lunedì 31 maggio 2021

Preacher, stagione uno (2016)

 


Jesse Custer è il pastore demotivato, depresso, alcolizzato, rassegnato all'assenza di fedeli e tormentato da un passato tragico, di una scalcagnata parrocchia di Annville, Texas.  Una serie di eventi più o meno razionali (il ritorno dal passato di Tulip, la sua pericolosissima donna; l'arrivo di Cassidy, un vampiro centenario di origini irlandesi; la sua...ehm... possessione da parte di una misteriosa entità) stravolgeranno la sua routine. Tutto attorno Annville, una città non meno folle di un girone dell'inferno.

Violento, grottesco, ripugnante, comico, surreale, disturbante, blasfemo, sovrannaturale, geniale, intelligente come ogni parto della mente del mitologico Garth Ennis, Preacher, trasporta in maniera quanto più fedele possibile le atmosfere del fumetto da cui è tratto, regalandoci una serie memorabile (almeno la stagione uno, vedremo le successive). 
Sono diverse le ragioni della riuscita di questa produzione, a partire, certo, dal materiale originale a disposizione (una serie durata sessantasei numeri dal 1995 al 2000), ma anche il coinvolgimento di Seth Rogen, un cast azzeccato e soprattutto un lotto di personaggi, tra principali e secondari, "buoni" e "villains" (le virgolette sono d'obbligo, credetemi), straordinario. E quando in un prodotto audiovisivo si azzeccano i characters si è già a metà dell'opera. 
Dominic Cooper è il protagonista principale e, sebbene se la cavi egregiamente, paradossalmente non è quello che più resta in mente, superato da Joe Gilgun (il vampiro Cassidy), da Ruth Negga (Tulip), dall'indimenticabile coppia di "agenti del governo" Deblanc e Fiore (interpretati da Anatol Yusef e Tom Brooke), dall'antagonista Odin Quincannon (Jackie Earle Haley) e infine dal dolcissimo ma inguardabile, Eugene "arsface" Root (Ian Colletti), un adolescente con al centro della faccia, in pratica un buco del culo. 

Ci vuole abilità ad usare tutti gli strumenti più estremi del genere per far passare messaggi forti di critica sociale, politica e religiosa, ma qui la coppia Ennis/Rogen compie davvero un lavoro superbo, tenendo per le palle lo spettatore tra ettolitri di sangue e un politicamente scorretto mai fine a sè stesso. La serie credo si sia conclusa, come scritto, dopo quattro stagioni. Nella speranza che non cali vorrei proprio gustarle centellinandole.

lunedì 24 maggio 2021

Captain Marvel (2019)

Vers è una agente altamente addestrata delle forze intergalattiche dell'impero Kree. A seguito di una battaglia nello spazio con gli acerrimi nemici, i mutaforma Skrull, Vers precipita sulla terra nel periodo storico dei primi anni novanta, dove attira l'interesse del neoformato Shield e dei giovani agenti Fury e Coulson. Attraverso l'esperienza terrestre, Vers conoscerà il suo passato e capirà il potenziale pressochè illimitato del suo potere.

Torno a vedere un film del Marvel cinematic universe dopo la conclusione della saga Infinity war/Endgame (anche se cronologicamente andrebbe inserito esattamente nel mezzo tra i due capitoli) e torno moderatamente a divertirmi, dopo le delusioni di Black Panther (che però ai più è piaciuto) e Venom. La coppia di registi Anna Boden/Ryan Fleck cerca di ricreare la formula vincente action/comedy dei Guardiani della galassia di Gunn, onestamente non riuscendo a raggiungere quelle vette. Tuttavia il ritmo è buono, Brie Larson nei panni dell'eroina è efficace, il ringiovanimento al computer di Samuel L. Jackson (Fury) convincente, l'intreccio tra leggerezza e tensione ben bilanciato almeno per tre quarti del film (che nel finale sbraca nell'ovvio). Non banale nemmeno il messaggio "politico" veicolato, con i terroristi designati che forse sono vittime e gli eroi in realtà crudeli imperialisti. 
Resta la considerazione che questo personaggio sarà difficile da gestire in maniera interessante, visto il suo bagaglio di di super-poteri,  forse superiore persino a Superman. 

lunedì 17 maggio 2021

Steve Earle, J.T.

Dopo Townes (Van Zandt) e Guy (Clark) , Steve Earle giunge al terzo disco di di cover monografiche, celebrative di artisti importanti per la sua crescita di songwriter e di uomo. Stavolta purtroppo il soggetto a cui Steve "ruba" il repertorio è il figlio Justin Townes e la ragione dell'operazione la più tragica si possa immaginare, vale a dire la sua morte. Non torno sul tormentato rapporto padre figlio che ha caratterizzato la relazione tra i due (ne avevo scritto qui) e non oso dare interpretazioni psicoanalitiche sul senso di colpa di Earle Sr rispetto a questa tragedia, mi limito a prendere atto, oltre alle motivazioni emotive, di quelle sia pragmatiche (sostenere attraverso i proventi delle vendite del disco la vedova e la figlia di JT) che artistiche (una sincera ammirazione per il lavoro del figlio) che hanno portato Steve, in tempi rapidissimi, solo quattro mesi dalla dipartita, a dare alle stampe questo lavoro. 

L'album è composto da undici tracce, dieci delle quali provenienti dal repertorio di Justin Townes e una originale, scritta per l'occasione. Delle dieci reinterpretazioni, ben quattro provengono da The good life, l'esordio full-lenght del 2008 di Earle Jr (si tratta di Lone Pine hill; Turn out my lights; Ain't glad I'm leaving; Far away in another town), mentre le rimanenti sei sono scelte singole da altri album, a partire dall'EP di debutto (Yuma, 2007) fino a The saint of lost causes, ultima opera pubblicata da JT.
Steve approccia il lavoro con lo stesso metodo dei precedenti album tributo, lascia cioè intatta la struttura delle singole canzoni (dopotutto, come nel caso di Van Zandt e di Clark, la tazza stilistica di tè è la medesima) "limitandosi" a farle diventare sue, attraverso arrangiamenti che le impreziosiscono e che sono affini al suo mood rurale degli ultimi quindici anni circa. Il perfetto esempio a questo approccio arriva già con la traccia d'apertura, laddove infatti I don't care era una perfetta hillbilly busker song, ci si trova per le mani un purissimo blugrass degli Appalachi, senza che il nuovo arrangiamento renda nemmeno per un istante irriconoscibile il pezzo originario. D'altro canto il materiale selezionato da Steve dal (numeroso) repertorio del figlio è tutto di ottima qualità e sposa, come due parti di una stessa mela, il lavoro paterno. Possiamo sostenere che, mentre Justin Townes aveva creato delle pietre grezze di cui si intuiva il valore, il padre le ha lavorate, sgrezzandole e facendo venire alla luce tutte le loro sfumature attraverso arrangiamenti più elaborati. Diventano così Earle's instant classics la ballata da drifter di Far away in another town, l'orgoglio operaio di They killed John Henry e l'hillbilly rock and roll di Champagne corolla
The saint of lost causes, rispetto alla versione originale, sprofonda ulteriormente nella malinconia e nella disperazione e, ad ascoltarlo così, il testo sembra scritto su misura per Steve.

Chiude la forse un pò retorica ma comunque sincera , struggente e dolorosa Last words, esplicitamente dedicata al figlio e alla sua dipartita.

giovedì 13 maggio 2021

Rifkin's Festival


La coppia americana composta dall'anziano critico cinematografico ed ex insegnante di settima arte, Mort Rifkin, e la più giovane moglie, manager cinematografica, Sue, è a San Sebastian, in Spagna, per seguire il locale festival cinematografico. Sue è lì per lavoro in quanto rappresenta un regista francese in forte ascesa, mentre Mort, che non esercita più l'attività di critico, segue la moglie per il sospetto che lei abbia una tresca proprio con il regista francese.

Sono particolarmente felice che Woody Allen sia riuscito, nonostante il feroce e bieco ostracismo del cinema americano (sulle cui cause mi sono sufficientemente espresso qui), e grazie all'imperituro affetto dell'Europa, a portare a termine il suo cinquantesimo film da regista (in cinquantacinque anni). Lo sono poi doppiamente perchè sono riuscito a vederlo in sala.

Rifkin's Festival è un film che, anche ad occhi chiusi, limitandosi ai dialoghi (ma anche al contrario, senza audio e limitandosi alle immagini), rientra inequivocabilmente nell'ambito della cifra stilistica e filosofica di Allen. Questa volta le caratteristiche tipiche di Woody (eccentricità, nevrosi, insicurezza, cinismo) sono impersonate efficacemente dal noto caratterista Wallace Shawn (Mort), mentre la controparte solare, giovane, intraprendente, passionale della moglie è affidata a Gina Gershon. La narrazione, mostrata attraverso le suggestive immagini della cittadina basca ed enfatizzate dalla fotografia di Vittorio Storaro, prende spunto dal matrimonio ormai logoro dei due, ma in realtà, tra le altre cose, posiziona in maniera netta il pensiero del regista su taluni "fenomeni" del cinema moderno e, per antitesi, sul suo amore verso i classici di quest'arte. Allen compie la scelta di manifestare la sua passione per la grande epopea del cinema del passato, in particolar modo quello europeo, attraverso i sogni (in bianco e nero) del suo alter-ego Mort, che, a volte in tono ironico, altre didascalico, si trova proiettato in prima persona dentro capolavori come Quarto potere, Jules e Jim, Il settimo sigillo, 8 1/2 , Fino all'ultimo respiro ed altri (qui la lista completa delle pellicole rievocate).

Non il migliore film di Allen, ma una pellicola deliziosa che ancora una volta fa riflettere con leggerezza su grandi temi esistenziali, sul valore del cinema e su "stronzate tipo la famiglia a cui ci affidiamo per dare un senso alla nostra esistenza", con il valore aggiunto di un breve ma indimenticabile cameo di Chistoph Waltz, cui va riconosciuto il coraggio e la scelta controcorrente di fare ciò che terrorizza gli altri grandi nomi di Hollywood: partecipare ad un film di Woody Allen nel 2020.

lunedì 10 maggio 2021

Saxon, Inspirations

Siamo a maggio e non avevo ancora recensito un disco del 2021. So di dare un dispiacere alle mie folte legioni di lettori, ma è altamente improbabile che con il ritardo accumulato possa uscire, a fine anno, il consueto consuntivo sui migliori dischi. Va beh, ce ne faremo una ragione.

Ma torniamo a noi e a questo focus sul ventitreesimo album dei miei amati Saxon, che, a quarantadue anni dal loro esordio, offrono al proprio pubblico la prima  raccolta interamente composta di cover. Ecco, la recensione rischia di essere davvero sintetica e mi brucio subito il giudizio finale: siamo di fronte probabilmente al prodotto più sciatto e svogliato della carriera degli inglesi. 
Perchè Biff, realizzare un disco così? D'accordo la pretesa di tributare un riconoscimento agli eroi di gioventù, ma non si potevano compiere scelte diverse a partire dalla selezione delle canzoni, evitando di mettere in fila con piglio scolastico una serie di "greatest hits" al pari di una cover band alle prime armi, con risultati tra il superfluo e l'imbarazzante (Immigrant song dei Led Zeppelin, Hold the line dei Toto)? Perchè non sforzarsi di individuare nel repertorio dei Deep Purple o dei Rolling Stones qualche pezzo meno sputtanato di Speed king e di Paint it black da far conoscere ai propri fan più giovani? 
Perchè pubblicare una performance come questa, senza guizzi e con versioni che richiamano quelle originali, ma suonate peggio?
A fine ottanta i Saxon avevano avuto l'ultimo scampolo di notorietà fuori dalla platea metal con la cover di Ride like the wind di Christopher Cross, ecco, l'esempio di quella intelligente intuizione è stato completamente dimenticato da Byford e soci, che si sono andati ad impelagare in un'operazione priva di ispirazione (altro che "inspirations"), senza alcun contenuto artistico e che, ovviamente, non ha raggiunto alcun risultato commerciale.

Se volete conoscere le canzoni delle altre band tributate nel disco cercate su wikipedia, per quanto mi riguarda ho dedicato già troppe parole a questa ciofeca.

giovedì 6 maggio 2021

Ritorno al cinema, parte 3 (+ Nomadland)

Se c'è un argomento, dopo tanti tentativi di lanciare rubriche seriali presto abortiti, che mai avrei voluto diventasse oggetto di post seriali è proprio questo. E invece siamo arrivati alla terza volta in dieci mesi cui mi trovo a celebrare il mio ritorno alla sala (qui e qui i primi due "capitoli") dopo un lockdown. Tra l'altro, a differenza delle riaperture estive, questa volta non tutti i cinema hanno deciso di tornare ad accogliere gli spettatori il 26 aprile, primo giorno di zona gialla, a causa della reticenza dei distributori che, non riponendo fiducia negli spettatori, preferiscono il più rassicurante guadagno garantito dallo streaming. Non ha riaperto per esempio il meraviglioso Arcadia di Melzo (al momento di scrivere ancora chiuso) mentre, per mia fortuna, ha fatto la scelta opposta la catena Anteo, che ha un multisala anche nella mia città e che è ripartito riempiendo tutte le sue sale tra film di repertorio e novità, con i fiori all'occhiello Minari e Nomadland, freschi di Oscar.  Ovviamente non mi sono fatto scappare l'occasione di vedere su grande schermo il film della Zhao, che attendevo con trepidazione sin dal suo passaggio a Venezia 2020.

Empire, Nevada è una cittadina che sopravviveva in simbiosi con la locale fabbrica. Con la chiusura dello stabilimento, anche la località si è spenta e progressivamente svuotata. Fern resiste con il marito finchè può, ma, quando anche lui muore, prende una decisione radicale: vivere su di un furgone attrezzato da casa mobile, spostandosi per gli Stati e passando da un lavoro all'altro per avere di che vivere. La donna scoprirà un diverso livello di libertà e, assieme ad esso, un complesso universo di persone che hanno fatto la medesima scelta.

Adattamento cinematografico del libro omonimo di Jessica Bruder, Nomadland è un'opera molto particolare che tocca temi drammatici quali la solitudine, la povertà, l'emarginazione e la deriva sociale, restituendoceli però dentro uno scenario di grande umanità, aiuto solidaristico e dignità, che si intreccia con la scelta consapevole che questa comunità ha compiuto. Simbolo di questa scelta di vita è Fern (Frances McDormand), sempre pronta a dare una mano e a condividere il poco che ha, ma al tempo stesso orgogliosamente aggrappata al suo status di loner che le impedirà di accettare offerte di vita stanziali e finanche la ricostruzione di un percorso sentimentale. 

Il film è girato in stile quasi documentaristico, con molto utilizzo della macchina a mano e sicuramente la sensazione di assistere ad un reportage è enfatizzata dalla scelta neorealistica della regista Chloè Zhao di utilizzare, tra gli attori, alcuni reali "nomadi" (Swankie, Linda May, Bob Wells), persone cioè che vivono davvero, quotidianamente, il percorso di fantasia di Fern. La comunità errante qui rappresentata si muove con traiettorie disomogenee ma che seguono sempre la mutevole geografia da Stato a Stato dei lavori stagionali, che si tratti dei picchi natalizi di Amazon (contesto che apre il film), la raccolta delle patate o il lavoro nei fast food. E' dentro i parcheggi, spesso messi a disposizioni dalle multinazionali, nei tempi morti tra un turno e l'altro, che questa popolazione ciclicamente si trova, cementando i rapporti, le amicizie, i momenti conviviali, le feste, ricorrendo finanche al baratto. 

Il grande merito di quest'opera e dello sguardo analitico, ma mai moralistico, della regista, è l'intuizione di svelare al mondo una modalità alternativa di un'american way of life figlia tanto dell'ultima crisi economica quanto erede del nomadismo dei primi pionieri del XIX secolo, con la differenza sostanziale che per i pionieri il nomadismo era una condizione transitoria in attesa di una prospettiva stanziale, mentre per i nuovi itineranti  la scelta, dettata da condizioni disperate, progressivamente diventa, per molti, irrinunciabile. 
Un messaggio autenticamente anti-consumista e anti-capitalista lanciato contro l'America trumpiana che speriamo di esserci lasciati alle spalle.

lunedì 3 maggio 2021

MFT, marzo aprile 2021

ASCOLTI

Ryan Adams, Wednesdays
Hatebreed, Weight of the false self
Steve Earle, J.T.
Bob Dylan, Rough and rowdy ways
Billie Joe Armstrong, No fun mondays
Mariachi El Bronx, Musica muerta vol. 1
Garland Jeffreys, Escape artist
Great Big Sea, XX
Maneskin, Teatro D'ira
Vinnie Vincent Invasion, ST 1986
Joe Strummer, Assembly
Cathal Coughlan, Song of co-Aklan
Rob Leines, Blood, sweat and beers
Sister, Stand up, forward, march!
Shane MacGowan, The snake e Crock of gold
Saxon, Inspirations
Thunder, All the right noises
Atrocity, Werk 80
Riot City, Burn the night
Eyehategod, A history of nomadic behavior
Alice Cooper, Detroit stories
Helloween, Keeper of the seventh keys, part 2
Cannibal Corpse, Violence Unimagined
Nick Waterhouse, Promenade blues
Reo Speedwagon, The hits
Rob Leines, Blood sweat and beers
Dropkick Murphys, Turn up that dial
Royal Blood, Typhoons
Gojira, Fortitude
Liquid Tension Experiment, 3
Downtown Boys, Full communism
Offspring, Let the bad times roll
Greta Van Fleet, The battle at the garden's gate
Smith Kotzen, S/T
Hope Dunbar, Sweetheartland
Cheap Trick, In another world
Eric Church, Heart
Eric Church, &
Eric Church, Soul


Playlist/Monografie

The Pogues
Metal 80/89
Accept 80/86

VISIONI

La spirale della vendetta (2,5/5)
Nancy (3,25/5)
The General (4/5)
La mia banda suona il pop (1,5/5)
The Lincoln lawyer (2/5)
Capone (2,75/5)
State of play (2,75/5)
Man on fire - Il fuoco della vendetta (2,75/5)
La meccanica delle ombre (3/5)
Bastardi a mano armata (2,5/5)
True story (3/5)
The signal (3,25/5)
I bambini di Cold Rock (3,5/5)
Anna (2,25/5)
The void (3,5/5)
Nico, 1988 (4/5)
Night hunter (2/5)
Zack Snyder's Justice League (2,75/5)
Eva (3,5/5)
Bronx (Rogue City) (4/5)
The foreigner (3,25/5)
13 peccati (3,25/5)
Asher (2,75/5)
Delitti perfetti (The legend of Barney Thompon) 3,75/5
L'uomo invisibile (3/5)
Firestorm (3,75/5)
Star Wars: Il risveglio della forza (3/5)
Calibro 9 (3/5)
Election 2 (4/5)
Shin Godzilla (3,5/5)
Bushwick (3,5/5)
Bubba Ho-Tep (3,5/5)
Inheritance (2,25/5)
Antebellum (3,75/5)
Detroit (4/5)
Starred up - Il ribelle ( 3,75/5)
L'uomo dai mille volti (3,5/5)
Transsiberian (3,5/5)
Miss Marx (3,75/5)
La resistenza dell'aria (3,5/5)
Tutti i soldi del mondo (3/5)
Oscar insanguinato (3,5/5)
Into the ashes (3/5)
Foxcatcher (3,5/5)
Star Trek (2009) (3,5/5)
Star Trek - Into darkness (3,75/5)
The head hunter (3,5/5)
Lady Vendetta (4/5)
La cura dal benessere (3,75/5)
Siberia (2018) (2/5)
Suspiria (2018) ( 3,75/5)
L'occhio che uccide (1960) (4,5/5)
Night in paradise (3,5/5)
Senza rimorso (2/5)
Nomadland (3,75/5)

Visioni seriali

Better call Saul: 4 (3/5); 5 (3,5/5)
Peaky Blinders: 2 (2,75); 3 (2,5/5); 4 (2,5/5)
Ozark: 2 (3,25/5); 3 (3,25/5)

LETTURE

James Fearnley, Here comes everybody: The story of the Pogues