lunedì 18 marzo 2024

Brad Mehldau, Your mama should know (2023)

La liason del jazz con la musica cosiddetta leggera è solida, antica e strutturata, non inizia certo negli anni ottanta (che però sì, sono il decennio in cui del connubio si è più tristemente abusato) con Miles Davis che rifaceva Human nature e Time after time. A riprova di ciò le cronache ci riportano nei primi settanta un Miles, che al grande successo di massa ha sempre anelato, segnarsi nell'agenda degli impegni una jam con Jimi Hendrix, purtroppo giusto qualche giorno prima che il più grande chitarrista di tutti i tempi trovasse la morte con una modalità così dannatamente idiota. Il disco jazz con i pezzi di Jimi lo realizzerà poi (1974) il pianista Gil Evans assieme ad un'orchestra di venti elementi (qui una mia breve, indegna recensione). Tralasciando peraltro l'intuizione più spettacolare di tutte ad opera di John Coltrane, che da una banale canzoncina da musical ha tirato fuori uno dei pezzi jazz per cui vale la pena vivere, My favorite things

Perciò, ecco, forse non è più nemmeno il caso di parlare di liason, piuttosto di matrimonio duraturo, e al critico rimane solo da capire se tra i due (generi) si tratti di vero amore o piuttosto di mero interesse. 
Brad Mehldau, pianista americano della Florida, che dal 1993 ad oggi ha al suo attivo più di quaranta album (per dire, ha già dato due successori all'album del 2023 oggetto di questa recensione) con il pop e il rock ha sempre limonato, a titolo esemplificativo e non esaustivo basterebbe sfogliare le tracklist dei cinque volumi, distribuiti nel tempo, di The art of  the Trio, dove ascoltiamo rapiti esecuzioni che passano da brani di musical, Radiohead, Nick Drake, classici da crooner, fino ai Beatles. 
I Beatles, appunto. Dopo quella gemma di Blackbird (The art of  the Trio, volume 1 - 1997 - ) che, vabè, è solo il mio pezzo dei fab four preferito di sempre, il buon Brad decide di dedicare un intero lavoro alla musica della mitologica band (giudizio che prescinde dal mio gusto personale).

In una tracklist di undici pezzi, dieci sono dedicati alle composizioni della ditta Lennon McCartney (uno per amore di verità è del solo George Harrison) pescando, con condivisibile saggezza, nel repertorio meno noto dei Beatles, al netto di due pezzi, I saw her standing there e I am the walrus, che comunque definirei mediamente conosciuti. Per il resto, dalla title track a For no one, a Golden slumbers o Maxwell's silver hammer, si naviga nel repertorio più nascosto e raffinato della band, scandagliando soprattutto Revolver (tre brani) e Abbey road (due) che permettono a Mehldau di dipingere i consueti sapienti arazzi armonici, questa volta con sfumature anche blues (Golden slumbers) o boogie/ragtime (I saw her standing there). 
Il disco è registrato dal vivo assemblando una serie di serate a Parigi, e si chiude con un pezzo che dei Beatles non è, ma che, porca miseria, risulta il più bello, malinconico e struggente del lotto: Life on Mars? di David Bowie. 
Quale che sia il motivo della scelta in controcorrente sulla filosofia dell'operazione, affinità alle melodie beatlesiane o banalmente non voler disperdere un'interpretazione magistrale, una conclusione satura di poesia ed emozione per un disco sicuramente da ascoltare e riascoltare.

giovedì 14 marzo 2024

Recensioni capate: Un altro ferragosto


Rieccoci a Ventotene, quasi trent'anni dopo l'ultima volta (Ferie d'agosto, 1996), con la maggior parte del cast originale, orfano però di Piero Natoli e Ennio Fantastichini (hai detto niente) a replicare la "lotta di classe" virata in una commedia all'italiana che si vorrebbe nobile parente degli Scola, dei Monicelli, ma sì, anche del migliore Virzì. 
S'è già capito che non ho gradito? 
Laddove l'opera originale era un imperfetto gioiellino, che traeva dall'equilibrio tra commedia e dramma, dentro le differenze sociali/politiche dei characters, la sua forza, vale a dire che su clichè e contraddizioni di entrambi gli schieramenti ci si potevano divertire anche i berluscones (almeno quelli dotati di un minimo di senso di autocritica e umorismo) e la malinconia di fondo era centrata sull'infelicità di esistenze gettate in pasto alle convenzioni sociali/morali, qui, per far ridere, Virzì deve ricorrere alle maschere di un De Sica in versione cinepanettone e per toccare le corde emotive far leva sulla tragedia della morte. Sprecatissimi, a mio avviso, Orlando e la Morante, eccessivamente sopra le righe un comunque bravo Marchioni, ma se la migliore prova attoriale rischia di essere quella di Sabrina Ferilli, compagni abbiamo un problema. 


Al cinema

lunedì 11 marzo 2024

Recensioni capate: Jim Thompson, L'assassino che è in me (1952) - audiolibro

Sostiene Stephen King, nell'appassionante prefazione a questo romanzo (da leggere in realtà come postfazione, visti i numerosi "spoiler"), che Jim Thompson nella sua prolifica bibliografia abbia scritto tanti hard boiled usa-e-getta a esclusivo scopo alimentare, con qualche significativa eccezione, laddove  ha invece realizzato dei capo d'opera, se non proprio capolavori. 

Uno è senza dubbio questo L'assassino che è in me, agghiacciante viaggio nella mente deviata di Lou Ford, assassino seriale che come copertura svolge la mansione di vice sceriffo in una cittadina del Texas. Una di quelle province americane modello Springfield dei Simpson, in cui ognuno, dal miliardario al ragazzo della pompa di benzina, recita una parte e tutti si conoscono, l'unica differenza con i personaggi creati da Matt Groening è che Thompson ne dà una versione in acido.  Lou si camuffa bene tra i volti noti del paese, ma nasconde un animo brutale e omicida totalmente privo di freni, vincoli morali ed empatia. Fin qui certo, si può parlare solo parzialmente di trama in anticipo sui tempi, e in effetti è sul linguaggio che Thompson è avanti mezzo secolo. Quando può parlare liberamente, e in genere succede un attimo prima di uccidere la sua preda, Lou non ha limiti, come quando minaccia chi gli sta davanti di scoparlo con una pannocchia avvolta nel filo spinato che conserva per le occasioni speciali. La brutalità delle sue azioni si amplifica laddove l'autore le scatena non per impeto d'ira ma a valle di una lucida preparazione con annesso afflato liberatorio, gonfiato dalla lunga attesa, che si porta via ogni paravento pubblico e decoro morale. 

Dal romanzo nel 2010 è stato tratto un film di Michael Winterbotton con un buon cast (Casey Affleck, Jessica Alba, Bill Pullman, Kate Hudson) che non gode di buona stampa, ma che non ho avuto modo di vedere per farmi un'idea personale.

giovedì 7 marzo 2024

MFT, gennaio febbraio

ASCOLTI

Lankum, False Lankum 
John Mellencamp, Orpheus descending
Steve Earle, Jerry Jeff
Brad MehldauYour mother should know
Howard Jones, Human's lib
Howard Jones, Dream into action
Zakk Sabbath, Doomed forever forever doomed 
Idles, Tangk
Mick Mars, The other side of Mars
Pain of Truth, Not through blood
Patti Smith, Land
Saxon, Hell, fire and damnation
Sierra Ferrell, Long time coming
Grian Chatten, Chaos for the fly

Monografie/Playlist

Post Punk/New Wave 1978/1984


VISIONI


Foglie al vento (3,75/5)
La casa degli oggetti (2/5)
Margini (4/5)
The Whale (2,75/5)
Indiana Jones e il teschio di cristallo (2,75/5)
Indiana Jones e il quadrante del destino (2,75/5)
Anything else (3,5/5)
Perfect days (5/5)
Tàr (3,5/5)
Hai mai avuto paura? (3,5/5)
The holdovers - Lezioni di vita (3/5)
The creator (3,5/5)
Oppenheimer (3,75/5)
Reinfield (3/5)
The Beekeeper (2/5)
Jimmy Bobo - Bullet to the head (3/5)
Kimi - Il futuro è in ascolto (3,5/5)
Argylle - La super spia (2/5)
Dampyr (3,25/5)
L'ordine del tempo (2,5/5)
Basic (2,75/5)
La sconosciuta (3,5/5)
Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (3,25/5)
The Tranfsormes - Il risveglio (3/5)
Un uomo da marciapiede (3,75/5)
Bumblebee (3,25/5) 
Night swim (2/5)
Interstellar (3,25/5)
Io, Capitano (3,5/5)
Past lives (3,5/5)
Baxter (3/5)

















in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Tin star (2,5/5)
Succession, 3 (3,5); 4 (3,5)
True Detective - Night Country (3,25/5)

LETTURE

Emmanuel Carrère, Limonov
Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me

lunedì 4 marzo 2024

Oliver Stone, Cercando la luce (Autobiografia)


Per il sottoscritto (stavo per scrivere per quelli della mia generazione, ma non ne sono così sicuro) Oliver Stone è stato il primo regista, tra i contemporanei, di vero culto. Nel periodo che va dal 1986 (Platoon) al 1995 (Nixon) seguivo ogni suo passo artistico, anche grazie a quella che all'epoca mi sembrava (e allora forse lo era) la condivisione di un'aderenza ideale nel perlustrare e mettere in luce gli anfratti più polverosi e celati della controversa storia americana.
Con queste premesse le quasi seicento pagine di Cercando la luce non potevano per me rappresentare un ostacolo, al contrario erano un invito ad una rimpatriata con un vecchio amico, quasi la chiusura di un cerchio, se non il saldo di un debito di riconoscenza.
Mi piace pensare che allo stesso Stone la scrittura sia servita ad una sorta di riconcilio con il suo passato, dato il grande spazio concesso alla narrazione della vita dei suoi genitori (papà militare che durante la seconda guerra mondiale conosce la mamma in Francia), delle loro debolezze, delle assenze, dei tradimenti, fino al divorzio.

Il giovane Stone passa da un'esperienza "estrema" all'altra fino alla svolta di arruolarsi per il Viet-Nam, decisione che, come noto, condizionerà pesantemente la sua vita fino a quando, tornato a casa, non deciderà di tentare, inizialmente come sceneggiatore, la strada del cinema. 
Anche qui, molte sono le pagine dedicate ai suoi primi tentativi, fino alle affermazioni degli script di Fuga di mezzanotte, Conan il barbaro e Scarface che fecero di Oliver uno degli sceneggiatori più ricercati di Hollywood, e, pur tuttavia, i soggetti a cui lui più teneva, Platoon e Nato il quattro luglio, restavano imprigionati in un limbo di false speranze e cocenti delusioni in merito alla loro realizzazione, passando da un produttore (sono al vetriolo le parole usate dal regista nei confronti di Dino De Laurentis) all'altro senza riuscire mai a vedere la luce. 
Nel frattempo Stone esordisce come regista con l'atipico horror La mano e, soprattutto, inizia il primo dei suoi set realmente pericolosi e avventurosi, rappresentato da Salvador, film che a lungo andare ottiene un buon riscontro. 

Finalmente, dopo più di una peripezia, con risorse economiche incerte e più volte sforate, usando un cast di (all'epoca) perlopiù semi-sconosciuti, Oliver riesce a realizzare il suo sogno, ovvero portare sullo schermo, con Platoon, la sua personale esperienza in Viet-Nam, romanzandola e rendendola più brutale nella caratterizzazione di qualche personaggio (il tragico dualismo Dafoe/Berenger) per meglio esprimere la classica dicotomia tra bene e male.
L'ossessione per questo film è il fulcro dell'autobiografia, ma è anche il suo limite. O almeno lo è per me, che cerco, in queste operazioni letterarie, analisi, racconti, storie dietro la realizzazione di opere con cui sono cresciuto, per certi versi mi sono formato. Qui non mancano davvero, ma solo per i primi titoli (l'esperimento di Seizure, La mano, Salvador e, appunto Platoon). Il libro si chiude in quella fase storica, con i successi e gli Oscar, lasciandomi a bocca asciutta per tutto ciò che il regista realizzerà a seguire: Wall Street, Nato il quattro luglio, The Doors, JFK, Nixon, ma anche i "minori" Talk Radio e Tra cielo e terra, il controverso (per le polemiche con Tarantino) e schizoide Natural born killers, il gran colpo di coda di Ogni maledetta domenica.

Ad ogni modo lettura senza dubbio consigliata ai cinefili, nel personale auspicio di un seguito.


lunedì 26 febbraio 2024

Recensioni capate: The holdovers


Comincio a pensare che, col tempo, io mi sia piuttosto indurito (nei sentimenti) e non escludo di essere diventato un pò cinico. Si spiegherebbe così la ragione per cui non ha fatto breccia un film strappalacrime come The whale e perchè, pur avendola trovata una pellicola gradevole, natalizia per certi versi, non abbia raggiunto nessuna epifania per questo acclamato The holdovers. Anche qui prima i lati positivi del titolo: la prova del trio Giamatti/Sessa/Randolph (con Paul e Da 'Vine Joy in pole position per l'Oscar) senza dubbio rimarchevole. Poi la critica al sistema delle classi americano, che non guasta mai. Infine alcuni dialoghi efficaci e divertenti. Il tutto però, a mio modo di vedere non bilancia l'elemento narrativo di The holdovers: il plot visto e rivisto di un personaggio scorbutico che in realtà (accenno di spoiler) ha un cuore d'oro e si redime attraverso il sacrificio finale. Da Alexander Payne, regista soprattutto del cattivissimo Election, ma anche di Atlantic City,  era forse lecito aspettarsi qualcosa di più corrosivo. Alla fine ha sempre ragione Sir Alfred quando affermava che la ricetta per un buon film è composta di tre elementi: "sceneggiatura, sceneggiatura e sceneggiatura". 

lunedì 19 febbraio 2024

John Mellencamp, Orpheus descending (2023)

 


Album numero venticinque per uno dei beniamini di Bottle of Smoke. Chiedo scusa in anticipo se mi perdo spesso in paralleli tra artisti accumunati da un'affinità stilistico/anagrafica, tuttavia anche in questo caso, in premessa, mi piace ribadire quanto apprezzi la scelta coerente dell'artista di "accettare" serenamente il peso degli anni (John è del '51) e pertanto di smarcarsi dalle pose da rock mainstream che lo avevano a lungo caratterizzato a partire dagli ottanta. C'è peraltro da sottolineare come questo processo di maturazione sia in atto da tempo, ma è negli ultimi due tre lustri che ha raggiunto una stabilità per conto mio davvero apprezzabile. 

Certo, detto della condivisione in relazione alla direzione artistica assunta (l'opposto di Springsteen, non si fosse capito) poi ci devono comunque essere i contenuti. Come per i film, il messaggio è importante ma la messa a terra dell'opera necessita anche di altro. Ed è proprio questo il caso di specie, il difetto in cui a volte cade Mellencamp, per fortuna, in questo disco, solo per una manciata di canzoni. 
Orpheus descending si apre, se vogliamo, anche con una modalità coraggiosa, in questi tempi trumpiani e di dittatura dello "skip" facile, sparare subito tre composizioni che vanno dritto per dritto contro la situazione sociale americana: la povertà diffusa, l'ascensore sociale inesistente, l'assenza di possibilità concrete nella "land of opportunity", può non essere esattamente popolare. Quindi voto dieci al messaggio, molto meno alle leve usate per veicolarlo (testi e musica) che appaiono, ad esempio per The eyes of Portland un pò troppo paternalistiche, quasi fossero le analisi fatte da un borghese che esce sconvolto da un giro nei bassifondi. Questo, sia chiaro, senza voler mettere in dubbio l'onestà intellettuale e l'autentico afflato sociale di JM, che di questi temi canta da Pink houses, del 1983.

Ma, e qui sta la buona notizia, l'album cresce, e molto, addentrandosi nella tracklist, se fosse un vinile direi in coincidenza con il lato B, aperto dalla title track. Da quel momento inizia un'altra e ben più convincente storia. Orpheus descending è un grande pezzo stonesiano, ruvido e graffiante, a seguire Understated reverence, forse l'unica ballata solo voce, piano e violino mai registrata dall'artista, è qualcosa di abbagliante, tanto celebra la "nuova" voce sofferta, rauca, notturna dell'autore di Lonesome Jubilee
Lightning and luck salda il nuovo Mellencamp con il vecchio, mettendo assieme un refrain identitario con l'attuale approccio rilassato, mentre Perfect world (omaggio di Springsteen) evita i clichè del Bruce a corto di idee degli ultimi lustri, risultando anch'essa più che positiva.

Un disco buono, a tratti ottimo, le cui atmosfere evocative ed affascinanti devono molto alla mai troppo celebrata Lisa Germano e al suo incantevole violino. 


lunedì 12 febbraio 2024

Recensioni capate: The whale (2023)


Charlie è un professore di lettere che tiene corsi di laurea in modalità remota. A seguito della morte del suo compagno, decide più o meno consapevolmente di lasciarsi morire. Scivola in una condizione di obesità patologica che lo imbarazza (non incontra estranei e durante le lezioni on line tiene la propria fotocamera spenta) e che, soprattutto, gli provoca frequenti attacchi cardiaci. E' assistito dall'infermiera Liz che lo accudisce con affetto e autorità. Ha una figlia adolescente, Ellie, con cui cerca di recuperare il rapporto, spezzatosi da quando  ha deciso di vivere a pieno la sua relazione sentimentale con un uomo, lasciando la famiglia.

Non lo volevo vedere, questo film. Lo ammetto, sono prevenuto sulle produzioni hollywoodiane in cui attori normodotati interpretano le disabilità con abbrivio nella corsa all'Oscar. Ne ho visti a sufficienza per alimentare i miei pregiudizi a causa di narrazioni basate alla fine sempre su pietismo e ricerca dell'empatia con il pubblico unicamente attraverso la leva della commozione a buon mercato. Dopodichè resto sempre un gran incoerente (oltre che un appassionato cinefilo), e quindi, nell'ambito del recupero di alcuni film mainstream del 2023, l'ho messo sotto. E purtroppo le mie perplessità hanno trovato conferma.

Non che il film sia inguardabile, tutt'altro. La regia di Aaronfsky e la scelta di trasmettere ulteriore angoscia e claustrofobia attraverso l'uso del formato 4:3 rendono efficace la trasposizione del soggetto rispetto all'origine teatrale, almeno a livello di estetica. Bene poi il focus sul tema poi dell'obesità, probabilmente una delle patologie per noi tutti più respingenti, e verso la quale si colpevolizza maggiormente chi ne soffre, così come la critica sul sistema sanitario americano o il radicalismo di alcune organizzazioni religiose, e pur tuttavia è quello che in ultima analisi alza il livello di una pellicola (sceneggiatura, dialoghi, recitazione) che mi ha lasciato perplesso. 

Parto necessariamente da lui, Charlie/Brendan Frasier (Oscar, va da sè, tutti a dire bravissimo, io continuo a pensare che questi ruoli siano più "semplici" da interpretare di altri) in odore di santità: un personaggio paziente, educato, colto, disponibile e altruista fino all'estremo sacrificio. E che cazzo, perchè non farlo anche camminare sulle acque o volare (e in effetti...)?!? 
E poi c'è Ellie, la figlia, presentata come disadattata a causa del dolore inferto dall'abbandono paterno ma fatta interpretare da un'attrice (Sadie Sink) che non rimanda proprio alcuna condizione di disagio ed è quindi costretta a forzare sull'interpretazione e sui comportamenti da stronza (anzi no, genio incompreso) che compie in continuazione. 

Così gli aspetti positivi cui accennavo in precedenza, vale a dire la critica alla società americana, la morale ultra-cattolica e il disgusto che provoca in molti la sola vista di persone obese, ne escono ridimensionati. E anzi, la contro-morale che il film ci impartisce, laddove sembra quasi che la scelta di Charlie di abbandonare moglie e figlia piccola per vivere la sua relazione d'amore omosessuale sia, nell'ottica degli autori, più giustificabile, sostenibile e legittima che nel caso di tradimento per un'altra donna, arriva ad essere financo un pò fastidiosa. L'assioma, che si regge sul coraggio che questa scelta ha di andare contro, sfidare le convenzioni pubbliche  avrebbe avuto un grande senso negli anni cinquanta, oggi, insomma, direi di no. 

Che dire? Il mio bel pianto me lo sono anche fatto, ma that's all.

lunedì 5 febbraio 2024

Steve Earle, Jerry Jeff (2023)



Mi sono perdutamente innamorato di Steve Earle nella seconda fase della sua lunga vita artistica, quella, per intenderci, che segue gli affanni dovuti dalla tossicodipendenza e i problemi con la giustizia (quando, per usare le sue parole, lo hanno arrestato perchè "aveva colpito il manganello dei polizotti con la faccia"), il decennio da Train a coming (1995) a The revolution starts now (2004). Un periodo in cui, secondo me, il nostro ha saldato in maniera originale country, folk, blugrass, rock, blues e persino grunge, in maniera credibile e personale. 
L'attuale momento, che a mio avviso, dopo un buon album di transizione (Washington square serenade) inizia con Townes nel 2009, ci consegna un Earle perlopiù bucolico, impegnato a tramandare le tradizioni della old music americana (principalmente folk e country/blugrass) anche attraverso album monografici di tributo, senza rinunciare qua e la al suo afflato polemico contro l'establishment e il capitalismo USA.
Massimo rispetto dunque.

Tuttavia difficilmente questo Steve Earle avrebbe fatto così prepotentemente breccia nei miei gusti. I dischi sono tutti formalmente impeccabili, ma a volte si fatica a distinguerne uno dall'altro, nonostante l'immutata capacita di songwriting dell'autore di John Walker's blues. Anche in questo caso (il disco è dedicato alla memoria di Jerry Jeff Walker) non è che ci si possa lamentare di pezzi rispettosi delle tradizione rurali come Gettin' by; Gipsy songman o I makes money (money don't make me), o di classiche ballate acustiche come My little bird o My old man, ma insomma se le antenne si rizzano quando si cambia un pò canone con Hill country rain o con l'evocativo blues solo armonica e voce Old road, un motivo ci sarà pure. 

giovedì 1 febbraio 2024

Playlist consuntivo 2023 (5/5): metal

Eccoci alla vera impresa: stilare una playlist consuntiva annuale di musica estrema, dacchè, come per il buco del culo, in questo campo ognuno ha il suo (gusto) che si differenzia da quello degli altri.
Io ci ho messo un pò di tutto, dalle cose più nostalgiche che si cagano solo gli anziani miei coetanei, al nu nu metal, al death, al black che, paradossalmente, oggi è il (sotto)genere che più riesce ad interessare gli appassionati non metallari. Incredibile, se si pensa a quanto fosse settario e respingente ai tempi dei suoi primi, autenticamente spaventosi, vagiti.

01. Marduk, Blood of the funeral
02. In Flames, Meet your maker
03. Overkill, Scorched
04. Autopsy, Rabid funeral
05. L.A. GunsDiamonds
06. Periphery, Atropos
07. DodheimsgardDet tomme kalde morke
08. The Winery Dogs, Mad world
09. Prong, The descent
10. Cannibal Corpse, Blood blind
11. WayfarerA high plans eulogy
12. Johnny Booth, Full tilt
13. Extreme, Banshee
14. Fake Names, Delete myself
15. Veil of Maya, Godhead
16. Mudhoney, Little dogs
17. Svalbard, How to swim down
18. King Gizzard & The Lizard Wizard, Gila monster
19. Haken, Lovebite
20. Horrendous, Ontological mysterium
21. KerriganEternal fire
22. Majesties, The world unseen
23. Cirith Ungol, Velocity
24. Hell in The Club, Sidonie
25. Baroness, Last word
26. Insomnium, Godforsaken
27. Sleep Token, The summoning
28. Jesus PieceAn offering to the night
29. Vomitory, All heads gonna roll
30. Graveyard, Breath in breath out
31. Uriah Heep, Hurricane
32. Katatonia, Birds
33. Winger, Tears of blood
34. Steel Panther, Friends with benefits
35. Avenged Sevenfold, Nobody
36. Immortal, Wargod
37. Tesseract, Legion
38. Last in Line, Ghost town
39. Invent Animate, Without a whisper
40. Currents, Remember me
41. Humanity's Last Breath, Instill
42. Dying Fetus, Unbriedled fury
43. Avatar, The dirt I'm buried in
44. HEALT, Ashamed
45. Church of Misery, Freeway madness boogie
46. Heimdall, Hephaestus
47. Secret Sphere, Blackned heartbeat
48. Incantation, Concordat (The pact) I
49. Midnite City, Hardest heart to break
50. Metal Church, Pick a god and prey
51. Sacred Outcry, The flame rekindled
52. Godflesh, Land Lord
53. Code Orange, Take shape
54. Cattle Decapitation, A photic doom
55. Within Temptation, Bleed out
56. Fires in The DistanceIdiopathic despair



lunedì 29 gennaio 2024

Margini (2023)

 


I Wait for nothing sono un gruppo HC punk ahi loro, non di Detroit ma di Grosseto. La band, composta dagli amici Michele, Edo e Iacopo, nonostante le frustranti difficoltà di esibirsi o anche solo trovare uno spazio per le prove, decide di concedersi una botta di vita organizzando un concerto per un grande nome americano (i Defense) cui fare da opener, sperando così, in termini di visibilità, di beneficiare della prevista grande affluenza di pubblico. 

Immagino non sia complessivamente semplice fare un film così, sugli struggimenti di un gruppo che fa musica intransigente, politicizzata, urticante e fuori moda, nella sonnacchiosa provincia italiana. Non è semplice dal punto di vista produttivo, visto lo stato del nostro cinema, e non è banale dal punto di vista "ideologico", sarebbe stato infatti un tradimento riuscire a realizzare Margini senza però rispettare concettualmente la disciplina straight edge di un genere che è anche uno stile di vita. Il film supera di slancio entrambe le difficoltà. Gli ideatori Niccolò Falsetti (anche regista) e Francesco Turbanti (il protagonista Michele) mettono in scena qualcosa di credibile proprio perchè autenticamente calato in un territorio e una realtà musicale che ben conoscono, in quanto già membri di un gruppo punk, i Pegs, che si è misurato continuamente coi problemi (di provincialismo, budget, strumentazione, location) raccontati nel film.

Al netto di una sceneggiatura validissima che elude gli abusati clichè cinematografici (a titolo esemplificativo cito la conclusione della sequenza in cui Iacopo siede sulla panchina della stazione indeciso se mollare gli altri e partire o restare per il concerto)  e dialoghi convincenti, verosimili, l'arma in più del film è la capacità di intrecciare uno stile di vita che si vuole irriducibile con un'ipocrita parassitismo familiare dei due protagonisti, uno mantenuto da mamma e compagno, l'altro dalla moglie. Una contraddizione espressa magnificamente in un sola linea di dialogo, quella che Edo rivolge alla mamma chiedendole preoccupato se abbia stirato la maglietta dei Discharge: un cortocircuito geniale tra un modello di ribellismo punk e un pò di bamboccionismo. 

Bravissimi, perchè credibili, tutti i personaggi, a partire dalla band: Michele (Francesco Turbanti), Edo (Emanuele Linfatti) e Iacopo (Matteo Creatini). Menzione d'onore per il ruolo sopra le righe ma divertentissimo del titolare della discoteca Eden nonchè compagno della madre di Edo, Nicola Rignanese. 

Da rimarcare infine come  il film sia stato entusiasticamente "approvato" dall'ampio sottobosco di band punk/hardcore italiane, che hanno composto la colonna sonora e permesso l'utilizzo dei propri brani, dai seminali Negazione a Klaxon, Gli Ultimi, i Rappresaglia, gli stessi Pegs e i Payback, che nella pellicola interpretano gli americani Defense.

Se non si fosse capito, un autentico, insperato gioiellino.

giovedì 25 gennaio 2024

Playlist consuntivo 2023 (4/5): la roba di tendenza

Scusa per il titolo sciatto, ma insomma sì, a sto giro è il turno della musica che, oltre a piacere a me, raccoglie riscontri e consensi nelle classifiche di fine anno delle riviste e dei siti più cool, autorevoli e seguiti. Con qualche eccezione/incoerenza.

01. Mitski, Bug like an angel
02. Shame, Fingers of steel
03. Anohni and the Johnsons, It must change
04. Pere Ubu, Love is like gravity
05. Puma Blue, Falling down
06. Caroline Polachek, Welcome to my island
07. Algiers, Irreversible damage
08. Lucio Corsi, Astronave giradisco
09. Creeper, Cry to heaven
10. Grave Pleasures, Heart like a slaughterhouse
11. Bar Italia, Nurse!
12. Billy Woods & Kenny Segal, Soft landing
13. Blur, St. Charles square
14. The Armed, Liar 2
15. Yo La Tengo, Sinatra drive breakdown
16. Deli, Ice spice
17. Kara Jackson, Dickhead blues
18. Swans, Los Angeles city of death
19. PJ Harvey, Lwonesome tonight
20. Noname, Balloons
21. Olivia Rodrigo, Bad idea right
22. P.I.L., Car chase
23. The Murder Capital, Return my head
24. Paramore, Running out of time
25. Sufjan Stevens, Will everybody ever love me
26. Kali Uchis, Moonlight
27. Fever Ray, Kandy
28. VV, Loveletting
29. Poppy, Spit
30. Gorillaz, Silent running
31. Dream Wife, Social lubrification
32. SZA, Kill Bill
33. Squid, The blades
34. Clock DVA, The simulacra
35. Wednesday, Chosen to deserve
36. Aamarae, Reckless & Sweet
37. Karma, Atlante
38. Meshell Ndeogeocello, Clear water
39. Yves Tumor, Heaven surrounds us like a hood
40. Jungle, Back on 74
41. Lana Del Rey, Candy necklace
42. Corinne Bailey Rae, New York transit queen
43. Boygenius, Not strong enough
44. Cherry Glazzer, Ready for you
45. Durand Jones, That feeling
46. Rick Astley, Forever and more
47. Roisin Murphy, Fader
48. Slowdive, Kisses
49. Bachi da Pietra, Nel mio impero
50. Lankum, The New York trader
51. Young Fathers, I saw
52. Troye Sivan, One of your girls
53. Zulu, From tha gods to earth
54. Grian Chatten, Fairlies



lunedì 22 gennaio 2024

Perfect days (2024)


Hirayama si occupa della pulizia dei tecnologici bagni pubblici di Tokyo. Svolge il suo lavoro con diligenza e abnegazione e la sua vita gira attorno alla ripetizione di riti e azioni quotidiane che gli conferiscono una placida serenità di spirito che si riflette anche sulla percezione che gli altri hanno di lui.

Attraverso l'esistenza apparentemente malinconica di Hirayama, Wenders ci conduce dentro un Giappone alternativo a quello della metropoli spietata e frenetica, che scopriamo essere solidale, fatto di cose piccole ma dall'enorme valore, una parola di consolazione, un bicchiere d'acqua gelata "alla fine di una dura giornata di lavoro", un sorriso, una canzone improvvisata quando qualcuno imbraccia una chitarra. Un film emozionante, autenticamente emozionante perchè raggiunge e inonda l'anima senza ricorrere a pietismi o scorciatoie piagnone, anzi. 
Se ti raccontassero di una persona di mezz'età che vive in solitudine nella parte povera di Tokyo svolgendo l'attività di addetto alle pulizie dei bagni pubblici, non potresti mai pensare ad un racconto così pieno di umiltà, armonia, empatia con l'universo e gioia di vivere, dalla sveglia prima dell'alba, "attivata" dal rumore di un anziano che pulisce la strada con una scopa di saggina, via via lungo una consolidata routine apparentemente sempre uguale, che si conclude con la mano che spegne la luce di una abat-jour dopo la lettura di un libro.

Per una volta i claim che potete leggere sulla locandina sono autentici e veritieri, Perfect days è un film che ipnotizza, dolcemente, aggiungo io, e davvero, non vorresti mai togliere gli occhi dallo schermo, fino all'indimenticabile piano sequenza finale sulle note di Feeling good di Nina Simone. Perchè sì, questo è anche un film imperniato sull'arte (letteratura, fotografia) e sulla musica, sulla forza della musica, con una colonna sonora che, essendo tutta in modalità diegetica, diventa spesso argomento di dialogo, nel furgoncino di Hirayama, tra il protagonista e l'occasionale passeggero.
E pur trattandosi tendenzialmente di brani arcinoti e magari un pò sputtanati, quali  ovviamente Perfect day di Lou Reed, The house of rising sun (The Animals) Sunny afternoon (The Kinks),  Brown eyed girl (Van Morrison), Redondo beach (Patti Smith),  Pale blue eyes (Velvet Underground) (Sitting on ) the dock of the bay (Otis Redding) , la messa in scena gli restituisce intatta tutta la forza dirompente della prima volta.

Occhio, perchè dal 4 gennaio può già essere nelle sale il film dell'anno.

ME-RA-VI-GLIO-SO.


giovedì 18 gennaio 2024

Playlist consuntivo 2023 (3/5): "classic rock"

Certo, qualunque cosa "classic rock" voglia dire. Nulla probabilmente. Un'etichetta come tante per porre la musica su uno scaffale. Tuttavia, giusto per capirci, l'elenco spazia dal folk al blues al prog all'americana, ai grandi vecchi e ai giovani che suonano come i grandi vecchi, a tutto ciò che in qualche maniera prende il bersaglio grosso del rock. 

Country, metal, la roba trendy e indie/pop tendenzialmente no, per quelli ci sono/ci saranno appositi post.

01. Nils Lofgren, Ain't the truth enough
02. Ian Hunter, Defiance
03. Foo Fighters, Rescued
04. Neil Young, When I hold you in my arms
05. The Struts, Too good at raising hell
06. Iris DeMent, Workin' on a world
07. The Hives, Countdown to shutdown
08. Ann Wilson,This is now
09. DeWolff, Heart stopping kinda show
10. Steve Earle, Hill country rain
11. Gov'T Mule, Shake our way out
12. Iggy Pop, Strung out Johnny
13. Peter Gabriel, Love can heal
14. Black Star Riders, Better than saturday night
15. Greta Van Fleet, Meeting the master
16. Paul Simon, My professional opinion
17. Skindred, Set Fazers
18. U2, Two hearts beat as one (versione 2023)
19. Steve Wilson, What life brings
20. Therapy?, Joy
21. Lucero, Buy a little time
22. Alice Cooper, Dead don't dance
23. Wilco, Evicted
24. Cowboys Junkies, What I lost
25. The Cold Stares, Nothing but the blues
26. Rival Sons, Rapture
27. Duane Betts, Saints to sinners
28. Joe Perry, Sick & tired
29. Those Damn Crows, This time I'm ready
30. Queens Of The Stone Age, Carnevoyeur
31. Duran Duran, Danse macabre
32. Lucinda Williams, Rock 'n' roll heart
33. Ben Harper, Trying not to fall in love with you
34. Van Morrison, Worried man blues
35. Yes, Circles of time
36. Dirty Honey, Can't find the brakes
37. Jethro Tull, Ginnungagap
38. The Pretenders, Let the sun come in
39. Duff McKagan, Longfeather
40. Robert Finley, Nobody wants to be lonely
41. The Record Company, Dance on mondays
42. John Mellencamp, One more trick
43. Dolly Parton, What has rock and roll ever done for you
44. Metallica, Too far gone? 
45. The National, Your mind is not your friend
46. The Rolling Stones, Sweet sounds of heaven



lunedì 15 gennaio 2024

Dirty Honey, Can't find the brakes (2023)



I Dirty Honey si formano nel 2017 a Los Angeles ed immediatamente fanno convergere su di sè l'attenzione del pubblico e della critica, al punto che il loro EP di esordio (st) fa subito il botto, portando al numero uno il singolo When I'm gone
Can't find the brakes è il loro secondo full-lenght, e fissa ulteriormente la cifra stilistica della band, che non propone nulla di nuovo ma lo fa magnificamente. Muovendosi sullo spartito tracciato da antesignani vicini e lontani come Aerosmith, The Black Crowes, Gov't Mule e Lynyrd Skyrd, i Dirty Honey riempiono di contenuti una proposta che comunque resta pregna di sleaze. Mi si dirà che si tratta di ingredienti mandati a memoria, in quest'epoca di retromania, da innumerevoli chef/artisti, ma, e qui sta il plus, solo per una ristretta cerchia di musicisti creare melodie, raccordi e refrain infallibili è facile come respirare.

Can't find the brakes (titolo strepitoso, ca va san dire), consta di undici tracce e tendenzialmente puoi partire da qualunque di essa e venirne catturato all'istante, per come è incapace di contenere filler. Tanto vale allora seguire la tracklist così come è stata composta: Don't put out the fire è la migliore opener possibile, Won't take me alive è il pezzo che gli Aerosmith vorrebbero saper ancora fare, e via via Dirty mind, la prima ballata Coming home, la title track. 
E' proprio inutile impostare la recensione su un track to track visto il valore complessivo dell'opera. Un album per cui forse trova un senso l'etichetta abusata di classic rock fuori dal tempo.

Solo qualche anno fa sarei impazzito per un disco così (e magari l'8 marzo sarei stato in prima fila all'Alcatraz per vederli). 

giovedì 11 gennaio 2024

Playlist consuntivo 2023 (2/5) : Jazz

Stesse regole del plailistone country. Decisamente meno titoli di quell'elenco, sebbene la durata complessiva rischi di essere tendenzialmente la medesima. Ho cercato di essere trasversale ai generi, dal modale allo sperimentale, dal purismo strumentale al cantato, dal sax alla batteria alla chitarra al piano. Spero di esserci riuscito.

01. Lakecia Benjamin, Trane
02. Gretchen Parlato, Lean in
03. Joe Lovano Trio, Our daily bread
04. Cecile McLorin Salvant, La route enchantee
05. Brad Mehldau, Golden Slumbers
06. Chris Potter, Got the keys to the kingdom
07. Jason Moran, From the dancehall to to the battlefield
08. John Scofield, Mr Tamburine man
09. Wolfgang Muthspiel, Dance of the elders
10. Yussef Dayes, Chasing the drum
11. Jamie Branch, Take over the world
12. Fred Hersch & Esperanza Spalding, Some other time
13. Ambrose Akinsimure, Weighted corners
14. Fire! Orchestra, ECHOES: A lost farewell



lunedì 8 gennaio 2024

Playlist consuntivo 2023 (1/5): country

Le mie preferite tracce country del 2023, tra mainstream (poco) e true/indipendente (tanto). La lista è nell'ordine in cui la suono io, e quindi non è una classifica, tuttavia in grassetto sono evidenziati i miei preferiti, di cui ti suggerisco il recupero dell'intero album (nel caso di Sierra Farrell - foto sotto -  quando uscirà il nuovo).

01. Sierra Farrell, Fox hunt (single)
02. Margo Cilker, Lowland trail
03. Gabe Lee, Merigold
04. Tony Logue, Thundertown
05. Chris Stapleton, Starting over
06. Jake Worthington, State you left me in
07. Ward Davis, Day one
08. Mamma Coal, Dance hall crush
09. Wyatt Flores, Orange bottles
10. Amanda Fields, 2 steppin'
11. Turnpike Troubadours, Brought me
12. Lori McKenna, Happy children
13. Cody Johnson, Long live country music
14. Summer Dean, She ain't me
15. Marty Stuart, Time to dance
16. Asley McBryde, Light on in the kitchen
17. Colter Wall, Corralling the blues
18. Daniel Donato, Hi-Country
19. Charles Wesley Godwyn, Miner imperfections
20. Elle King, Lucky
21. Pony Bradshaw, Holler rose
22. Brennen Leigh, I ain't through honky tonk
23. The War and the Treaty, Yesterday's burn
24. Willy Lea Taylor, Bakersfield
25. Dierks Bentley, Gold
26. The Wilder Blue, The line
27. Megan Moroney, Tennessee orange
28. Nick Shoulders, Won't fence us in
29. The Steel Woods, You don't even know who I am
30. Chase Rice, Bad day to be a cold beer
31. Ray Scott, Billboard & brake lights
32. Vince Gill, Kissing your picture
33. Brent Cobb, When country came back to town
34. William Prince, Easier and harder
35. Emily Ann Roberts, Out of sight
36. Joe Stamm Band, Dollar general sign
37. Ernest, Flower shops
38. Riley Green, Different 'round here
39. Jason Isbell, White Beretta
40. Luke Combs, Love you anyway
41. The Malpass Brothers, Road of memories
42. Aaron Watson, 9 to 5
43. Caitlyn Smith, Lately
44. Those Poor Bastards, Heaven's for the poor
45. Zach Bryan, I remember everything



mercoledì 3 gennaio 2024

MFT, novembre e dicembre 2023

ASCOLTI (2023, eccetto dove indicato)

Karma, K3
Cecile McLorin Salvant, Melusine
Dream Wife, Social lubrification
Lucio Corsi, La gente che sogna
Cherry Glazerr, I don't want you anymore
Grave Pleasures, Plagueboys
Geolier, Il coraggio dei bambini
Sierra Ferrell, Long time coming
Lankum, False Lankum
The Murder Capital, Gigi's recovery
Peter Gabriel, I/O
Jamie Branch, Fly or die fly or die
Wayfarer, American gothic
The Gaslight AnthemHistory books
The Rolling StonesHackney diamonds
Brad MehldauYour mother should know
Code OrangeThe above
Those Poor BastardsGod awful
F.E.A.R., The record (1982)
John Mellencamp, Orpheus descending
Bachi da Pietra, Accetta e continua
Satyricon, Nemesi divina (1996)
Turnpike Troubador, A cat in the rain


VISIONI

Salvador (3,75/5)
Locked in (2/5)
Uno dovrà morire (2,25/5)
Killers of the flower moon (3,5/5)
Reptile (3,25/5)
Talk to me (3,75/5)
Spider-Man - Across the Spider-Verse (4/5)
Diabolik - Ginko all'attacco! (3,25/5)
Babadook (3,75)
Hypnotic (2,75/5)
Trespass (2,25/5)
Anatomia di una caduta (4/5)
Humandroid (3,75/5)
Deathwatch - La trincea del male (3,5/5)
Deliria (3,5/5)
The killer (2023) (3,5/5)
Billionaire boys club (2/5)
Misterioso omicidio a Manhattan (3,75/5)
Dream scenario - Hai mai sognato quest'uomo? (3,75/5)
Bullhead - La vincente ascesa di Jackie (3,75/5)
Muori papà, muori! (3,5/5)
Silent night (2023) (3,75/5)
36 Quai des orfèvres (3,75/5)
The informer - Tre secondi per sopravvivere (3,5/5)
The manchurian candidate (2,75/5)
Parenti serpenti (4/5)
Domino (2005) (2,75/5)
Excalibur (3,5/5)
The heist - Il colpo (3,5/5)
Diabolik, chi sei? (3,75/5)
Mariti e mogli (4/5)
I peggiori giorni (2/5)
Magic in the moonlight (3/5)
Colpo di fortuna - Coup de chance (3,5/5)
Tre di troppo (2/5)
Adagio (4/5)
Frankstein (1931)  (5/5)

in grassetto i film visti al cinema

Visioni seriali

Top Boy, 1 (3,5/5)
Everybody loves diamonds (2,75/5)
La terapia (3/5)
Monterossi, 2 (3,25/5)


LETTURE

Jim Thompson, L'assassino che è in me (audiolibro)
Oliver Stone, Cercando la luce
Gerorges Simenon, L'uomo che guardava passare i treni
Emanuel Carrere, Limonov (audiolibro)

lunedì 25 dicembre 2023

Recap + Playlist sciuè sciuè di fine anno (un pò christmas un pò no)

Vorrei ammantarmi di grande virtù morale e sostenere che la sospensione di pubblicazioni sul blog rispondeva ad un periodo di lutto dovuto al trapasso dell'ispiratore di tanti momenti della mia vita ed anche di questo piccolo spazio di scrittura (sì, mi riferisco a mr. MacGowan), ma in realtà queste abbondanti tre settimane di assenza sono dovute al saldarsi di periodi di super lavoro con problemi di salute, che hanno prodotto una disaffezione alla scrittura o anche solo all'idea di postare qualcosa. Ci sono già passato e fu una condizione transitoria, vediamo quanto lo sarà stavolta. Buone feste.

01. A Flock of Seagulls, I ran (so far away) (1982)
02. The Jon Spencer Blues Explosion, Bellbottoms (1994)
03. Ben Vaughn, Dressed in black (1990)
04. Tom Waits, Christmas cards from hooker in Minneapolis (1978)
05. Health, Blue monday (Atomic Blonde OST, 2017)
06. Turnpike Troubadours, Brought me (2023)
07. Twisted Sister, Deck the halls (2006)
08. Kaleida, 99 luftballons (Atomic Blonde OST, 2017)
09. Bob Dylan, It must be Santa (2009)
10. Peter Gabriel, The court (2023)
11. Miles Davis, Larry Carlton, David Sanborn, Paul Shaffer, We three kings of Orient are (1988)
12. AC/DC, Mistress for Christmas (1990)
13. The Ramones, Merry Christmas (I don't wanna fight tonight) (1987)
14. Sinèad O' Connor with Shane MacGowan, Haunted (1995)
15. Trans-Siberian Orchestra, Carol of the bells (2015)
16. Amparo Sanchez, Corazòn de la realidad (2009)
17. Altan, Drowsy Maggie/Rakish Paddy/Harvest storm (1992)
18. Boz Scaggs, Lowdown (1976)
19. David Bowie, Always crashing in the same car (1977)
20. Raul Malo, I said I love you (2001)
21. Babes in Toyland, Handsome and Gretel (1991)
22. Danger Mouse feat. Run The Jewels and Big Boi, Chase me (Baby Driver OST, 2017)
23. Lankum, Go dig my grave (2023)
24
. Afghan Wigs, Debonair (1994)
25. Billy Joel, Souvenir (Live at Carnegie Hall, 1977)


venerdì 1 dicembre 2023

Codladh samh, Shane.

Shane MacGowan è morto. Ha deciso di farlo proprio nel periodo dell'anno in cui, ciclicamente, i Pogues affermano la loro postuma, ironicamente sadica, vittoria sulla società consumistico-capitalistica, grazie all'incomprensibile inclusione di Fairytale of New York in tutte le playlist sparate in ogni dove, da Spotify ai grandi mall. E ogni volta, in mezzo a Dean Martin e Frank Sinatra, ad una Let it snow e una All I want for Christmas is you, sogghigno di soddisfazione quando arrivano i nostri e il testo giunge al punto in cui Shane e Kristy MacColl si scambiano affettuosi auguri, che vanno da "mantenuto, teppista", a "vecchia puttana drogata morente con la siringa nel braccio" per passare a "feccia, verme" e "piccolo frocio da quattro soldi" e concludere con "buon Natale, coglione, prego Dio sia il tuo ultimo".

Questo blog ha il titolo di una canzone dei Pogues, nasce nell'attesa di un loro concerto in trasferta a Brixton. Dunque da un mio legame fortissimo con una band che nel periodo new wave ha portato una contaminazione musicale inedita, per mezzo di un collegamento tra spirito punk e musica tradizionale, riuscendo a creare un volano tra canzoni dimenticate, superate dal tempo, considerate roba da vecchi scorreggioni e la rabbia giovanile degli anni della Thatcher. Un ponte tra una terra martoriata dalla guerra civile e la riscoperta dell'isola smeraldo da parte di milioni di cittadini del mondo (italiani e francesi in testa). 

I Pogues erano una band fortemente politica, in culo ai conservatori inglesi e con una bella manciata di canzoni censurate in Inghilterra (in pratica mezza tracklist di If I should fall from grace with god)  per l'orgoglio con cui affermavano l'identità irlandese, in un periodo in cui l'IRA era attiva e operante. Una band rivoluzionaria e combattente, capitanata da un MacGowan dotato di carisma, allure, di una cultura, l'ho scritto nella recensione di "Una pinta con", che gli permetteva spontanei e frequenti riferimenti al pantheon di scrittori irlandesi, quali i noti James Joyce, l'immancabile Brendan Behan, William Butler Yeats, ma anche altri. Insomma leggi il testo di The sick bed of Cuchulainn e dimmi quanti altri avrebbero potuto scriverlo. 

Quasi ogni canzone degli anni migliori della band (1984/1990), al novanta per cento scritte da Shane, avevano miriadi di spunti politici, culturali, identitari, letterari, poetici, legati alla terra d'origine dei componenti. Shane ci racconta che dopo il terzo album (appunto If I should fall...) non ha più condiviso la direzione stilistica che ha preso la band ma si è trascinato tra assenze, ritardi e condizioni non conciliabili con tour e studi di registrazione. 

Ho avuto l'occasione di vedere i Pogues dal vivo due volte (entrambe documentate sul blog, qui e qui), nell'ambito di tour organizzati fuori tempo massimo (seconda parte anni zero) probabilmente al solo scopo di raggranellare gli ultimi spiccioli possibili, mettendo al centro dell'arena, davanti al pubblico-gladiatore, un MacGowan vittima sacrificale che barcollava, perdeva il filo delle canzoni ed era obbligato ad una pausa nel backstage ogni due-canzoni, ma che, in qualche modo, portava a termine il lavoro.

Il fisico di MacGowan era da tempo minato da patologie certamente riconducibili ad una vita dissoluta segnata da alcolismo e tossicodipendenze. In molti si stupiscono fosse ancora vivo e, al netto del cinismo, c'è da capirli. Gli ultimi segnali al mondo esterno, l'intervista al Guardian e la visita di Springsteen, erano purtroppo indizi estremamente eloquenti sull'approssimarsi dell'arrivo della triste mietitrice.  Eppure, non fosse costretto su una sedia a rotelle a seguito di una brutta caduta, questa pelle dura di irlandese scontroso forse sarebbe ancora qui a dirci di baciargli il culo e noi ad aspettare un suo ultimo disco (di cui parla anche nel memoir scritto assieme alla moglie quasi vent'anni fa), incuranti della mestizia che l'ascolto avrebbe comportato. 

Anche per noi che abbiamo sviluppato un rapporto quasi patologico con la musica, passata la giovinezza si sono diradati i casi in cui, ascoltando una melodia ci si è spalancata un'epifania, siamo stati colpiti dall'equivalente della sindrome di Stendhal per le opere d'arte. A me l'ultima volta in assoluto è successo proprio con una canzone dei Pogues. Non una di quelle più note e celebrate e se è per questo nemmeno una scritta da lui o dal gruppo. Si tratta di And the band played Waltzing Mathilda, una composizione di Eric Bogle attinente uno dei tanti massacri di guerra, nello specifico quello delle truppe australiane mandate come carne da cannone a farsi trucidare a Gallipoli, in Turchia. Il brano chiude il secondo lavoro dei Pogues, Rum, sodomy and the lash e l'interpretazione che ne dà Shane è di quelle memorabili. Così successe che qualche anno fa mi trovavo su qualche vetta verdeggiante della Valsassina, probabilmente dopo una qualche accesa discussione familiare, e, infilate le cuffie e acceso il lettore mp3, mentre camminando lo sguardo si perdeva nel verde dei monti, mi sono fanno inondare dalle note malinconiche e dalle parole cariche di disperazione di questo pezzo, fino alle lacrime. Scelgo lei dunque, anche se, probabilmente, per la vita senza compromessi e per l'irlandesità di Shane MacGowan,  The parting glass,  sarebbe sicuramente un commiato più congruo. 

In ogni caso, finchè funzionerà il camouflage natalizio di Fairytale of New York ad accompagnare il momento di massa più ipocrita dell'anno, l'ultima risata a risuonare rauca e beffarda sarà sempre quella di Shane MacGowan.