mercoledì 28 febbraio 2018

Onanistica premessa alla lista dei migliori album del 2017

Prendo la classifica delle migliori uscite dell'anno come una cosa dannatamente seria, nonostante il numero non certo stratosferico di dischi ascoltati, nonostante da questi ascolti siano esclusi i titoli universalmente considerati più caldi e nonostante abbia utilizzato troppo spesso una premessa molto simile a questa per presentarla. Già, nonostante tutto, questo è per me un momento che resta sacro ed intoccabile. 
Diamine, si può dire che ci ho aperto un blog, per scriverci la mia classifica di fine anno!

Anche il ritardo rispetto ai normali tempi di pubblicazione è un pò riconducibile alla pignoleria con la quale prendo la compilazione, non sono mai riuscito a recensire dischi nuovi dopo un'ascolto magari distratto, invidio chi ha la capacità di discernere di un'opera a valle di un processo così magmatico, ma da un certo punto di vista neanche mi va di cimentarmi nella competizione: quando si parla di selezionare dei titoli a rappresentanza dell'eccellenza mi piace che siano titoli di cui sarò in grado di ricordare qualche coordinata anche in futuro, e non che siano piazzati lì tanto per.
L'esigenza di far sedimentare un album non meno di due-tre settimane ovviamente non aiuta ad accelerare i processi di scrittura. Per me un disco uscito ad ottobre, se mi intriga, a febbraio è ancora da approfondire, figuriamoci quelli rilasciati successivamente, magari a dicembre. Poi a mettersi tra me e l'agognata lista ci sono le distrazioni causate delle charts dei blog amici o dalle varie testate musicali, siano esse cartacee o virtuali: un elemento che se da un lato mi fa recuperare fuori tempo massimo opere perse, dall'altro mi incasina ulteriormente il lavoro. 
Insomma, non c'è da meravigliarsi se, a queste condizioni, si arrivi al sofferto ma felice parto a 2018 inoltrato.

Comunque sia, ci siamo: dopo la recensione dei Converge di lunedì 26 febbraio (che chiude formalmente la competizione), venerdì 2 marzo pubblicherò uno speciale della rubrica 80 Minuti con le migliori canzoni dell'anno appena trascorso e lunedì 5 marzo sarà la volta della lista dei miei album più apprezzati.

Il tutto per ribadire il concetto che dopo tanti anni passati dietro a questa forma di cultura, arte e intrattenimento e nonostante famiglia e lavoro assorbano (legittimamente) la parte prevalente del mio tempo, ancora oggi, alla soglia dei cinquanta, ho l'assoluta consapevolezza che potrei fare a meno di molte cose, ma mai della musica.

lunedì 26 febbraio 2018

Converge, The dusk in us

Risultati immagini per converge the dusk in us

Correva il 2006 e l'amico blogger, nonchè perpetua fonte di ispirazione, Jumbolo, mi segnalava un gruppo del Massachusetts chiamato Converge, in occasione della loro nuova uscita, No heroes. Era l'epoca in cui nelle grandi catene di elettronica ci si poteva ancora imbattere in dischi lontani dal mainstream e infatti fu proprio in una delle mie innumerevoli scorribande nel reparto musicale di Mediaworld che mi trovai tra le mani il cd e, anche per merito di un ottimo packaging ed un prezzo popolare, lo acquistai. Ma, ahimè, la mia cultura musicale in quei giorni non era ancora abbastanza ampia e matura per apprezzare adeguatamente il cataclisma sonoro proposto dai quattro di Salem e quindi il dischetto, dopo qualche tentativo, finì malinconicamente sul mio scaffale.
Non ho più ripreso la band neanche nelle uscite successive (da allora solo due, Axe to fall nel 2009 e All we love we leave behind, del 2012), ma nel frattempo è successo che ho cominciato ad entrare nel mood del metal più estremo, approcciandone la cultura con l'ausilio di testi letterari di riferimento e abbeverandomi ai pilastri del grind, del death e del black, fino ad abituarmi a recepire anche la roba più pesa e indigesta.
Tra le mie retrospettive ad un certo punto è arrivato anche il momento di approfondire il movimento metalcore, portmanteau (termine appena imparato che volevo subito sfoggiare) dei generi metal e hardcore. A questo scopo, come faccio abitualmente, ho cominciato a spulciare articoli, post e analisi del movimento, trovandomi di fronte quasi sempre alla medesima conclusione: i Converge, con il loro Jane Doe del 2001 hanno posto sostanzialmente i semi per tutto il metalcore a venire. Da lì a recuperare questa pietra miliare (magari ne parlerò, prima o poi) e dedicare il tempo che meritava al loro nuovo lavoro, ca va sans dire, il passo è stato fulmineo.

La band, dal 1999 consolidata attorno al nucleo composto dal singer Jacob Bannon e il chitarrista/produttore Kurt Ballou, membri fondatori, assieme al bassista Nate Newton e il batterista Ben Koller, arriva a questo The dusk in us con la consolidata autorevolezza di cui sopra, e reduce da grandi scappellamenti critici anche per il precedente All we love we leave behind, vecchio di cinque anni. Non sono più i portabandiera del metalcore, i Converge, questo sottogenere resta un'ingombrante cifra stilistica per il combo, ma la maturità conseguita dai quattro gli permette di entrare ed uscire con abilità da qualunque prefisso metal, che sia post ,sludge, hc, thrash e persino heavy. 

I Converge peraltro sono anche fra le non tantissime band del genere di cui valga la pena leggere i testi. Infatti, se rabbia nichilista, pessimismo verso un mondo decadente e menate anti-sistema, tipiche dell'hardcore, restano un importante fil rouge nella letteratura convergiana, in questo ultimo capitolo della discografia fanno inaspettatamente breccia anche sentimenti purissimi, e lo fanno proprio nella traccia di apertura A single tear, dove Bannon scopre nella paternità motivi per guardare al mondo con occhi differenti e meno disfattisti (I knew I had to survive / When I held you for the first time).
L'assalto sonoro del disco non è mai fine a sè stesso, me lo ripeto auto congratulandomi per la pazienza che c'ho messo ad "aspettarlo", prima ancora che segnalarlo ai lettori del blog: l'album merita veramente svariati ascolti, meglio se in cuffia, per recepirne le innumerevoli sfumature, le ricercatezze, i fraseggi di chitarra (che a volte, senza perdere velocità, si fanno quasi prog),così come gli inquietanti rallentamenti (la title track), le influenze doom (l'incipit di una suntuosa Reptilian) o le sue deflagrazioni (tra tutte una I can tell you about pain, che, se fosse stata, passatemi il termine, più scolastica avrebbe potuto trovare posto dentro Far beyond driven dei Pantera).
Insomma, The the dusk in us ha l'enorme merito di imporci una bella pausa dalla bulimia musicale che ci attanaglia. E' un disco che non finisce mai e che pertanto è difficile lasciarsi alle spalle.

Per questa ragione, per il rigore del gruppo, per la coerenza con la quale i Converge coniugano indipendenza e crescita continua, non c'è modo, neanche volendo, di esimersi dal definirlo il migliore album (non solo) metal del 2017.

venerdì 23 febbraio 2018

JD McPherson, Undivided heart and soul


Se è vero che abbiamo una musica per ogni tipo di bisogno: darci la carica, cullare la malinconia, avere un adeguato sottofondo o semplicemente perchè fa inscindibilmente parte della nostra vita, allora anche JD McPherson ha una sua precisa funzione: trasmettere benessere e felicità.
Arrivato al terzo disco, l'artista di Broken Arrow, Oklahoma, è ormai una certezza. Un pò fuori dai riflettori rispetto al altri emergenti ampiamente (e a volte un pò esageratamente) enfatizzati dai media, JD, con il suo gusto elegantemente retrò che lo vede pescare a piene mani dal rhythm and blues dei fifites, alimentato da una costante attenzione alle armonie e un'attrazione mai banale dal rock and roll primordiale, ha ormai acquisito un suo inconfondibile brand, immediatamente identificabile già dalle prime note dei suoi lavori.
Con Undivided heart and soul, presentato da una bellissima copertina chiaramente ispirata dai lavori di Tex Avery, McPherson prosegue il suo coerente percorso, confermando le proprie coordinate stilistiche, evitando però di restare immobile dentro le sue certezze. 
E' solo così che Desperate love riesce ad essere anthemica in maniera completamente diversa da quanto lo fosse Let the good times roll sul precedente album omonimo ed è così che per la prima volta il musicista lascia emergere l'influenza stilistica trasmessa dall'amico Dan Auerbach attraverso la stilosissima Lucky penny.
Wayne Hancock insegna: non è per niente semplice restare agganciati a determinati suoni vintage e risultare originali e credibili, ma JD ha imparato bene la lezione e mette il proprio talento a disposizione di un amore per un'era musicale lontana ma ancora attuale e densa di fascino. Diversamente non emergerebbe il candore e la grazia di una love song come Hunting for sugar, lo spumeggiante rockabilly di Bloodhound rock o la rievocazione di un ribellismo giovanile che, partito dagli Animals e reincarnatosi in Springsteen, trova finalmente un suo nuovo credibile interprete, grazie all'emozionante Let's get out of here while we're young

Nelle prossime settimane McPherson sarà in tour europeo ma indovinate un pò, l'Italia non è inclusa nelle venues programmate. 
Un vero peccato. L'occasione persa di vedere uno degli artisti emergenti più interessanti, in ambito classic rock, degli ultimi anni.

mercoledì 21 febbraio 2018

Jack Russell's Great White, He saw it comin'


Nella recensione del nuovo album degli LA Guns mi soffermavo sull'anomalia che in passato aveva visto la scissione della formazione originaria e la nascita di due band che portavano in giro medesimi monicker e repertorio. Ebbene, in ambito hard-rock/hair-metal esiste solo un'altra situazione analoga: quella dei Great White. 
La band losangelina si forma nel lontano 1977, anche se riuscirà ad incidere il primo full lenght eponimo solo sette anni dopo, nel 1984, in piena era glam metal. Inevitabilmente il gruppo si adagerà su questo sotto genere, ma col tempo l'amore per l'hard rock di matrice blues emergerà prepotentemente, i pezzi di dilateranno, e con essi i tributi ai Led Zeppelin (due album e mezzo, visto che oltre al dittico esplicito A tribute to Led Zeppelin e Great White salutes Led Zeppelin, anche buona parte del doppio cd di cover, Recover, sarà dedicato al mito di Page/Plant). 
L'andazzo del Grande Squalo Bianco, tra scioglimenti e reunion, durerà per tredici album e circa trentacinque anni, fino ai giorni nostri.

Jack Russell è lo storico frontman della band dai suoi esordi fino al 2009, anno in cui opta per la strada solista (già approcciata per alcuni tour nei periodi di sospensione dei GW), tenendosi però stretta la "gloriosa" ragione sociale, nonostante anche i suoi ex sodali continuino ad usarla.
He saw it coming è il primo full lenght dei Russell's Great White (rilasciato, giusto per gradire, lo stesso anno in cui esce anche Full Circle, il nuovo dei Great White con alla voce Terry Illous) e, copertina a parte, davvero inguardabile e fuorviante, ci consegna un Russell in buona condizione, fermamente motivato a dare dimostrazione della profondità e della versatilità della sua ugola. 
L'album è infatti composto da undici pezzi indubbiamente divertenti, nei quali trova prevedibilmente spazio l'AOR (un'ariosissima Sign of the times; Love don't live here anymore), l'hair (She moves me; Crazy; Blame it to the night), l'heavy metal (Spy vs spy), ma anche, più sorprendentemente, qualche fascinazione sospesa tra Beatles e Supertramp (He saw it comin'), un reggae-funk (Don't let me go) e un doo wop a cappella (la conclusiva Godspeed) dagli affascinanti sapori fifties.

Insomma, un disco prescindibile ma dannatamente piacevole.

lunedì 19 febbraio 2018

Tyler Childers, Purgatory


La catena di montaggio di Nashville, che sforna a ritmo continuo nuovi idoli preconfezionati pronti per la grande distribuzione, sarà anche un'inarrestabile macchina da guerra, ma per fortuna anche il ventre della Grande Madre true country è altrettanto gravido e prolifico, se è vero che mette al mondo non meno di un autentico fuoriclasse all'anno. 
Certo, non tutti emergono agli onori della critica: per ogni Austin Lucas, Rachel Brooke, Moot Davis, Cody Jinx, Whitey Morgan, Bob Wayne, Jamey Johnson, Wade Bowen, Matt Woods, Hayes Carll, Lindi Ortega abbarbicato ad uno zoccolo duro di seguaci, ma lontano dai grandi successi commerciali, c'è fortunatamente uno Sturgill Simpson o un Chris Stapleton, che riesce invece a coniugare qualità e riscontro di vendite.
Ora c'è la concreta probabilità che a questi nomi si debba aggiungere anche quello di Tyler Childers, ragazzotto del Kentucky, classe 1991, che già a vent'anni si autoproduceva un debutto discografico (Bottle and bibles), per poi masticare pane duro fino ai giorni nostri, prima di venire ripescato dall'oblio proprio da Sturgill Simpson che gli produce questo Purgatory (titolo che, azzardo, potrebbe essere legato proprio alla lunga iato artistica) partecipando anche ai lavori di registrazione in veste di chitarrista.

E indubbiamente la presenza dell'autore di A sailor's guide to earth si sente tutta nelle dieci tracce che compongono il lavoro, senza però arrivare mai a castrare l'attitudine draconiana alla musica country di Childers, assieme alla sua capacità compositiva e ad una voce perfetta alla bisogna. 
Se il canone scelto dall'artista è indubbiamente quello malinconico, Tyler non fa comunque mancare pezzi dal mood classico, e in questo senso, se qualcuno mi chiedesse come si scrive e si suona una classica canzone country, gli farei senza dubbio ascoltare una I swear (to God) semplicemente perfetta. 
Sembra avere tante storie da raccontare e molto veleno da sputare, il buon Childers, se le relazioni hanno un ruolo che definirei inevitabilmente centrale nell'opera (La già citata I swear; Tattoos; Lady Mae), il countryman non si fa mancare una puntata nei temi outlaw (Whitehouse road, che rimanda a Steve Earle) e sempre apprezzatissime incursioni nel blugrass (Purgatory), a comporre quell'amalgama stilistica che trasforma una manciata di buone canzoni in un grande album.

Un ritorno importante, un secondo esordio che alimenta con passione e talento il sacro fuoco dell'amore per il country.

giovedì 15 febbraio 2018

Code Orange, Forever


Benchè totalmente al di fuori della mia consueta tazza di tè, per effetto di una manciata di articoli che mi hanno incuriosito, mi sono approcciato ai Code Orange, band di Pittsburgh che nasce con profonde stimmate hardcore per poi, strada facendo, contaminarsi con altri sotto-generi (tutti accomunati dalla violenza sonora e dall'urgenza comunicativa), ed arrivare, all'inizio del 2017, a questo Forever.
Anticipato dalla bellissima copertina, ben esplicativa del contenuto e in qualche modo debitrice del master class Vulgar display of power, sin dalla prima traccia (la title track) ci troviamo al cospetto di un sound ossessivo, claustrofobico, destrutturato, che non concede punti di riferimento all'ascoltatore e che anzi lo brutalizza sadicamente con modalità schizofreniche e aggressive.
L'assalto sonoro, tra riff isterici e un cantato che paga il dovuto dazio a Rollins e Anselmo, si placa solamente e, a quel punto, in maniera totalmente inaspettata, con la traccia numero quattro, Bleeding in the bur, dove il microfono passa alla chitarrista/bassista Reba Meyers, e vengono recuperate melodia e forma-canzone tradizionale.
Ma è solo un attimo che serve per riprendere fiato, perchè poi si scivola di nuovo nell'anarchia più assoluta, nella quale ogni tanto ci si aggrappa a salvagenti metalcore, doom, sludge o death che ci sorreggono per qualche istante prima che i violenti flussi sonori tornino ad inghiottirci, fino al desolante e spettrale approdo finale di dream2.
Forever è uno di quei lavori tosti, inaccessibili, respingenti, ma dal quale, per ragioni inspiegabili, sei attratto da una forza misteriosa che ti spinge a tornarci invece che farlo volare fuori dal finestrino.
Sicuramente un disco non per tutti. Probabilmente nemmeno per me, ma è valsa la pena provarci.

lunedì 12 febbraio 2018

Omicidio all'italiana (2017)



Acitrullo, un microscopico paesino di quattro case sputate sulle montagne molisane, versa in uno stato disperato: i sedici abitanti che lo popolano contano infatti una media d'età di sessantotto anni, non nascono bambini da tempo immemore ed è totalmente privo di risorse economiche. La popolazione possiede un'orgogliosa, ottusa ignoranza e in quest'aspetto è degnamente rappresentata dal sindaco Piero Peluria (Capotonda) e dal fratello Marino (Herbert Ballerina). Quando l'unica celebrità del paese, la contessa Ugalda Martirio in Cazzati, muore accidentalmente soffocata dal cibo, Peluria, "ispirato" da una trasmissione televisiva che segue i casi di cronaca nera, condotta dalla mega-star Donatella Spruzzone (Sabrina Ferilli), ne inscena l'omicidio, allo scopo di trasformare Acitrullo in un luogo di pellegrinaggio del turismo macabro e rilanciare così l'economia del paese.

Il secondo film di Maccio Capatonda si colloca intelligentemente tra il genere demenziale e la satira sociale. Un equilibrio complicatissimo e ad alto rischio di deriva che il buon Capotonda (autore oltre che della regia anche del soggetto e della sceneggiature) giostra sapientemente.
La Ferilli, nei credibili panni della regina dei pomeriggi televisivi Barbara D'Urso, che, grazie agli ascolti spropositati della sua trasmissione di cronaca nera detiene un potere assoluto sugli avvenimenti, al punto da condizionare le indagini ufficiali e plasmare la realtà alle percentuali di share del suo programma, è sicuramente un'iperbole surreale della nostra tv, ma costruita in modo da suggerire più d'una riflessione sulla condizione del giornalismo spettacolo.
I personaggi perennemente stralunati di Capotonda e Herbert Ballerina, il loro irresistibile lessico sgrammaticato e sconclusionato, insieme alla modalità di raccontare la storia che prende le distanze sia dai tristi canoni  scatologici dei cinepanettoni nostrani, che dalle volgarità ormai scontate del cinema demenziale americano, sono la vera forza trainante del film. E in quei pochissimi momenti in cui la sceneggiatura si concede una battuta sotto la cintura (in merito ad una capra) lo fa con tempi, modi ed efficacia che ne giustificano ampiamente il ricorso.

Una gradita sorpresa.

giovedì 8 febbraio 2018

U2, Songs of experience


Ho smesso da una vita di seguire i video musicali. E' perciò per puro caso che sono incappato in quello di Get out of your own way, filmato dagli U2 a Trafalgar Square nell'ambito degli MTV EMAS e la mia reazione immediata è stata di uno sconforto che ha via via lasciato spazio ad una profonda pena per la fine artistica della band. Vedere Bono e gli altri interpretare un pezzo tronfio e scontato sullo stile degli ultimi Coldplay, con le espressioni di chi per primo non crede a quello che sta facendo e il pubblico totalmente indifferente all'esibizione è stato, per me che ho amato alla follia questo gruppo, un colpo al cuore. Mi sono pertanto approcciato all'album più per dovere che per piacere, con la certezza di stroncarlo senza riserve.

Le canzoni di Songs of experience erano state concepite già nel processo di lavorazione del precedente Songs of innocence e sembrava che l'album dovesse uscire a stretto giro dopo quella release. Poi alcune disavventure accadute a Bono (incidente in bici, molto poco da rockstar) e il tour per i trent'anni di The Joushua tree ne hanno procrastinato completamento e uscita. 
Nella recensione di Songs of innocence avevo scritto che, fatte tutte le considerazioni del caso e  ponderate le differenze tra "quegli" e "questi" U2, l'album si lasciava ascoltare senza sussulti particolari o sbracature clamorose ma con qualche vibrazione positiva.

In fin dei conti, contrariamente alle mie poche aspettative espresse in premessa, devo replicare lo stesso giudizio anche per questo lavoro concettualmente gemello, anche se a mio avviso il precedente lo supera di misura.
Il lavoro è super-curato, arrangiato, levigato e prodotto (basta scorrere la lista dei producer, ben nove, dal vecchio sodale Steve Lillywhite al genietto Danger Mouse) e questo elemento, di per sè, per me rappresenta un difetto dell'opera: sarò un inguaribile ingenuo, ma qualche brandello di spontaneità nella musica lo cerco sempre. Qui ovviamente non ce n'è traccia, in compenso ci sono tredici composizioni (ampliate nelle varie edizioni deluxe) che indubbiamente restano in mente grazie a subdole melodie catchy e al lavoro dell'esercito di professionisti reclutato per ottenere un esito che andasse incontro ai mood musicali del momento. 
Pezzi come Love is all we have left, The blackout, Lights of home, Red flag day, You're the best thing about me (con Kendrick Lamar che, nell'outro sconfinante nell'intro della successiva American soul, restituisce l'ospitata del gruppo su DAMN.) sono discreti prodotti pop con, a seconda, venature modern errebì o mainstream rock elegante e raffinato, che sarebbe ipocrita definire brutti, ma che nella loro impersonalità suonerebbero adeguati sia come musica da ascensori che suonate ad un concerto a Las Vegas.

Tranquilli, non chioserò la recensione rimpiangendo i vecchi tempi, quando a quattro ragazzi bastavano un mucchio di idee, tanta ispirazione e un qualunque studio di registrazione per tirare fuori un disco intenso come War, altrimenti non avrei nemmeno perso tempo ad ascoltare e recensire il disco, però se per primi gli U2, nella comunicazione (la bellissima copertina raffigurante figlio di Bono e figlia di The Edge che si tengono per mano) vogliono dare un senso di continuità col passato, beh, allora tocca piccarsi un pò, perchè del passato qui non c'è traccia e a prevalere è invece un pragmaticissimo tiriamo elegantemente a campare.

lunedì 5 febbraio 2018

Sciopero! (1925)


Il primo lungometraggio del regista russo Eisenstein, girato quasi cento anni fa (93 per l'esattezza), resta ancora oggi un miracolo di tecnica ed espressività cinematografica sbalorditiva, una confezione che straripa dallo schermo e dai presunti limiti imposti dal muto. Con questo non voglio sostenere che l'ora e venti abbondante di durata della pellicola voli leggera, la visione alterna infatti momenti di esaltazione a fasi più faticose, ma anche lo sviluppo della storia, tornata tristemente d'attualità, aiuta nel mantenere altissimo pathos e coinvolgimento emotivo.

Gli eventi narrati dal film si concentrano sugli operai di una fabbrica siderurgica, sfruttati e spremuti oltre ogni sopportazione dal padrone, che gradualmente si organizzano e, a causa del suicidio di un loro compagno ingiustamente accusato di furto, si ribellano bloccando lo stabilimento e chiedendo, per riprendere a lavorare, che vengano soddisfatte alcune loro rivendicazioni (orario di lavoro a otto ore - sei per i minori - , il 30% di aumento e un trattamento più dignitoso da parte dell'amministrazione). I padroni ignorano le richieste e organizzano una rete di sabotatori da infiltrare tra gli scioperanti per spiarli, creare disordini e procedere poi alla repressione con Polizia ed Esercito dello zar.

La colonna sonora del film è inevitabilmente debitrice della musica classica (l'autore è Prokof'ev), ad eccezione dei momenti in cui passa improvvisamente, ma in maniera del tutto armoniosa, al canone jazz, come quando vengono introdotti i laidi personaggi capitanati dal Re dei ladri.

La messa in scena di quest'opera da parte di Eisenestein lascia sgomenti per la maestria nel coniugare i mezzi tecnici di un'arte, quella cinematografica, ai suoi albori, con sequenze immaginifiche che sviluppano vibranti scene di massa, impressionanti profondità di campo, esperimenti con la pellicola, come la sovrimpressione  dei volti delle spie da infiltrare con la testa degli animali da cui prendono il soprannome (il gufo, la volpe, etc.), immagini anthemiche come quella dei tre operai che, dando le spalle alla ruota meccanica, simbolo dell'oppressione, incrociano con espressione fiera le braccia o riprese dell'interno della fabbrica, tra cui una carrellata dall'alto, che qualcuno dovrebbe spiegarmi come diamine è stata fatta in considerazione della limitatezza dei mezzi tecnici nel periodo storico.

Poi ci sono le tante immagine iconografiche che ancora oggi vengono usate nella comunicazione più radicale contro il capitalismo: su tutte quella dell'archetipo del Padrone, grasso per la troppa opulenza, arrogante, ottuso e sprezzante delle condizioni dei suoi operai, raffigurato con abito elegante, cilindro e sigaro tra i denti, mentre decide della vita e della morte di tanta povera gente passando da uno sfarzoso banchetto all'altro. 
D'altro canto il movimento dei lavoratori viene ovviamente celebrato, ma senza risparmiare critiche nelle fasi di stallo della lotta, per l'inedia nella quale molti di loro precipiteranno.

Se queste considerazioni possono sembrare espresse da un vecchio nostalgico fuori dal tempo, quale sicuramente io mi considero, basta guardarsi attorno per capire che un secolo dopo forse non stiamo così meglio: nelle spaventosi condizioni di lavoro delle fabbriche cinesi di oggi (attorno alle quali vengono allestite abitazioni catapecchia che "permettono" alle maestranze di vivere in funzione dello stabilimento, esattamente come accade nel film di Esistein) che hanno condotto tanti lavoratori al suicidio o la repressione violenta, quotidiana, di migliaia di lavoratori nei terzi e quarti mondi da parte di milizie al soldo dei moderni padroni, c'è infatti tutta la triste attualità di questa pellicola. 

giovedì 1 febbraio 2018

Carl Brave x Franco126, Polaroid


Una folgorazione. 
Questo ha rappresentato per me Polaroid, disco d'esordio di Carlo Luigi Coraggio (in arte Carl Brave) e Franco Bertolini (Franco126), due rapper romani che hanno messo a fattore comune l'esperienza maturata con diverse crew per arrivare ad un lavoro in completa coabitazione.

L'album viaggia sull'incantevole equilibrio di vari elementi teoricamente dissonanti che trovano invece inaspettata sintonia, a partire dal titolo scelto, chiaramente nostalgico e passatista, ma armonizzato con la moderna strategia di diffusione scelta dal duo (la pubblicazione di una canzone per volta su youtube accompagnata per l'appunto da un'immagine fissa di foto con polaroid). 

Ma l'ossimoro per me più importante è ovviamente quello relativo alla cifra stilistica, laddove il rap proposto dal duo flirta così strettamente con il cantautorato (romano) da diventarne una credibile versione aggiornata (e non è un caso se gli accompagnamenti adottati non siano basi elettroniche, ma strumenti tradizionali: chitarre, basso, batteria e, occasionalmente, qualche linea di fiati).
Questo aspetto, insieme ad una invidiabile capacità di scrivere testi di normale vita quotidiana che coniugano immediatezza e figure poetiche, nonchè una particolare cura per le melodie catchy, semplici ma efficacissime, fanno di Polaroid la folgorazione di cui all'incipit della recensione. 
Dieci canzoni per una mezzora scarsa di musica che coinvolgono, creano empatia, fanno sorridere  ed inducono al buonumore al punto da mettere in secondo piano anche l'utilizzo di qualche antipatica espressione poco politacally correct in riferimento a migranti e extracomunitari.

Insomma, Polaroid è l'inaspettato anello di congiunzione tra un tipo di folk legatissimo al territorio romano e il rap italiano, l'altra faccia di un genere che si muove su stilemi spesso ripetitivi, ottusi e datati ma che, grazie a lavori come questo, si dimostra capace di originalissimi colpi di coda, ulteriormente valorizzati dal loro affrancarsi dai soliti modelli di riferimento anglosassoni.
Di prepotenza tra i miei preferiti del 2017.