano idea - Jackman con Wolverine - a suon di argomenti economici). Aveva ragione, il buon Jaquin. Philips ha fatto con Folies à deux la stessa operazione di Lana Wachowski con Matrix Resurrections, sia in termini di atto terroristico contro la fanbase, che di killing joke rivolto agli studios, e, tanto che c'era, ha picchiato più di qualche chiodo sulla bara di uno dei villain più iconici e pop del mondo. Mica poca roba, eh. Sicuramente protagonisti e regista avranno messo in conto (esattamente come la Wachowski) il rigetto di molti spettatori, fan o meno, ma se ne sono freagati, andando dritti per la loro strada. La Warner e la Dc avranno invece sperato che il nome Joker nel titolo bastasse a gonfiare i botteghini ma ahimè, oggi il passaparola (social) ha un peso rilevante, nell'uccidere in culla queste aspettative. 

Joker 2 è un film anarchico, punk, irriverente. Non poteva che essere un flop. Non poteva che farmi innamorare. Tutto ciò nonostante apprezzi il genere musical quanto potrei apprezzare una colonscopia, ma quando un film è così bello e pregno di testi e sottotesti, il genere passa in secondo piano (vedi Emilia Perez). Che poi, musical. Certo, nel film si canta (troppo, per qualcuno), ma gli intermezzi musicali durano mediamente poco, pescano nel repertorio evergreen dei musical, dello swing o dei crooner e non sono quasi mai coreografati (cioè non ci sono scene di ballo di massa). 

La messa in scena, con il prologo cartoonesco in stile Tex Avery, gli intermezzi che riprendono i varietà e i late show americani, i riferimenti poco nascosti al primo film, di cui i protagonisti parlano in termini positivi o negativi, dipingono quest'opera come un percorso di catarsi che compie sì Arthur Fleck, ma che si vorrebbe compisse anche il die hard fan.

E poi c'è la politica. Il rifiuto della leadership assegnata a gran voce da bande di sottosviluppati violente e criminali (a me sovviene qualcuno che invece in America l'ha afferrata e la agita come una colt), ceduta in cambio della riscoperta di un sè stesso fragile e indifeso (la sequenza dell'interrogatorio di Gary Puddles, da questo punto di vista è il momento più rivelatore del film) anche a costo della perdita dell'amore della vita, è un filo narrativo struggente, rivoluzionario e impopolare. Così come lo è questo Joker: Folies à deux, che, l'avessi visto per tempo, sarebbe senza dubbio finito nei miei preferiti dell'anno.

Siccome non siamo nei settanta e nello scenario di libertà creativa introdotta dalla "Nuova Hollywood", atti di coraggio così autolesionistici andrebbero celebrati, ma ahimè, ciò non accade. Speriamo almeno il tempo sia galantuomo.


lunedì 7 luglio 2025

My Favorite Things, giugno 25

ASCOLTI

Asleep At The Wheel, Half a hundred years
Counting Crows, Butter miracle - The complete seweets!
Fabri Fibra, Mentre Los Angeles brucia
Bruce Springsteen, Tracks II - The lost albums
Opia, I welcome thee, eternal sleep
Pug Johnson, El cabron
Stray from the path, Clockworked
Volbeat, God of angel trust

Monografie

Willy DeVille
Joe Henderson
Quireboys


VISIONI

The accountant (2,75/5)
The accountant 2 (2,5/5)
FolleMente (2,5/5)
Io sono la fine del mondo (0/5)
Time to hunt (3,5/5)
Il giorno dell'incontro (3,75/5)
Io vi troverò - Taken (1,5/5)
Taken - La vendetta (1/5)
Taken 3, L'ora della verità (2/5)
Braven - Il coraggioso (2,25/5)
Final score (2,25/5)
Diamanti (2,75/5)
Homefront (2013) (2/5)
Il corpo (2/5)
Nella tana dei lupi 2 (1,5/5)
L'ultima vendetta (3/5)
Kraven (2,25/5)
Mimì il principe delle tenebre (3,5/5)













Visioni seriali

Gangs of London 3, otto episodi (3/5)
The reservatet - La riserva, sei episodi (3,5/5)

lunedì 30 giugno 2025

Recensioni capate: Metallica, 72 seasons (2023)

Dalla bara di Death magnetic alla culla di 72 seasons i Metallica, novelli Benjamin Button, fanno il percorso anagrafico all'inverso, ma solo per la scelta grafica, non certo stilistica, che, dopo il pasticcio di St. Anger (2003) è invece collocata nella rassicurante confort zone di un thrash metal (con divagazioni classic heavy, doom, etc.) che, grazie a loro, è diventato mainstream. Torno su un concetto che probabilmente ho già espresso ma non mi va di andare a cercare nel blog: ai Metallica, diversamente da quanto accade ad AC/DC, Iron Maiden, Megadeth, Red Hot Chili Peppers ed accadeva ad Motorhead o Black Sabbath, non viene perdonata la reiterazione di un sound sostanzialmente homemade (questo è figlio del black album) e però, quando si avventurano fuori dal loro perimetro (Load), le critiche sono ancora più impietose. 
Se il problema è non essere all'altezza dei primi tre mitologici album alzo le mani. 
72 Seasons è il terzo lavoro in oltre vent'anni, esce nel 2023, a otto lustri da Kill'em all, direi che bisogna fare i conti con la realtà. 
Certo che il drumming del sessantaduenne Ulrich è sempre più ripetitivo, così come il riffing e i solos di Hammett. Ma ciò non toglie che con un disco così ci si può anche divertire in leggerezza, senza troppe menate. Con pezzi come la title track, Shadows follow, Screaming suicide, Lux AEterna, Sleepwalk my life away. E con l'assenza di pezzi lenti, al massimo break o tracce midtempoes (You must burn!). 
Su una cosa concordo con le critiche, a partire dal titolo sgrammaticato passando per gli undici minuti di durata, Inamorata è un obrobrio incomprensibile.

lunedì 23 giugno 2025

Il giorno dell'incontro (2023)

Mark Flannigan vive come uno squatter in un appartamento che cade a pezzi, come unica compagnia un gatto. Non è vecchio ma nemmeno giovanissimo. Lo vediamo alzarsi ed allenarsi a casa e per strada, inifine raggiungere una palestra dove lo attende Stevie, il suo allenatore di pugilato. Mark "The Irish" Flannigan aveva infatti toccato l'apice del successo come pugile professionista per poi cadere in una spirale di eccessi ed autodistruzione, fino alla condizione attuale. Faticosamente, la sua rete di conoscenze riesce ad organizzargli un incontro come match in fondo al cartellone al Madison Square Garden, ma prima che la giornata si concluda con il combattimento, Mike deve regolare i conti sospesi con le persone che contano nella sua vita.

Jack Huston, una lunga carriera da attore iniziata da bambino, esordisce dietro la macchina da presa con un classicissimo film sulla caduta e sulla ricerca di redenzione di un (beautiful) loser, dimostrandoci che la forza dirompente del grande cinema magari può non stare sempre in un soggetto geniale o una sceneggiatura "ad orologeria", ma anche nella potenza gentile di una messa in scena semplice, pulita ma dannatamente efficace ed emozionante e nella performance di attori che probabilmente potevano ambire ad un posto più importante nello stardom americano in relazione alle proprie capacità. O semplicemente sono io che ho sempre avuto un debole per Michael Pitt, qui in grado di regalarci un'interpretazione indimenticabile.

Ma dicevo del canovaccio abusato alla base del film. La storia contiene diversi clichè, a partire dalla boxe (a mani basse lo sport più cinematografico) come metafora della vita, un arte nobile che può lavare via, purificare ogni cosa, chiudere un percorso catartico. Mettiamoci poi che Huston non si tiene nel ricorrere allo stimolo lacrimale plurimo (cito per sintesi Jessica, l'ex moglie di Mike, che esegue al piano una versione straziante di Have you ever seen the rain, l'incontro di Mike all'ospizio con il padre interpretato da Joe Pesci) e un finale che tutto è meno che sorprendente, e ci sarebbero tutti gli ingredienti per derubricare il film ad inutile scopiazzatura.

In realtà tutti questi clichè che riportano ad altre pellicole (dal primo Rocky a The wrestler, da Stasera ho vinto anh'io a The fighter) non inficiano la resa complessiva, anzi. Merito della scelta di un bianco e nero che rapisce, di una New York talmente persa nel tempo (i settanta, probabilmente) da apparire come una sorta di spazio metafisico, un purgatorio dal quale il protagonista può uscire attraverso una redenzione ma solo alla fine di una traiettoria nella quale è costretto a rivivere tutti suoi traumi. Insomma, si vede che Huston ha bazzicato Martin Scorsese. Buono il lavoro complessivo del cast (Ron Perlman, Joe Pesci, Nicolette Robinson, John Magaro, Steve Buscemi) ma senza l'interpretazione tutta per sottrazione, minimale, emozionante di Michael Pitt, probabilmente il risultato non sarebbe stato lo stesso. 
Mi maledico per averlo perso al cinema.

Disponibile su Sky

lunedì 16 giugno 2025

Land of hope and dreams: Bruce Springsteen vs Donald Trump

«L’America che amo, l’America di cui ho scritto e che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni, si trova attualmente nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice. Questa sera chiediamo a tutti coloro che credono nella democrazia e nella parte migliore dell’esperienza americana di opporsi con noi, di far sentire la loro voce contro l’autoritarismo».


Mentre in questi giorni guardo L.A. bruciare a causa, prima delle misure repressive messe in atto dall'amministrazione Trump che è arrivata al punto di arrestare anche lavoratori onesti, inseriti nel contesto sociale americano, portati via in manette fuori dalla scuola dei figli o quando si recano a rinnovare il permesso di soggiorno,  e poi per la repressione brutale delle giuste manifestazioni a loro sostegno, penso alla forma di protesta attuata da Bruce Springsteen. 

Il "Boss" è senza ombra di dubbio la passione musicale della (mia) vita. Ho iniziato ad ascoltarlo nel 1984 a (sigh!) quindici anni ed è stato capace di attraversare come una potente nave rompighiaccio gli anni e il mutare fisiologico dei miei orientamenti musicali (metal, irish, folk, jazz, country, jam, punk, blues, new wave, blues). L'ho visto in concerto due dozzine di volte, l'ultima nel 2016 ed è difficile spiegare razionalmente la connessione sentimentale che immancabilmente (beh, quasi) si attiva nei confronti di quest'uomo. 

Ciononostante non ho lesinato critiche per la direzione artistica e comunicativa da lui assunta negli ultimi quanti, trent'anni? Dal punto di vista creativo è assolutamente comprensibile il calo rispetto al suo prime, benchè il buttare fuori album discutibili e discontinui probabilmente solo per accelerare gli obblighi contrattuali non deponga a favore della sua leggendaria onestà intellettuale. 
Ancora di più mi ha infastidito, da uomo di sinistra quale testardamente sono e, sapendone valutare pro e contro, da sostenitore di Obama, la stretta amicizia di Bruce con l'ex presidente USA. Amicizia che esce dal perimetro dei rapporti personali e viene offerta in pasto a media e pubblico (ricorderai il podcast a due voci e il libro condiviso). Perchè io penso che la sacrosanta legittimità di un artista ad assumere una posizione politica si debba fermare un metro prima di essere percepito come parte dell'establishment, va cioè mantenuta la giusta distanza, ne va dell'integrità e dell'autonomia della persona. 
Diversamente fai la fine dei fanboy di Trump Dennis Quaid, Mel Gibson, Kid Rock o... Hulk Hogan.

Non è solo questo. E' anche che, fino ad oggi, stare dalla parte convenzionalmente ritenuta "liberal", cioè dei diritti e delle tutele per la parte più marginale della popolazione, esprimersi a favore di una sanità inclusiva o di un approccio al tema dei migranti non esclusivamente orientato a diffondere paura per ricavarne consenso, era normale per la stragrande maggioranza di intellettuali, letterati e artisti. Cioè non si pagava un prezzo e tendenzialmente si faceva bella figura. Aborro il termine radical chic, ma insomma, ci siamo capiti.

Con lo speech attraverso il quale Springsteen ha aperto il leg europeo del suo tour, il 14 maggio a Manchester (il virgolettato in apertura di post), cambia tutto, perchè è lo scenario ad essere trasfigurato. Mai prima d'ora il boss, che già aveva preso posizione contro l'appropriazione indebita che Reagan aveva fatto della sua musica e poi contro i Bush e lo stesso Trump nel 2017, l'artista americano era stato così duro ed esplicito nei confronti di un presidente in carica. Quella parte la lasciava ai lavori solisti di Little Steven.
La differenza è che oggi chi si è schierato apertamente contro il presidente-gangster, che si tratti di enormi studi legali, università, governatori, dirigenti FBI, giudici o volti noti, non solo ha ricevuto risposte infantili e sprezzanti da parte di Trump, ma anche minacce, spesso messe in pratica, di utilizzo della macchina statale come arma contro l'espressione di dissenso. Io stesso, fossi americano, non sarei così sereno nel divulgare dissenso, anche su di un blog della minchia che leggi solo tu.

La dura presa di posizione di Springsteen, pertanto, non poteva passare inosservata.
Trump, oltre ad averlo insultato nella consueta modalità da adolescente viziato, ha avanzato il proposito di far partire una "bella indagine" (non si sa bene su cosa) ai suoi danni. Da sottolineare come il boss, già qualche anno fa, dopo la pubblicazione della canzone American skin (41 shots), scritta sull'onda emotiva dell'omicidio dello studente liberiano Amadou Diallo da parte della polizia di New York (perlappunto crivellato, da innocente, da 41 colpi di pistola) qualche guaio con il NYPD l'aveva già passato.

Per questo penso che nel caso specifico, a scenario drammaticamente mutato e con nazioni normalmente ben radicate nei processi democratici, storicamente quindi predisposte ad assorbire il dissenso, che oggi invece si avvicinano in maniera rapida e preoccupante alla condizione di democrature (in Italia il DL Sicurezza), Springsteen abbia dimostrato, proprio perchè nessuno è intoccabile per Trump, un coraggio non banale. Non mi sovvengono altri big del mondo dello spettacolo che si siano esposti in maniera così radicale. Non l'ha fatto certo Hollywood, sotto attacco presidenziale, che teme ritorsioni mortali, ad eccezione di Robert De Niro. Sarà un caso che siano entrambi più o meno ottuagenari?

Addirittura Bruce, dopo le minacce ha rilanciato, ripetendo ad ogni concerto (e lo fa tutt'ora) i concetti espressi a Manchester e pubblicando un instant EP nel quale, a rafforzare ulteriormente il concetto politico dell'operazione, per la prima volta, isola le introduzioni parlate rispetto alla traccia dei brani, a parer mio per poterle divulgare anche separatamente. Non solo. Ha contestualmente pubblicato una breve storia sui social, nella quale trasmette un parallelo tra il regno del risentimento e dell'odio che oggi risiede alla Casa Bianca, rispetto al passato (lo trovi qui).

Ancora: l'attuale scaletta dei concerti del Boss contiene per buona parte i suoi pezzi, più o meno noti, più o meno apprezzati, a forte carattere sociale e di denuncia delle storture del sistema americano, oggi in ulteriore frantumazione (Land of hope and dreams, Death to my hometown, Seeds, Rainmaker, Murder inc., Wrecking ball, Chimes of freedom (di Dylan), Youngstown)
Ma, in quest'ottica, anche pezzi come No surrender o The promise land sanno di resistenza. 
E poi c'è My city of ruins.

Springsteen l'aveva scritta dopo la grave crisi economica che aveva messo in ginocchio le piccole attività commerciali del suo territorio nel New Jersey: decine e decine di negozi, spesso a carattere familiare che avevano resistito a lungo nel tempo, chiusi e abbandonati riducendo interi quartieri in ghost town. Poi c'è stato l'undici settembre e il pezzo è stato usato come grido motivazionale dopo l'attacco terroristico. Oggi il pezzo diventa una preghiera laica ("let's pray", esorta Bruce presentandola) per chiamare la popolazione - c'mon rise up! - ad una rivolta civile, democratica, identitaria. Questo brano dal grande pathos - ho ancora negli occhi il viso fanciullesco, stupito e meravigliato di Springsteen quando a Milano, nel 2003, San Siro quasi viene giù nel singalong -  viene presentato così, infliggendo la seconda stilettata all'odierna amministrazione americana:

«Nel mio Paese, provano un piacere sadico nell’infliggere dolore ai lavoratori americani. Stanno smantellando leggi storiche sui diritti civili che avevano portato a una società più giusta e pluralista. Stanno abbandonando i nostri alleati e si schierano dalla parte dei dittatori e contro chi lotta per la libertà. Stanno togliendo fondi alle università che non obbediscono alla loro ideologia. Prendono la gente dalle strade d’America e senza alcun processo la incarcerano. Tutto questo sta succedendo adesso. La maggioranza dei rappresentanti politici non è riuscita a difendere il popolo americano dagli abusi di un presidente inadeguato e di un’amministrazione canaglia. A loro non interessa e non hanno idea di cosa significhi essere davvero americani».

In questa battaglia intrapresa (l'ultima, a 76 anni?) l'uomo ha tutto da perdere - fans trumpiani, inchieste, i Proud Boys alla porta (proprio ieri è stata trucidata un coppia di politici democratici) - e nulla da guadagnare. Pertanto, pur avendo passato da tempo l'era dei fanboy acritico, ammiro e rispetto l'audacia recuperata di quest'uomo. Ciò non significa che tornerò a vederlo in concerto tra qualche giorno a Milano, perchè, per essere un credibile cantore della working class, a Springsteen manca un ultimo tassello: evitare di far pagare biglietti a tre zeri a chi proprio non può permetterseli. Tanto i suoi eredi sono già a posto per le prossime dieci generazioni.


L'EP Land of hope and dreams si può ascoltare su spotify

mercoledì 11 giugno 2025

Recensioni capate, Rhino (2021)

 


Girato da Oleg Sentsov, regista ucraino che ha passato guai seri con la Russia per vaghe accuse di terrorismo, Rhino è una sorta di romanzo criminale perlappunto ucraino, che, a differenza di quello di casa nostra, è privo di qualunque indulgenza o ricerca di empatia verso l'ascesa criminale di Serhii Filimonov (l'attore che interpreta il protagonista da cui l'alias del titolo) e dei suoi soci. Notevoli alcune scelte di regia, a partire dal suggestivo incipit nel quale ci viene mostrato il tempo che passa esclusivamente con la mdp che scivola da un ambiente all'altro del rudere di abitazione in cui cresce Rhino assieme alla sua famiglia. Lo scenario è quello di un'indefinita zona rurale ai margini della civiltà conosciuta, popolata da individui alla deriva sotto ogni punto di vista: sociale, morale e umano. Tra baracche e povertà diffusa, le skills che vengono premiate sono quelle del più forte, resiliente e privo di scrupoli. Non c'è epicità nelle azioni del gruppo che Rhino mette assieme, non c'è coraggio nella presa in ostaggio di una famiglia con minacce al bimbo neonato, non c'è onore nel fottersi l'un l'altro. Tuttavia, in una storia cruda, spietata e realistica, Sentsov ha l'intuizione di realizzare un epilogo quasi onirico e spirituale spiazzante ed evocativo, che lascia esterefatti.

lunedì 2 giugno 2025

My favorite things, maggio 2025

ASCOLTI

Astor Piazzolla & Gerry Mulligan, Summit
Black Sword Thunder Attack, ST
Bruce Springsteen, Land of hope and dreams (EP)
Counting Crows, Butter miracle - The complete sweets
Massimo Priviero, Rolling live
Dream Syndicate, The complete live at Raji's
Fust, Big ugly
Ghost, Skeleta
LA Guns, Leopard skin
Metallica, 72 Seasons
Tennesse Jet, Ranchero
The Cult, Under the midnight sun
Turnpike Troubadors, The price of admission
Gilla Band, Most normal

VISIONI

Black bag (3,25/5)
Rhino (3,5/5)
Thunderbolts (3/5)
Conclave (3,75/5)
Cleanskin (2,75/5)
City State (2,5/5)
A working man (2/5)
1992 (2,5/5)
Il Gladiatore II (2,5/5)
Athena (3,75/5)
Thelma (2024) (2,25/5)
Turning green (2,5/5)
The killer's game (2,25/5)
Captain America - Brave new world (1/5)

Visioni seriali

I favoriti di Mida, sei episodi (2,5/5)
The residence, otto episodi (3/5)
Dèrapages - Lavoro a mano armata, sei episodi (3,25/5)

LETTURE

Massimo Priviero, Amore e rabbia
Jean Claude Izzo, Casino totale
Michail Bulgakov, Il maestro e margherita



lunedì 26 maggio 2025

Recensioni capate: Jean Claude-Izzo, Casino totale (1995)

 


Scorrendo l’elenco di libri che mi porto dietro da tempo nella memoria dello smartphone, titoli che prima o dopo vorrei leggere, Casino totale di Jean-Claude Izzo vantava un posto ben saldo. E finalmente è arrivato il suo turno.
Il romanzo rientra nel filone dei crime che sono tutt’uno con il contesto geografico in cui si svolgono. Izzo è evidentemente innamorato di Marsiglia, la sua città, ed egli è una guida preziosa per introdurla sotto ogni punto di vista – sociale, turistico, gastronomico – al lettore che non la conosca. E’ questo probabilmente l’aspetto più suggestivo dell’opera, almeno per me, che, lo premetto, sono molto esigente in fatto di noir/crime/polizieschi, e pertanto, quando mi trovo davanti l’ennesimo eroe solitario, dalla vita privata distrutta, che fa colazione col whiskey e ama la musica old time (in questo caso jazz e blues) e ovviamente sciupafemmine, ecco beh, insomma, sprofondo nella delusione. 
Di buono sicuramente c'è la posizione politica antagonista che Izzo prende chiaramente  rispetto al razzismo nazionalista del FNP, senza tuttavia negare i problemi di coabitazione con la parte araba della città, siano essi legati alla microcriminalità piuttosto che alla mala organizzata. I personaggi sono però tracciati con una netta dicotomia tra bene e male, evitando ogni contaminazione nonchè traiettoria di redenzione (o di perdizione). 
La mia critica non toglie che Casino totale sia un’opera coinvolgente e scorrevolissima, le sue duecento pagine si leggono volendo in un paio di giorni, e infatti il libro, assieme alla trilogia che compone, ha avuto un successo mondiale. Il che lo posiziona sicuramente bene in un’ipotetica classifica per la letteratura poliziesca popolare, un po' meno nel giudizio di chi ha perso la testa per i noir cinici e disperati di Ellroy e Genna.

giovedì 22 maggio 2025

I miei film preferiti del 2024

Anno intrigante, cinematograficamente parlando, il 2024. Il lavoro di progressiva esclusione del numero di titoli, nella lista che alla fine ho postato, mi ha messo in seria crisi, basti dire che partivo da una base di ventiquattro film. Certo, non tutti allo stesso livello, ma ciascuno di essi in grado di lasciarmi qualcosa di significativo. E' questo il mio elemento guida, la scia emozionale permasta anche tempo dopo la visione. Più soggettivo di così. 
Alla fine chiudo la classifica con i canonici dieci (più o meno...), ma se dovessi rivederla domani potrei essere di nuovo divorato dai ripensamenti (al netto della prima posizione, molto poco deontologicamente decretata a gennaio dello scorso anno). 

Prima posizione

















Seconda posizione ex aequo

4. La misura del dubbio
5. La zona d'interesse
6. Rebel Ridge

Terza posizione ex aequo

7. Anora
8. Dune - parte due
9. La sala professori
10. Povere creature



Altri cinque, perchè proprio non ce la faccio

La morte è un problema dei vivi
Longlegs
The substance


lunedì 19 maggio 2025

The Murder Capital, Blindness

I The Murder Capital sono una band irlandese di Dublino, di poco più "giovane" dei conterranei Fontaines D.C. . Come loro si muovono principalmente sui territori della seconda (dopo quella della metà degli anni zero) new wave of post punk. A differenza di loro l'hype intorno alla musica che creano non è ancora partito. Avendone ascoltato il secondo lavoro del 2023 (Gigi's recovery) posso anche capire perchè. Il suono della band due anni fa era forse ancora alla ricerca di una cifra precisa, mi sembra che faticasse a centrare il bersaglio dal punto di vista emotivo. 

Blindness, da questo punto vista, è un'altra storia. I ragazzi hanno imparato ad essere più accessibili, se vogliamo anche più scaltri, ruffiani, centrati, riuscendo a bilanciare pronti-via le parti sferraglianti (Moonshot) con quelle propriamente melodiche, darkeggianti, radio friendly ( Words lost meanings) che sì, di qualcosa agli amici Fontaines D.C. è debitore e non è nemmeno l'unico caso (Can't pretend to know), ma d'altro canto la fonte cui si abbeverano entrambe le formazioni è la medesima.

La voce del frontman James MacGovern riesce ad essere, alla bisogna, atonale o estremamente espressiva, comunque sempre in grado di veicolare sentimenti forti, emozionali. Come nel caso della tesa Born into the fight o la struggente Love of Country. Discorso a parte merita Death of a giant, forse, a differenza delle sopracitate, non fra le highlights dell'album, ma letta da molti come un tributo a Shane MacGowan, la cui morte aveva commosso la nuova scena di Dublino, portando ad esempio i TMC a realizzare una cover di I'm a man you don't meet everyday semplicemente incantevole, a dimostrazione di un senso di appartenenza intergenerazionale e di una sensibilità non comuni. 

Sensibilità che riverbera in un songwriting con l'orecchio sempre attaccato a terra a cogliere rumori di una società allo sbando, crisi esistenziali, famiglie alla deriva, a cercare una speranza sempre più nascosta tra rabbia, solitudine e disperazione. Un disco che non teme di mostrare le cicatrici, affascinanti e respingenti, dei nostri tempi. Una band che urla e sussurra noi ci siamo,  non abbiamo ambizioni di leadership ma un'urgenza comunicativa deflagrante. C'è ancora qualcuno vivo là fuori?


giovedì 15 maggio 2025

Le mie serie tv preferite del 2024

Il mio rapporto con la serialità è scostante e discontinuo. Raramente, nella visione, vado oltre la prima stagione di un serial, spesso non procedo nemmeno dopo il pilot. Prediligo le serie brevi (a parte qualche eccezione significativa), possibilmente autoconclusive, non inseguo (o almeno cerco di farlo) gli hype internettiani che ti propinano una serie cult im-per-di-bi-le a settimana. Lo so, sembro snob, ma è pura sopravvivenza e gestione della ridotta risorsa del tempo e quindi delle priorità.
Tanto, in linea di massima, la roba di valore si può sempre recuperare, se c'è davvero dell'arrosto, dopo che la coltre di fumo si è diradata. 
Sono arrivato a sei titoli senza grossi dubbi ne particolari tribolazioni.

Prima posizione

1. Dostoevskij (Sky/Now)













Seconda posizione ex aequo

2. Day of the Jackal (Sky/Now)
4. The Gentlemen (Netflix)
5. The Penguin (Sky/Now)
6. True Detective: Night country (Sky/Now)

lunedì 12 maggio 2025

Derapages - Lavoro a mano armata (2020)



Alain Delambre è un ex manager di azienda dalle medie dimensioni, ma quando si trova nell'età in cui si comincia a pensare alla pensione viene licenziato, e quindi, vicino ai sessanta e con un mutuo da pagare, senza alcun datore di lavoro che lo assuma per le sue competenze, si presta a fare i mestieri più umili. Ma in lui, dopo la depressione, monta una rabbia che fatica a gestire.

Miniserie piuttosto interessante, questa francese Derapages (la traduzione italiana del titolo riprende quella scelta per il romanzo di Pierre Lamaitre, cui la serie è la trasposizione), che, in sei episodi, mantenendo sempre un buon livello di tensione e curiosità, nell'arco della narrazione passa agevolmente da un genere all'altro. Lo scenario costante attiene alla denuncia sociale della condizione del lavoro in Francia, non molto diversa dalla nostra, in cui, se esci dagli ingranaggi delle assunzioni, specialmente ad una certa età, sei obbligato a scelte umilianti, non tanto per la professione svolta - facchino, pulitore - ma per il trattamento tirannico che ricevi dai tuoi capetti. Certo, il j'accuse è di grana grossa e sloganistico, ma pur sempre efficace. Ci sono poi altri elementi: di action, nella puntata che fa da perno a tutta la vicenda, la terza, di prison drama, finanche di legal thriller con connotati crime.

Spesso, davanti a serie televisive composte da pochi episodi mi trovo a pensare, diamine ma con qualche taglio avrebbero potuto tranquillamente farne un film! In questo caso invece l'abito seriale breve veste alla perfezione il progetto, la narrazione non abusa di fill-in o momenti dilatori esclusivamente propedeutici a prolungare timing. A tutto ciò sicuramente contribuisce il fatto che dietro il soggetto (creazione e regia) ci sia un regista come Ziad Doueiri (Oscar per L'insulto), che si muove facendoci dimenticare come il prodotto nasca per essere destinato alla visione (anche, ahimè) su smartphone e tablet. 

Ma l'aspetto più prodigioso della serie è l'interpretazione di Eric Cantona, ex fuoriclasse calcistico (Manchester Utd, soprattutto) che ormai da anni si è reinventato attore. Naturalmente non è la prima volta che lo vedo in queste vesti (Il mio amico Eric, The salvation, AKA), ma il ruolo di Alain Delambre, un uomo controverso e sconfitto dalla vita la cui interpretazione deve trasmettere una gamma più vasta di emozioni, credo che lo possa aver consacrato definitivamente. C'è da sottolineare comunque come sia l'intero cast, nei personaggi principali e secondari, a fornire una prova eccellente, segnalo su tutti quella di Gustave Kevern, nei panni del migliore amico del protagonista, e Alex Luz in quelli del mega manager cinico e arrogante. 

Attualmente su Netflix, ma dovrebbe uscire a breve dal catalogo. Recuperalo.

giovedì 8 maggio 2025

I dischi che ho più ascoltato nel 2024

Come ogni anno da un pò di tempo a questa parte, dopo aver trascorso la maggior parte del tempo ad ascoltare musica di repertorio, arrivati al momento dei consuntivi di fine anno vado in sbatti e cerco freneticamente di recuperare ciò che è ritenuto il meglio dai miei critici di riferimento. 
Così facendo, nella migliore delle ipotesi, sul block notes mi trovo più di una cinquantina titoli e capisci bene che la missione-recupero è impossibile, anche perchè, con l'arrivo di febbraio, torno alle vecchie abitudini e alle mie confort zone musicali.
Ad ogni modo, anche in queste condizioni sono riuscito a isolare sette titoli (più uno), composti, in parte dai dischi effettivamente più ascoltati nel corso del 2024, e in parte da scoperte last minute, per cui ringrazio i miei spacciatori di fiducia di buona musica, che confermano la loro affidabilità. 

Ad ex aequo:

Ezra CollectiveDance, there's no one watching
Fontaines D.C., Romance
Sierra Ferrell, Trail of flowers












menzione d'onore

lunedì 5 maggio 2025

Ricordando Mike Peters

 


Qualche giorno fa, il 29 aprile, ci ha lasciato Mike Peters. Il nome ai più dice poco, al punto che mi sono stupito di trovare la notizia (certo, un trafiletto) sui principali quotidiani nazionali. Mike era noto agli attempati appassionati di rock per essere stato il frontman dei The Alarm, band gallese nata nei fine settanta che, sulla scia del cosiddetto combat rock, (genere parallelo al movimento post-punk che però non andava in rottura con i pattern musicali canonici, continuando dunque ad utilizzare, sostanzialmente, gli stessi del pop, del folk, del rock tradizionale) aveva trovato una sua affermazione.
L’elemento che li accumunava a band emergenti quali U2, Simple Minds, The men they couldn't hang o Big Country (ai quali peraltro Peters si unì, sostituendo il povero Stuart Adamson per un album e un tour nel 2013), era l'epicità, un approccio arrabbiato, tematiche sociali, l’abilità di forgiare pezzi anthemici, il tutto tradotto in composizioni  sovente sorrette da ritornelli e cori poderosi. Un pò da arena rock, se vogliamo.
Gli Alarm migliori bruciarono in fretta, tendenzialmente nello spazio di tre album (Declaration, Strenght, Eye of the hurricane) dal 1984 al 1987, che rappresentano un'ottima sintesi per comprendere il genere e che sono riusciti ad affacciarsi nelle chart inglesi, sebbene in posizioni distanti dalla top ten. 
Dopo altri due dischi in cui tentarono, non riuscendovi, di aggiornare il proprio sound, la band si scioglierà nel 1991 per riformarsi nel 2002 producendo, nei successivi quattro lustri, ben dieci lavori (di cui, onestamente, ignoravo l’esistenza), gli ultimi senza Peters, e girando regolarmente in tour. 
Ma i report dei concerti ci dicono chiaramente che il loro pubblico non avrebbe lasciato locali e palazzetti senza aver ascoltato le canzoni della tripletta di album degli esordi: Sixty eight guns (il loro successo più noto); Blaze of glory; Rain in the summertime; Strenght, The stand; Spirit of 76 eccetera. 

Mike Peters era insomma un eroe minore della musica che apprezzo. E proprio per questo, analogamente agli altri nella sua condizione, che ci hanno creduto ma erano destinati dal fato (e da un talento limitato) ad inseguire la fugace attenzione conquistata in età giovanile e mai più acciuffata, ha tutta la mia romantica stima e perché no, riconoscenza per ciò che ha saputo creare nel suo prime.



giovedì 1 maggio 2025

My favorite things, aprile 2025

ASCOLTI

Allegaeon, The ossuary lens
Messa, The spin
Muireann Bradley, I kept these...
Neffa, Canerandagio
Poorboys, Pardon me
Reverend Peyton's Big Damn Band, Honeysuckle
Ghost, Skeleta
LA Guns, Leopard skin
T Bone Burnette, The criminal under my own hat
The Murder Capital, Blindness
Machine Head, Unatoned

Monografie

Coroner
Phish
The Cult 1984/89
Charles Mingus















VISIONI

Osterman weekend (3,5/5)
The rhythm section (2,75/5)
Tutti gli uomini del re (2006) (2,75/5)
Iddu (3/5)
Tre rivelazioni (3,75/5)
L'uomo accanto (3,5/5)
Chi è senza colpa (4/5)
Fury ("The samaritan", 2012)  2,5/5
Cobweb (Corea, 2023) (3,5/5)
Una notte a New York (3/5)
Michael Collins (2,5/5)
G20 (2/5)
Secret reunion (3,25/5)
Confessioni di un assassino (Corea, 2012) (3,5/5)
La vera storia di Olli Maki (3,5/5)
Eileen (3/5)
Havoc (2025) (2,75/5)

Visioni seriali

The White Lotus, terza stagione, 8 episodi (3/5)
La cupola di vetro , 6 episodi (2,75/5)
Criminal UK, prima stagione, 3 episodi (3,25/5); seconda stagione, 4 episodi (3,5/5)


LETTURE

Don DeLillo, Underword
Michail Bulkgakov, Il maestro e Margherita


lunedì 28 aprile 2025

Recensioni capate: Confessione di un assassino (2012)


Recentemente, Prime Video ha acquisito nel proprio catalogo (che, a livello cinematografico continuo a considerare il migliore, tra le piattaforme "mainstream") diversi film sudcoreani prodotti dalla Showbox, casa di produzione votata al genere, con qualche significativa eccezione, come ad esempio L'uomo accanto, che tratta di un evento tragico nella Corea del Sud post colpo di Stato. 
Ma la segnalazione di oggi è relativa ad un action poliziesco davvero interessante, pur nella sua vocazione commerciale. Si tratta di Confessioni di un assassino, che, come il quasi anonimo Memories of murder, trae spunto da fatti cronaca reali. Qui, a differenza del realismo della pellicola di Bong Joon-hu, il regista Jeong Byeong-gil mette in scena un film di puro intrattenimento, con scene di azione automobilistiche e di combattimento assolutamente godevoli, e un colpo di scena finale inaspettato, potendo contare su due attori affiatati quali Jeong Jae-yeong (già visto nel bellissimo Castaway on the moon) e Park Si-hoo. 
Insomma un buon esempio della ragione per cui questo Paese asiatico sia oggi un riferimento per chiunque voglia cimentarsi con un certo tipo di cinema, e voglia farlo per il grande pubblico ma senza mai rinunciare alle idee e alla qualità.

Prime  Video

lunedì 21 aprile 2025

Recensioni capate: Chi è senza colpa (2014)



Il belga Michael R. Roskam, già autore del durissimo e disturbante Bullhead, confeziona qui un noir 100% americano, dalle atmosfere quasi neorealiste, magistrale nel descrivere le periferie newyorkesi quasi come metafora delle periferie dell'impero capitalista, dove vige la rassegnazione, le uniche regole sono quelle che ciascuno riesce a imporsi e la polizia è anch'essa rassegnata a non essere mai risolutiva, nelle faccende che contano. 
Ovvio che confezione e messa in scena sono rilevanti, ma a fare bum è la coppia principale di interpreti, un Tom Hardy monumentale, che lavora tutto per sottrazione e che ci mostrava in embrione il grande interprete che poteva (e che può ancora, se molla le americanate/bancomat) diventare e un James Gandolfini, qui al suo ultimo ruolo (il film uscirà dopo la sua morte), semplicemente commovente, grazie ad un personaggio regalatogli da Roskam, che nel suo essere cinico, disperato, votato alla sconfitta, è davvero il ruolo (filmico, ovviamente) della vita. Molto convincenti anche il "villain" (le virgolette sono d'obbligo...) interpretato da Matthias Schoenaerts e il detective John Ortiz, mentre Noomi Rapace ha una parte più canonica.
Spiace, ma comprendo sia una cosa mia, che la grammatica noir del film sia "guastata" dall'ultima sequenza immediatamente prima dei titoli di coda. Ma, vedendo ciò che Roskam è stato in grado di fare, in termini di spietatezza nei confronti dello spettatore, con Bullehead, ho l'impressione che quella scena non sia farina del suo sacco, bensì imposta dalla produzione.


martedì 15 aprile 2025

Hayes and the Heathens, ST (2024)


Quello per Hayes Carll è stato un amore fulminante e intenso, prova ne siano i tanti post pubblicati sull'artista texano dal 2008 in poi (tutti taggati a suo nome) che ti puoi dilettare a trovare sul blog. Devo ammettere però che la piega musicale più recente, intimista, introspettiva, presa da Hayes, pur continuando ad evidenziare un ottimo songwriting, discostandosi dai primi quattro lavori, e in particolar modo dall'apice di Trouble in mind e KMAG YOYO, gli aveva fatto smarrire, almeno alle mie orecchie, quell'elemento distintivo che me l'aveva fatto apprezzare. 
Alla fine del 2024 l'artista è tornato a pubblicare un album coadiuvato dai Band of Heathens un gruppo originario di Austin (una delle scene più vivaci e interessanti della scena texana) attivo, come Carll, da quasi mezzo secolo, che si muove perfettamente a suo agio in tutte le sfumature del genere americana e che trova sul palco la sua collocazione naturale. 

Il risultato è un disco clamorosamente bello e inaspettato, nel quale tutti gli attori si trovano a meraviglia, Hayes recupera l'aspetto più scanzonato e divertente delle sue liriche, come il brano d'apertura, Nobody dies from weed, sulla legalizzazione della maria, dimostra perfettamente (Some folks dies from being dumb / but nobody dies from weed), ma è proprio l'alleanza artistica a funzionare armoniosamente, a giovarsi del suono full band che ci permette di passare, nella modalità più spontanea possibile, dal southern di Any other ways ad una country song di livello (See how they run), ad un blues elettrico sferzante (Nothin' to do with your love), agli highlights dell'album: una sontuosa, in magico equilibrio tra Tom Petty e Bruce Springsteen, Water from the holy (cantata da Ed Jurdi degli Heathens), e una love song ispirata, emozionante, Adeline, intonata da Carll.

Otto pezzi per poco più di mezzora di musica, nella quale si concentra però un elegante sunto di cosa significhi suonare americana di gran classe, nel primo quarto di secolo dei duemila. 
Gioiellino.

lunedì 7 aprile 2025

La città proibita


La tratta di esseri umani dalla Cina porta un carico di giovani donne destinate, a seconda, al lavoro clandestino, ai massaggi o alla prostituzione. Una di loro però ha un piano diverso con un obiettivo preciso e non è quello di finire vittima del racket.

Ci sono tante ragioni per cui un amante del cinema di genere possa essere felice per un film come
La città proibita, oltre che cautamente ottimista su un ritorno a questa grammatica cinematografica di intrattenimento (noir, horror, fantascienza, thriller, action, western) da parte di un'industria di settore, quella italiana, che in passato tanto ha dato a codesto ambito. Ottimista perchè, dopo l'insperato capolavoro di Andrea Di Stefano (L'ultima notte di amore), dopo i Diabolik (qui e quidei Manetti, dopo Lo chiamavano Jeeg robot e Freaks out di Mainetti (per restare alle produzioni più mainstream, ma molto si è smosso anche a livello di budget contenuti) qualcosa sembra decisamente rinascere. Cauto perchè, purtroppo, il responso del pubblico nostrano, carburante indispensabile della cinematografia di genere, va dal tiepido al freddo. 

La città proibita è una pellicola priva di imperfezioni? Decisamente no. Però Mainetti ha palle come cocomeri e incoscienza da vendere a buttarsi, oggi, in un'impresa folle come un film di arti marziali italiano.
Su come gira, magistralmente, c'è poco da dire e lo stesso vale per la capacità di messa in scena. A tal proposito tutta la sequenza iniziale che si conclude con la fuga dal ristorante cinese della protagonista Yaxi Liu, in cui da un non-luogo di schiavitù nelle viscere della terra, passando per un'anonima sala di ristorante, finiamo per strada, e scopriamo di essere dentro uno dei tanti quartieri multietnici, variopinti e caciaroni, di Roma, l'Esquilino, è qualcosa di notevole.

Come detto, non tutto funziona a dovere, in particolar modo nel secondo atto, nel quale assistiamo all'inizio della relazione tra Marcello (Enrico Borello, perfetto per il ruolo) e Xiao (Yaxi Liu, pescata dalle controfigure/stunt del cinema cinese, brava e intensa) che forse evidenzia la distanza ancora esistente tra il nostro action, acerbo, e quello fatto bene. I villain invece, che in queste produzioni, a mio avviso, devono necessariamente essere sopra le righe come quelli dei fumetti, sono azzeccati. Giallini, che fa Annibale, esponente di certa criminalità romana decaduta (il "Terribile" da anziano, se fosse sopravvissuto?), e tale Shanshan che interpreta il luciferino Mr Wang, con le loro contraddizioni e debolezze (uno l'amore per la famiglia di Marcello, non avendone una sua, l'altro per il figlio che lo ha ripudiato) sono funzionali al tipo di racconto.

Essere riusciti a produrre un film di questo tipo, in Italia, nel 2025, lo vivo con grande orgoglio patriottico. Per questo il giudizio che riconosco alla pellicola è magari superiore al valore oggettivo dell'opera. Accettiamo, o almeno proviamoci, la sfida di chi è più avanti di noi (Francia, Spagna, le inarrivabili Hong Kong e Corea del Sud che girano i combattimenti spesso in piano sequenza) e giochiamocela "rieducando" il pubblico a questo tipo di film fatto in casa. E' una risalita complessa e a grande rischio (soprattutto di abbandono per rinuncia dei produttori) ma non vedo altre strade se non quella di insistere.
Hold on Gabriele, hold on.

giovedì 3 aprile 2025

My favorite things, marzo 2025

ASCOLTI

Almamegretta, Sanacore
The Murder Capital, Blindness
Umberto Palazzo e il Santo Niente, La vita è facile
Gang, Tra silenzi e spari
Darkside, Nothing
Tom Keifer, Rise
Architets, The sky, the earth and all between
Hayes & the Heathens, ST
Ryan Adams, Nebraska
The Lemon Twigs, A dream is all we know
Franti, Il giardino delle quindici pietre
The Reverend Peyton's Big Damn Band, Honeysuckle
Spiritbox, Tsunami sea
Rory Gallagher, Fresh evidence













Playlist/Monografie

AAVV, 70's Glam rock
AAVV, 90's Brit pop
Joe Bonamassa
Teatro degli Orrori


VISIONI

La spia - A most wanted man (3,75/5)
A real pain (3,75/5)
La memoria dell'assassino (2,5/5)
Il colpo del leone (2/5)
Bastion 36 (3,75/5)
Mickey 17 (3,75/5)
Gli indesiderabili (3,75/5)
La città proibita (4/5)
The union (1,5/5)
Best seller (1987) (3/5)
Late night with the devil (3,75/5)
Fino alla fine (2,25/5)
Holland (2,25/5)

Visioni seriali

La prova, quattro episodi (3,25/5)


LETTURE

Don DeLillo, Underworld


lunedì 31 marzo 2025

Gli indesiderabili (2023)

Periferia di Parigi. La nuova giunta comunale vuole trasformare il problema della concentrazione di cittadini immigrati in una zona periferica e degradata della città, in un'opportunità di "riqualificazione" , attraverso l'abbattimento dei palazzi e la costruzione di nuovi, dell'area. Con modalità diverse, singoli individui e associazioni del posto tentano di opporsi alla speculazione.

Chissà da cosa dipenda, nel 2025, la capacità di fare film di denuncia sociale. Ambito nel quale l'Italia ha primeggiato dal dopoguerra fino ai primi ottanta ed oggi ha completamente abdicato. Non basta a giustificare il trend il cambiamento del clima politico/popolare, che di certo è passato dalle lotte di classe, la solidarietà e l'internazionalismo all'individualismo, al nazionalismo, la caccia al responsabile della crisi dei ceti medio bassi, che finisce sempre col mettere nel mirino chi sta peggio di loro. Fosse così, la Francia, che ha un governo di centro destra, con un forza nazionalista estremamente rilevante (il Rassemblement National), non dovrebbe essere in grado di produrre opere come Gli indesiderabili, secondo lungometraggio di Ladj Ly, dopo il debutto de I miserabili

Anche in questo caso, come nella pellicola precedente, l'occhio del regista si concentra sulle periferie parigine, sulle condizioni in cui vivono e sono stipati gli emigranti di prima e seconda generazione, costretti dentro enormi alveari fatiscenti dove, per far uscire dall'edificio la bara di un defunto, bisogna caricarsela in spalla, giù per infinite rampe di scale, posta l'ineluttabilità di ascensori rotti e mai riparati. A differenza dell'esordio, Gli indesiderabili è un film ancora più amaro, perchè totalmente privo degli elementi action/crime che avevano caratterizzato I Miserabili e perchè sposta i riflettori sul cinismo della politica, sull'arrivismo personale e sul pericolo comportato da uomini piccoli, pavidi e insignificanti a cui è affidato il potere di decidere delle condizioni di vita di migliaia di persone. 

Un film forse imperfetto, ma che azzecca volti e fisicità di una manciata di protagonisti (i villain, cioè i politici cittadini interpretati da Alexis Manenti e Steve Tientcheu, la tormentata vittima delle mire di gentrificazione della giunta, il bravo Aristote Luyindula) e che in generale sembra quasi neorealista nell'utilizzo dei comprimari, mentre usa la leva della retorica e del posizionamento di parte per trasmettere una condizione diffusa e, neanche l'incapacità della politica di affrontarla, peggio, la non volontà di farlo. 
Tutto il contrario del cinema francese, che tra Stèphane Brizè e Ladj Ly, ci sbatte sui denti cambiamenti della società tanto potenzialmente deflagranti quanto marginali, ai nostri occhi.

lunedì 24 marzo 2025

Teatro degli Orrori, Milano 18 marzo 2025

"Siamo intergenerazionali". Se ne esce così, Pier Paolo Capovilla, osservando il pubblico illuminato a giorno all'Alcatraz di Milano. In effetti, ad assistere alla reunion della band di alternative rock italiano probabilmente più importante degli anni zero / dieci  (quattro album tra il 2007 e il 2015) il range d'età, ad occhio, va dai venti agli over sessanta. Tutti conversi nel medesimo tempo spazio per ricevere un balsamo benefico, antidoto ai tempi disperati che viviamo.

Il Teatro degli Orrori si rimette a suonare dieci anni dopo l'ultimo tour e qualcosa in meno rispetto all'annuncio di scioglimento. Delle nove date previste per il Mai dire mai tour, due vengono annullate ("per cause indipendenti dalla nostra volontà") ma quella di Milano registra se non il tutto esaurito poco ci manca, visto che l'Alcatraz è stipato. Con il canonico ritardo rispetto all'inizio programmato, sul sottofondo di un'ossessiva musica elettronico tribale, esce il Capovilla. Da solo, nel buio dello stage che pallidamente riflette solo il rosso del fondale. E rimane lì, immobile e in solitudine per qualche minuto, mentre il pubblico, impaziente, urla ed incita.

Con l'arrivo sul palco degli altri componenti della band la messa può essere officiata. Non si può che partire con Vita mia (nella quale i tecnici hanno il loro da fare per "pulire" la voce, che risulta slabbrata e subalterna agli strumenti), poi Dio mio seguita da E lei venne, il primo pezzo che fa esplodere la sala. 

Guardo il Pier Paolo e mi sembra sereno, felice. Forse un pò stanco, ma può anche essere un impressione dovuta dalla sua postura pubblica che coniuga distacco e passione, un equilibrio non semplice da gestire, comunicativamente. 

La band ha un sound poderoso, magmatico, che poggia le sue fondamenta sulla solidità di Francesco Valente alla batteria. E' lui il cuore che pompa sangue nella macchina TdO, un perno su cui fanno leva le affilate tessiture chitarristiche di Gionata Mirai e l'altro pezzo della sezione ritmica, il basso di Giulio Ragno Favero. E' vero che la potenza sviluppata dai power trio (dagli Who ai Motorhead a venire in giù) non può più stupire, ma ricondurre l'apocalisse sonora di questo concerto alle vibrazioni di soli tre strumenti è comunque qualcosa di incredibile.

Il Teatro degli Orrori non è una band che, a differenza di altre, campa grazie alla sua prossimità a organizzazioni politiche (di sinistra) o che cerca la scorciatoia di facili slogan per far saltare i centri sociali. E' qualcosa di inedito, sovversivo, intellettuale e culturalmente diverso. Le liriche di Capovilla denunciano derive e drammi collettivi ma anche privati, individuali. Nella visione di PP la società/Matrix inquina ogni ambito dell'esistenza: ti incanala, ti spinge a forza dentro uno stampo, ti omologa. E l'aspetto più grave è che in molti dentro quello stampo di consumismo e status quo ci stanno proprio bene. O così perlomeno credono.

E' per questo che da un concerto dei TdO, il primo a cui assisto, mi aspettavo una dose maggiore di autenticità rispetto alla media delle esibizioni di altri artisti che eseguono pedissequamente lo stesso soggetto in posti differenti. E invece, da questo punto di vista, un pò di delusione c'è. Passi per la setlist bloccata ed immutabile per tutto il tour, ma anche gli spoken di Capovilla mi sono arrivati liturgici, privi di qualunque improvvisazione. Solo in un'occasione sono andati oltre la burocrazia del rapporto frontman/stage da concerto, nel caso della declamazione di un poema di Majakovskij, ad introdurre il pezzo che porta il nome dell'autore russo. Potere della poesia, I guess.

Dopodichè il repertorio della band può contare su pezzi talmente strepitosi che il solo incipit fa deflagrare l'entusiasmo e la voglia di essere parte di quei salmi, urlando a squarciagola "Teresaaaa!" (Compagna Teresa), "I love you baby, com'era bello far l'amore con te!" (Due), piuttosto che "bugiardi dentro/fuori assassini/vigliacchi in divisa" (A sangue freddo) oppure "sarebbe stato bello invecchiare insieme/la vita ci spinge verso direzioni diverse" (Direzioni diverse), come dentro un antichissimo rito tribale di due ore che ci è rimasto appiccato in forma ancestrale e che lasciamo libero di emergere, deflagrare, prendere il controllo.

Cosa succederà ora alla band non è dato sapere. C'è chi spera in un ulteriore tour estivo, chi arriva ad azzardare un nuovo album. Tutto sommato potrebbero essere coerenti fino in fondo, e, fuggendo dalle logiche delle reunion nostalgiche (o alimentari), chiuderla qui. 
E' altamente improbabile che un nuovo disco possa superare lo shock al sistema dei primi due lavori (i cui brani, non a caso, occupano i due terzi della scaletta di questi concerti), e, tutto sommato, un commiato, sebbene doloroso, ci lascerebbe intatta la sensazione di un'insperata, bellissima e irripetibile anomalia della musica italiana.
foto https://www.longliverocknroll.it/il-teatro-degli-orrori-alcatraz-milano-18-03-2025/