lunedì 31 ottobre 2011

Outlaw tales, 2 di 4



Hank III
Guttertown (Megaforce Records - Hank 3 Records), 2011











Dell'importanza di un disco come Straigh to hell (2006) ho detto fino allo sfinimento, aggiungo che, per impatto e rilevanza, se il tempo fosse galantuomo quel disco dovrebbe diventare per il country ciò che London Calling dei Clash fu per il rock. Non mi sono però mai addentrato nella discussione del secondo cd di quell'opera. Credo in effetti di averlo ascoltato una sola volta, e di non aver nemmeno resistito fino alla sua conclusione. La ragione è presto detta, quel bonus disc conteneva un'unica traccia di tre quarti d'ora, satura di fields recordings, spezzoni di dialoghi da film, abbozzi di melodie, ipotesi di canzoni. Sembrava più che altro un esperimento fine a se stesso, uno sgarbo alla casa discografica, uno stronzo depositato in bella vista nel salotto buono. Oltre a questo, doveva competere con la qualità mostruosa dell'album principale e dunque non poteva esserci partita.





L'idea di sperimentare sfondando a testate ogni tipo di steccato musicale doveva però essere un tarlo serio, se cinque anni dopo Hank decide di ripetere quell'esperienza, da un lato strutturandola meglio ma dall'altro non rinunciando alla stessa (in)sana vena psicopatica. Nasce così Guttertown, "lato B" del più canonico Ghost to a ghost, e folle campo da gioco di Williams dove l'unica regola è che non esistono regole.





L'opera, suddivisa in diciannove tracce, abbraccia diversi stili e tendenze, a tutti però viene riservato un medesimo trattamento trasfigurante. La voce di Hank è spesso fuori registro, a volte distorta fino a diventare diabolica parodia da cartone animato, quando non è semplicemente sguaiata, stonata o ad alto tasso di alcool. Nel disco vagano fantasmi di quelli che una volta erano generi musicali (country, tex-mex, blues, cajun) oggi tormentati spettri alla ricerca di riposo. La follia che pervade queste incisioni fa emergere più i Residents che Waylon Jennings, i pezzi sono alternati da intermezzi composti da rumori di fondo, che vedono protagonisti grilli, cicale, fruscio di torrenti, acciotolamento di piatti, flipper, portiere di auto che sbattono e dio sa cos'altro, neanche fossero skit di un disco hip-hop, della durata però non di pochi secondi ma di diversi minuti. Alcuni di essi, nella loro allucinata struttura, risultano magnificamente ipnotici (l'opener Going to Guttertown, The dirt road, The low line) altri appesantiscono l'ascolto, ma comunque, per ragioni irrazionali, risultano funzionali al contesto.

Le canzoni più convenzionali, se così vogliamo chiamarle, hanno un mood ossessivo e sghembo, sia nelle esecuzioni più sfrenate, come nel caso delle pirotecniche Gutter stomp (dove il nostro si cimenta anche con il francese), Musha's, Dyin'day, I'll be gone che in quelle più inquetanti e malsane, come ad esempio la spettrale Chaos queen. I pezzi che si avvicinano maggiormente alla tradizione country-folk sono probabilmente quelli eseguiti in coppia con Eddie Pleasant: I promised e sopratutto Move them songs, in totale approccio Johnny Cash.
Anche in Guttertown, come per Ghost to a Ghost, c'è spazio per le ospitate di Tom Waits e Les Claypool, spazio peraltro più coerente rispetto al loro ruolo nel primo cd. Così Fadin' moon avvolge le sue spire attorno alla voce dell'artista di Swordfishtrombone e la conclusiva With the ship è un tributo allo stile demenziale (perfettamente in linea con il contesto, quindi) di Claypool e dei Primus. Ci sarebbe anche la conferma di un'altra ospitata, quella di Trooper (in Trooper's chaos) che è, beh, il cane di Hank, i cui latrati erano già stati campionati in Trooper's hollar, traccia otto del GtaG.







L'opera nel suo complesso (e nella sua complessità) è molto border-line, e anzi, il confine che demarca un prodotto ostico ma accessibile da uno che provoca rigetto è verosimilmente superato, ma a parere di chi scrive contiene anche più idee, coraggio e creatività del progetto principale. Oltre che ovviamente la conferma che l'interprete soffre di varie patologie mentali.

Quattro su cinque di giudizio finale mi sembra la valutazione opportuna, ma la sensazione è che il voto si potrebbe anche ulteriormente alzare in caso di ascolto abbinato al consumo massiccio di sostanze stupefacenti (lo dico per ipotesi, non per esperienza personale).











sabato 29 ottobre 2011

Album o' the week / Black Sabbath, Reunion (1998)



Alla fine (è proprio il caso di dirlo) e quasi fuori tempo massimo, i Black Sabbath originali sono riusciti a dare alle stampe il loro live ufficiale. C'è voluta la reunion del 1998, trent'anni dopo la formazione della band, ma ne è valsa la pena perchè il disco è perfetto. Il suono, la scelta dei pezzi, la voce di Ozzy, il coinvolgimento del pubblico. E pensare che nemmeno sapevo dell'esistenza di questo documento (mentre avevo il dvd The last supper, docu-concert che testimonia lo stesso tour). Sedici pezzi più due inediti in studio, che dovevano costituire l'ossatura per un nuovo album di inediti arenatosi presto per il riaffiorare delle incomprensioni tra i quattro.

venerdì 28 ottobre 2011

MFT,ottobre 2011

ASCOLTI


Hank III, Ghost to a ghost / Guttertown
Red Hot Chili Peppers, I'm with you
Ry Cooder, Pulll up some dust and sit down
Mariachi el Bronx, omonimo
Tom Waits, Bad as me

Anthrax, Worship music
Mastodon, The hunter
Black Sabbath, Reunion
Artisti Vari, The lost notebooks of Hank Williams
Ryan Adams, Ashes and fire
Tesla, Twisted wires and the acoustic sessions
David Bowie, Heroes

Wilco, The whole love



VISIONI

Fringe, stagione uno
The walking dead, stagione due


LETTURE

Kurt Vonnegut, Madre notte
Anthony Kiedis, Scar tissue

mercoledì 26 ottobre 2011

Catalogami questo! / 19



Il surf rock è un genere musicale, tra una delle forme più popolari del rock & roll americano dell'inizio degli anni sessanta. Era strettamente associato alla cultura del surf, la cultura giovanile nata in quel periodo sulle spiagge della California meridionale. Pur essendo suonato da musicisti bianchi e diretto ad un pubblico bianco, il surf fu profondamente influenzato dalla musica nera. La prima ondata di surf rock fu lanciata da Dick Dale ed il suo singolo Let's Go Trippin. Il singolo ebbe un successo considerevole limitatamente alla California; in seguito, tuttavia, ispirò altre band come The Chantays e Surfaris.

La seconda ondata del Surf è stata condotta dai Beach Boys, che aggiunsero lo stile Pop dei Four Freshmen ai ritmi di base di Chuck Berry al Surf. Gruppi come Jan & Dean e Ronny & the Daytonas si ispirarono alla corrente Surf, ma i Beach Boys sono considerati da molti, l'ultima band Surf, semplicemente perché, assieme alla musica, conservarono i testi trattanti il Surf e la Spiaggia.

Tuttavia, il sound del surf rock rimase un'ispirazione per i chitarristi degli anni sessanta ed il genere tornò popolare negli anni novanta, grazie ad alcune band che ripercorsero la strada dei loro predecessori, dando vita al Surf Revival, che fu un limitato fenomeno underground di gruppi più recenti che cercarono di ripercorrere le sonorità del surf degli anni sessanta. Tra i più grandi esponenti del Surf Revival troviamo Man or Astro-man?, Shadowy Men on a Shadowy Planet, Laika & The Cosmonauts, e The Mermen.



fonte: wikipedia

lunedì 24 ottobre 2011

Messico solo andata







Mariachi El Bronx

Omonimo (ATO), 2011




La copertina è in stile hip-hop, la band è emersa facendo hardcore, ma il genere contenuto nell'album è tradizionale messicano. The Bronx rappresentano una vera anomalia del panorama musicale americano. Nascono a inizio anni zero a LA come formazione di hardcore punk/hard rock (personalmente li accosto ai primi Warrior Soul) e con questa formula pubblicano tre dischi, tutti peraltro self-titled, senza nemmeno la classica progressione espressa in numeri romani per distinguere un lavoro dall'altro.


Poi nel 2009 l'incredibile svolta. Il gruppo, capitanato dal singer Matt Caughtran, abbandona il sound elettrico e veloce per superare il confine a sud degli States ed approdare alla musica popolare messicana. La ragione sociale cambia nell'inequivocabile Mariachi El Bronx e con questa sigla la band (ri)debutta ancora una volta con un album omonimo concedendo il bis giusto quest'anno. Non si tratta però di un'operazione alla celtic-metal (dove vengono contaminati elementi di musica irlandese con il metal), ma proprio una folgorazione, un omaggio alla tradizione musicale del paese di Villa e Zapata.

Per corroborare il sound i Mariachi El Bronx sono coadiuvati da una sezione di strings e di fiati. Fatta eccezione per la scelta della lingua (l'inglese invece del castigliano), il risultato finale è coerente, credibile. I pezzi migliori sono l'opener 48 roses, una Revolution girls che sorride allo ska, il tejano Norteno lights, lo splendido strumentale mariachi che riprende il nome del combo (traccia numero sei) , le suggestive Matador e Everything dies.

Sorprendente ed evocativo.





sabato 22 ottobre 2011

Album o' the week / Scorpions, World wide live (1985)



Ricordo perfettamente quando comprai questo doppio live. Passai l'intero pomeriggio da Transex (negozio di dischi di Milano che nella metà degli ottanta passò abbastanza bizzarramente dall'essere punto di riferimento per i metallari a luogo d'incontro per le fans dei Duran Duran) indeciso se spendere tutte le mie finanze settimanali in World Wide Live o investire una somma minore in un altro album dal vivo, il più datato Tokyo Tapes. La scelta alla fine cadde sulla registrazione più recente, e mi regalò in seguito più di un momento di piacere. Il tempo passa, loro sono sempre pacchianamente uguali a se stessi, ma riascoltare Blackout, The zoo, Coming home, Still loving you e Another piece of meat qualcosa mi smuove ancora.

Occhio che la ristampa in cd ha qualche pezzo in meno.

mercoledì 19 ottobre 2011

Diary of a madman




Diciamo la verità. Quello che cerchiamo nella biografia di una rockstar è sì la comprensione dei processi creativi che stanno dietro alle canzoni, ma anche e soprattutto i racconti di vita spericolata in nome della sacra triade sex, drugs and rock and roll.

Quanto c'è di questi elementi dentro l'autobiografia Io sono Ozzy? Beh, il rock and roll è presente, anche se in misura minore rispetto alle (mie) aspettative, il sesso è quasi del tutto assente (fatto salvo il capitolo che menziona i Motley Crue...) mentre la droga (e l'alcool), cazzo, quella scorre a fiumi, al punto di assumere il ruolo di vera protagonista di tutta l'opera.

Lo stile della prosa è molto semplice e immediato, pensieri brevi e nessun concetto troppo elaborato. La storia parte dall'infanzia di John Michael Osbourne ad Aston, periferia degradata di Birmingham. La famiglia numerosa, la povertà, i piccoli atti di delinquenza (culminati con un breve periodo di dentenzione), i lavori più umili, l'ascendente sempre più ingombrante dell'alcool, la scappatoia rappresentata da un annuncio per la formazione di un gruppo che porta a suonare il campanello di casa Osbourne i giovani Tommi Iommi e Bill Ward, evento che, con l'acquisizione di Geezee Butler (chitarrista convertito al basso) darà origine ai Black Sabbath. Ecco, questa è la parte del libro che maggiormente privilegia il fenomeno musicale a quello degli stravizi: la versione di Ozzy sul satanismo, il lavoro in studio, i suoi pezzi preferiti, i tour, le liti.

La successiva carriera solistica viene sviscerata solo per il periodo inizale dei primi ottanta. E' qui che si concentrano i fatti che hanno creato intorno ad Ozzy l'alone di mistero e pazzia che per diverso tempo gli ha concesso quel quid di notorietà in più. Storie al limite delle leggende metropolitane vengono finalmente spiegate ufficialmente: il morso al pipistrello, lo stesso trattamento riservato ad una colomba durante una riunione con una major, la pisciata sul muro di Fort Alamo (monumento nazionale) con relativo arresto. E' in questo orizzonte temporale che si verifica anche la tragedia (incredibile nella sua dinamica) della morte di Randy Rhoads.

Ma, come dicevo in apertura, è la dipendenza da droga e alcool il vero filo conduttore della vita di Ozzy. E quando parlo di droga mi riferisco a qualunque tipo di droga (fatta salva l'eroina) o farmaco, assunti in dosi pachidermiche per circa quattro decenni. Chiaramente gli effetti di questa addiction non sono solo roba cool da rockstar fuori di testa, ma anche puramente fisiologici (svenimenti, difficoltà a trattenere le deiezioni, perdita della memoria, incontrollabili esplosioni di violenza) che fanno di Ozzy Osbourne un autentico sopravvissuto da studiare in laboratorio.

L'ultima parte del volume si occupa degli anni zero, con la partecipazione di tutta la famiglia del singer al reality di MTV (The Osbournes, perlappunto) che ha regalato al madman più fama e soldi di tutta la sua vita da musicista.



Io sono Ozzy ha il merito di essere un libro scorrevolissimo da leggere e di non essere troppo agiografico nel descrivere la figura del suo protagonista, che infatti appare spesso tragicomica. A volte il racconto eccede un pò troppo in accondiscendenza rispetto ai conflitti umani passati (tipo "i miei ex compagni dei Sabbath mi hanno fatto del male, ma ora ho superato tutto e li perdono, anche se c'è ancora una causa in ballo su chi possa usare il nome della band...") risultando in quei frangenti un pò insincero.


In ultima analisi comunque il saldo (per gli appassionati di questo tipo di letture, ovviamente) è in attivo.

lunedì 17 ottobre 2011

Hank è morto, viva Hank!





Artisti Vari


The lost notebooks of Hank Williams (Columbia Records, Egyptian Records) 2011






Alla morte di Hank Williams, avvenuta il primo dell'anno del 1953 con modalità dissennatamente avvenneristiche (stecchito sul retro di un automobile che lo portava da una data del tour ad un'altra, in preda a polmonite, lancinanti dolori alla schiena provocati dalla patologia della spina bifida occulta di cui soffriva dalla nascita ed agli effetti derivanti da abuso di morfina e whiskey), fu trovata una cartella contenente alcuni blocknotes con appunti per una settantina di canzoni nuove. Alcune in stato avanzato di completamento, altre solo in fase embrionale. Considerato l'affetto e l'interesse che ancora oggi avvolgono la figura dell'artista country americano, la scoperta è sempre stata considerata come il ritrovamento di una vera e propria vena d'oro. C'è voluto però più di mezzo secolo perchè gli appunti venissero elaborati e diventassero musica. C'è voluto anche uno come Bob Dylan, che non ha mai nascosto il suo amore per Hank (come può testimoniare la sua partecipazione a Timeless, l'unico tributo ufficiale fin qui inciso per ricordare Williams), per prendere le redini del progetto e, analogamente a quanto fatto dai Wilco e Billy Bragg con le canzoni perdute di Woody Guthrie, dare forma all'opera.

La raccolta (dodici tracce, sotto i quaranta minuti di durata), si divide sostanzialmente in due filoni. Da una parte gli artisti che si sono calati nella parte di Hank Williams cercando di interpretare i suoi lasciti così come (verosimilmente) li avrebbe fatti lui e quelli che, invece, dalla traccia originale sono arrivati ad un risultato finale che rispondesse comunque alla propria, personale, cifra stilistica. Il risultato, in entrambi i casi, è altalenante. Il miglior pezzo della prima categoria è probabilmente quello di Alan Jackson, che apre il lavoro. You've benn lonesome too è totalmente calato nel più classico mood del compianto countryman, un lavoro dalla grande accuratezza storica da parte dell'attempato Jackson, che, lo ricordo, in America da un quarto di secolo, ad ogni concerto che fa, riempe gli stadi. La stessa certosina attenzione alla verosimiglianza storica ce la mette Jack White, con You know that i know, altro highligh del disco. Tra i brani che escono dal classico schema compositivo del maestro segnalo prioritariamente The love that faded, uno strepitoso valzer irlandese prestato alla voce dolente e ferita di Bob Dylan; How many times have you broken my heart, intensa ballata di Norah Jones, I'm so happy i found you di Lucinda Williams, You'll never again be mine di Levon Helm (potrebbe essere una outtake di Music from the big pink della Band) e il lento acustico Blue is my heart di Holly Williams, unica del numeroso clan familiare di Hank a far parte del tributo.

Il contributo degli artisti coinvolti ha coperto un orizzonte temporale di cinque anni dalla prima all'ultima canzone consegnata. Un lavoro dunque lungo e, inevitabilmente, discontinuo, disomogeneo. Un'opera per la quale si sarebbe potuto osare maggiormente in quanto a cast (ovviamente sto pensando ad Hank III, ma anche a Mike Ness) ed evitare partecipazioni poco significative come quella di Sheryl Crow. Dovendo scindere la valutazione finale: massimo dei voti all'operazione di recupero storico, qualcosa in meno al risultato nel suo complesso.

sabato 15 ottobre 2011

Album o' the week / Hootie and the Blowfish, Cracked rear view (1994)




Hootie and the Blowfish sono il classico esempio di rock melodico americano. Cantante con vocione da patata in bocca, suono pieno (chitarra/basso/batteria/tastiere), brani dalla presa immediata ma non privi di personalità. La loro attività discografica ha coperto il decennio che è andato dalla metà dei novanta a metà anni zero, anche se il successo più colossale (un long seller da 16 milioni di copie vendute) è legato a questo disco d'esordio, dal quale furono estratti ben cinque singoli (Hold my hand, Let her cry, Only wanna be with you, Time e Drowning ). Quanto di più vicino dal prendere una freeway a bordo di una Caddy decappottabile.

venerdì 14 ottobre 2011

Shame on us

Lo smarrimento mi coglie ogni volta che metto piede sul suolo straniero. Francoforte: due giorni di trasferta per lavoro. A differenza dell'ultima volta, la sistemazione mi consente di girare la città. E così, in un contesto in pratica ricostruito da zero dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, posso ammirare un traffico automobilistico inesistente anche all'ora di punta, una rete di mezzi pubblici (sotterranea e di superfice) così estesa da condurre ovunque, ogni marciapiede dotato di pista ciclabile, la metropolitana senza tornelli, tanto verde, la centralissima via pedonale dello shopping dove si può mangiare in un ristorante spendendo come in un fast food, strade affollate in larga parte da giovani, nessuna isteria. Un esempio concreto di città a misura d'uomo.

Non mi raccapezzo, ma perchè da noi non è possibile vivere in posti così? Avere servizi, poter davvero scegliere di non possedere un auto, non essere inesorabilmente uccisi dalle polveri sottili e dal monossido di carbonio? Non è esterofilia o retorica spicciola. Il confronto tra la civiltà di queste metropoli e le nostre è impietoso, imbarazzante. E destinato, temo, a non migliorare.

mercoledì 12 ottobre 2011

Protest songs





Ry Cooder

Pull up some dust and sit down (Nonesuch, 2011)





C'è una ragione se nell'immagine del profilo del blog, deputata a rappresentarmi, c'è un tirannosauro che strimpella la chitarra. E la ragione è che in quanto a gusti musicali, nel mio apprezzare artisti e/o generi del passato, mi autodefinisco appunto un dinosauro. Pur consapevole dell'errore di fondo di questa filosofia (la musica va sempre avanti e non bisognerebbe mai fossilizzarsi a quanto fatto ma prestare attenzione alle novità, alle contaminazioni, agli artisti più coraggiosi e intraprendenti e all'innovazione, altrimenti saremmo ancora al ragtime), non riesco a correggere la rotta, soprattutto quando mi trovo davanti dischi che, propugnando stili antichi o marginali, alle mie orecchie suonano comunque moderni e coerenti.


Il vestito della premessa è cucito su misura per Pull up some dust and sit down, nuovo album di Ry Cooder. Il chitarrista californiano, da circa un lustro, e dopo una ventina d'anni di digiuno, ha ripreso a pubblicare dischi a prorio nome con una certa continuità. C'è da dire che nel periodo in cui non uscivano releases, nel suo eterno imsegnare/studiare ha consegnato alla storia tesori inestimabili come A meeting by the river, insieme a Vishma Mohan Bhatt; Talking Timbuktu con Ali Farka Tourè e il Buena Vista Social Club con tutto quello che ha significato per l'isola di Cuba e i suoi ottuogenari interpreti musicali.


I primi picchi di carriera però Ryland Peter Cooder li aveva toccati a metà settanta con lavori come Paradise and Lunch, Chicken skin music e il live Showtime nei quali esibiva una commistione di generi che danzava fuori e dentro il confine USA-Messico, tra tex-mex, folk e rock. Fino ad oggi pensavo che quei lavori fossero insuperabili, ma davanti all'album oggetto di questa recensione sono obbligato a ricredermi.


Pull up some dust and sit down non è esattamente un concept, ma un filo conduttore tra le varie canzoni (meglio dire storie) incluse esiste, ed è molto robusto. Mettendo meglio a fuoco i temi del già ottimo My name is Buddy del 2007 infatti, Cooder si occupa di temi sociali osservati dal punto di vista della gente comune. La crisi economica, la guerra, la povertà, il razzismo nei paesi occidentali, il punto morto in cui si trova la working class americana, così come li descriverebbe un autore che li vive ogni giorno, non uno scrittore della uptown. No banker left behind potrebbe essere la colonna sonora definitiva della crisi mondiale, suggestivo sottofondo alle immagini televisive degli impiegati in giacca e cravatta che uscivano dai grattacieli delle multinazionali con i loro effetti personali stretti al petto all'interno di una scatola di cartone. Musicalmente il pezzo è una festa per le mie orecchie, testo e ritornello sono irresistibili, Ry canta con voce da suonatore di strada e per stile il brano potrebbe far parte del miglior repertorio di Pete Seeger.


Con El corrido de Jesse James comincia il disco nel disco, quello dei pezzi tejano. Come dicevo mai avrei pensato di poter ascoltare brani che all'interno di questo genere uscissero vincenti dal confronto con quelli di quasi quarant'anni fa. Così è invece. El corrido de Jesse James, anche grazie all'apporto del vecchio fella Flaco Jimenez alla fisa e soprattutto di una sezione fiati messicana di dieci elementi, è una composizione che mozza il fiato, tanto è bella. Nel pacchetto di pezzi messicani fanno parte anche Christmas time this year, un tex-mex tanto scatenato nel ritmo quanto accompagnato da liriche drammatiche sulle ferite del corpo e dello spirito di alcuni reduci di guerra, e lo straziante lento Dreaming.


Altre gemme incastonate nel diadema sono la trascinante Quicksand, che se fossimo in un posto che privilegia la musica vera sarebbe un singolo/tormentone, il lento Simple tools e la diabolica I want my crown, che omaggia lo stile canoro caratterizzato da Tom Waits, mentre i gospels Baby joined the army e Lord tell me why possiedono nel DNA tracce evidenti della collaborazione tra il musicista di Los Angeles e Mavis Staples.


Discorso a parte merita John Lee Hooker for President perchè in questo brano avviene una magia: Ry Cooder si trasforma nel bluesman del Mississippi. Anche chi non conosce approfonditamente l'arte di Hooker identificherà dalla prima nota e dalla prima strofa l'inconfondibile stile di questo genio del delta blues, che nel brano racconta in prima persona il suo arrivo a Washington, alla Casa Bianca, l'orgoglioso sfoggio della sua personalità, dei suoi successi, delle sue influenze musicali. Un pezzo strabiliante nel quale è meraviglioso perdersi e che mi fornisce il pretesto per parlare una volta tanto non delle meraviglie della chitarra di Ry ma di come sia diventata versatile e capace la sua voce che nell'album si adatta perfettamente ai diversi stili presenti (che oltre a folk, blues,rock e tejano includono anche, per Humpty Dumpty World, un sorprendente reggae elettrico ).




Fa male al cuore leggere in una recente intervista che l'autore di Paris, Texas, uno dei più rilevanti artisti americani degli ultimi decenni, dichiari di non avere abbastanza risorse economiche per fare un tour fuori dai confini americani con la band al completo o anche semplicemente per arricchire il booklet del cd con la traduzione dei testi. Fa ancora più male registrare che il disco è passato pressochè inosservato non solo nei mercati discografici che contano ma persino nelle chart di genere. Siccome, senza peccare di presunzione, ritengo di poter distinguere tra un disco di roots geniale e uno di maniera, sono arrivato alla conclusione che il problema non sia tanto la marginalità del genere quanto la posizione politica dei testi. Esprimere concetti di eguaglianza, di denuncia nei confronti dell'establishment, dei media e delle corporazioni, orientarsi su posizioni socialiste non fa bene alle vendite negli USA, nemmeno nel ventunesimo secolo. Nemmeno se i potenziali acquirenti stanno in fila per il sussidio di disoccupazione.


Non mi sorprenderebbe però se tra qualche anno canzoni come No bankers left behind venissero usate come slogan dai manifestanti, cantate in faccia alla polizia davanti agli uffici di Wall Street, in un filo rosso che collega questo autore, questa canzone, quest'opera a Pete Seeger, Woodie Guthrie e Leadbelly e alle loro We shall overcome, This land is your land e Midnight special, le protest songs che, volente o nolente, fanno parte del patrimonio musicale americano.









P.S. In merito alle tematiche dell'album segnalo la dettagliata scheda di presentazione di wikipedia


sabato 8 ottobre 2011

Album o' the week / The Adventures, Sea of love (1988)





La formazione nordirlandese degli Adventures, attiva da metà degli anni ottanta ai primi novanta e poi sparita dal mercato discografico, era autrice di un pop maturo, orchestrale e arioso, con anche tematiche a sfondo sociale. Sea of love è forse il suo disco di maggiore successo, con le prime tre tracce (Drowning in the sea of love, You don't have to cry anymore e sopratutto Broken land) a girare bene come singoli. Un album che occasionalmente mi piace recuperare.

venerdì 7 ottobre 2011

45506

L'amico Matteo ha scritto sul suo blog un'analisi impietosa sullo stato di conservazione dei beni culturali e del patrimonio ambientale italiano, brutalizzati tra tagli di spesa, disinteresse alla cultura e incompetenza acclarata. Nel nostro piccolo possiamo fare qualcosa di concreto? Sì, leggete come.

giovedì 6 ottobre 2011

Un paio di considerazioni

uno - Stamattina, in fila alla cassa del bar per cappuccio e cornetto. La tele è accesa ma non ci faccio caso. Colgo però le parole di un gruppo di persone dietro di me. - Hai sentito? E' morto stiv jons -. A dirlo è una ragazza sui venticinque agli altri suoi colleghi. Ma guarda un pò, penso, è morto il chitarrista dei Sex Pistols ed è argomento di conversazione tra giovani moderni, roba da non credere. E infatti. Sto per unirmi ai commenti della combriccola quando mi cade l'occhio sulla tv e sul TG1 che parla della dipartita di Steve Jobs. Mi spiace eh, ci mancherebbe, ma è tutto dannatamente nella norma.


due - Non una rettifica del mio post precedente ma un aggiornamento. La commissione giustizia della camera ha approvato l'emendamento sulla pubblicazione delle intercettazioni. Viene rimosso l'obbligo di rettifica per i blog o i siti che non siano testate giornalistiche (a tal proposito wikipedia Italia si era auto-oscurata, dichiarando attraverso un comunicato che potete vedere qui, le ragioni della protesta), per le quali il vincolo invece permane. Così come viene confermato il carcere per i giornalisti che pubblichino intercettazioni fuori dai periodi prestabiliti dalla legge. No, dico, il carcere per i giornalisti eh. Tipo in Siria.

Per inciso, io sarei anche propenso a pensare che una regola sulle intercettazioni telefoniche da rendere pubbliche sia opportuna, ma il problema è sempre lo stesso, se ne parla e si interviene perchè c'ha un problema il premier. E guardate che non è un particolare da poco.

mercoledì 5 ottobre 2011

Outlaw tales, 1 di 4


Hank III
Ghost to a ghost (Megaforce Records - Hank 3 Records), 2011



Il momento che molti lettori del blog temevano è arrivato. Sì, perchè con Ghost to a ghost comincio ad inoltrarmi nel fitto delle quattro releases che il nipote di Hank Williams, nonchè mio prediletto outlaw country singer, ha dato alle stampe lo scorso cinque settembre. A chi dà per scontata (legittimamente, viste le mie recidive) una recensione a senso unico, un florilegio di consensi, suggerisco però di andare avanti a leggere, perchè stavolta le cose potrebbero non andare come preventivato.


Album numero 7 (di cui cinque nell'ultimo lustro) della discografia ufficiale di Shelton Hank Williams, questo lavoro è presentato in doppio ciddì. Essendo però due album stilisticamente e concettualmente agli antipodi uno dall'altro e avendo io maturato nei loro confronti valutazioni differenti, mi prendo la libertà di separane le recensioni.


Ghost to a ghost doveva essere un importante punto di (ri)partenza nella carriera dell'autore del Tennesse. Dopo l'agognato raggiungimento della data di scadenza del contratto con la Curb Records (firmato nel 96 a 24 anni e durato quindici anni) infatti sembrava potesero cadere tuti i vincoli artistici che la label imponeva al musicista e di conseguenza che la creatività di Hank potesse fluire copiosa. Queste perlomeno erano le aspettative, enfatizzate peraltro dalle dichiarazioni dello stesso Williams, dal suo entourage e dalle community di fans.


Quello che invece abbiamo di fronte è semplicemente un buon lavoro, che ha però un grosso e a questo punto paradossale limite: quello di risultare già sentito. Qualcuno potrebbe parlare di conferma di uno stile, altri di noiosa ripetitività, di certo c'è che il disco segue pedissequamente lo schema classico dei lavori di Hank sia nei generi presentati (sostanzialmente neotraditional country con qualche richiamo al southern) che nelle tematiche di riferimento (isolamento sociale, derive da alcolismo e tossicodipendenza, maschilismo esasperato, armi da fuoco e smargiassate). Non lo scopriamo oggi, questo è il DNA dell'artista. Il problema è che in passato i sopracitati elementi erano sostenuti da ottime, in qualche caso straordinarie composizioni, qui invece, e torniamo al succo del mio ragionamento, il sonwriting comincia a presentare delle crepe, l'autoreferenzialità si fa preoccupante.


Non c'è niente di sbagliato in pezzi come Gutter town, Day by day, Don't you wanna, Outlaw convention, non fosse che sembrano copie sbiadite di brani precedenti. Se in Dick in dixie, nell'epocale Straight to hell, o anche P.F.F. in Damn right rebel proud il turpiloquio era al servizio della storia, in Cunt of a bitch sembra un pò fine a se stesso, in una sorta di degenerazione, causata dall'abuso di crack, della vicenda cantata da Johnny Cash in Cocaine Blues. Anche coi lenti non ci siamo, sono lontani i brividi di Country Heroes, Not everybody likes us o Candidate for suicide: oggi The devil's movin' in e Time to die lasciano piuttosto indifferenti. Lo scat di Troopers Hollar con tanto di campionamento dei latrati dei cani è divertente ma nulla più. Se per molti ascolti il pezzo che più mi ha coinvolto è stato l'ospitata di Ray Lawrence jr, sconosciuto artista country a cui Hank ha vouto dare una chance di emergere ospitando nel disco due sue composizioni (all'interno di un'unica traccia, la numero cinque), dal tradizionalissimo ma prevedibile sound country folk, significa che l'empasse è seria.


Il pezzo che si staglia dalla media è probabilmente quello dà il titolo al disco, posto in conclusione del lavoro. Lì si torna a respirare l'aria della migliore ispirazione, magari anche per il cameo, sui secondi conclusivi, del maestro Tom Waits (per la verità nei crediti è segnalato anche Les Claypool ma io, boh, non lo sento).



In conclusione che dire, probabilmente alla macchina country della brigata Hank serve un tagliando, una sterzata, una sosta dal meccanico. C'è troppa gente che si è ridotta ad essere la copia di se stesso solo perchè è quello che il pubblico gli chiede. Spero non sia questa la strada che percorrerà uno che invece, fin qui, non ha mai temuto di scontrarsi brutalmente con il music buisness e i suoi sepolcri imbiancati. C'è da dire per fortuna che già a partire da Guttertown, la "seconda facciata" di questo doppio, le quotazioni del sudista debosciato tornano a salire. Ma, ahivoi, ci sarà tempo e modo per tornarci sopra.





lunedì 3 ottobre 2011

La casa delle libertà





Accelerazione. Quando gli rode il culo, loro accelerano. Il tema è quello degli interventi limitativi della libertà di stampa e di opinione, con la scusa della privacy. L'aspetto che ci riguarda più direttamente è quello che è stato definito, da quanti si oppongono alla sua introduzione, norma ammazza-blog. Come molti di voi sapranno questa norma, che andrà in discussione nei prossimi giorni con l'impegno di approvarla entro un mese, prevede che ogni gestore di "sito informatico" ha l'obbligo di rettificare ogni contenuto pubblicato sulla base di una semplice richiesta di soggetti che si ritengano lesi dal contenuto in questione. Non c'è possibilità di replica, chi non rettifica paga fino a 12mila euro di multa (Repubblica). In pratica viene equiparato il mio blog da poche visite giornaliere alle testate da centinaia di migliaia di copie o ai siti da milioni di click, con tutto quanto ne consegue anche dal punto di vista delle possibilità economiche (per il Corsera dodicimila euro sarebbero una caccola, io dovrei vendere un rene).


E ancora: ai fini della pubblicazione della rettifica, non importa se il ricorso sia fondato: è sufficiente la richiesta perché il blog, sito, giornale online o quale che sia il soggetto "pubblicante" sia obbligato a rettificare entro 48 ore (Repubblica).


Avevano visto giusto quelli de L'ottavo nano, la Libertà, termine tanto abusato nelle diverse ragioni sociali delle coalizioni dietro alle quali negli anni si è nascosto Berlusconi, è esclusivamente il diritto di fare, per lui e il suo cerchio magico, un pò quel cazzo che gli pare.


E speriamo di non dover rettificare...



sabato 1 ottobre 2011

Album o' the week / Ozzy Osbourne, Randy Rhoads Tribute (1987)



Sbattuto fuori dai Sabbath, Ozzy si lancia nell'avventura solista. Trova un talentuoso guitar hero e ricomincia con la trafila album/tour. Il chitarrista è lo schivo Randy Rhoads che troverà purtroppo la morte a Leesburg, in Florida, nel 1982 proprio durante una pausa tra due concerti, in un modo tanto tragico quanto incredibile. Questo album, registrato durante il tour di Diary of madman, appunto nell'82 (ma pubblicato nel 1987) è un disco molto diretto e divertente: rispetto alla band di Iommi il sound è più fresco e veloce, grande partecipazione del pubblico e impegno da parte di Ozzy, che urlerà credo almeno una decine di volte "rakanroooaallllll!!!". Emozionante la foto immortalata sulla copertina.