Se c'è un argomento, dopo tanti tentativi di lanciare rubriche seriali presto abortiti, che mai avrei voluto diventasse oggetto di post seriali è proprio questo. E invece siamo arrivati alla terza volta in dieci mesi cui mi trovo a celebrare il mio ritorno alla sala (qui e qui i primi due "capitoli") dopo un lockdown. Tra l'altro, a differenza delle riaperture estive, questa volta non tutti i cinema hanno deciso di tornare ad accogliere gli spettatori il 26 aprile, primo giorno di zona gialla, a causa della reticenza dei distributori che, non riponendo fiducia negli spettatori, preferiscono il più rassicurante guadagno garantito dallo streaming. Non ha riaperto per esempio il meraviglioso Arcadia di Melzo (al momento di scrivere ancora chiuso) mentre, per mia fortuna, ha fatto la scelta opposta la catena Anteo, che ha un multisala anche nella mia città e che è ripartito riempiendo tutte le sue sale tra film di repertorio e novità, con i fiori all'occhiello Minari e Nomadland, freschi di Oscar. Ovviamente non mi sono fatto scappare l'occasione di vedere su grande schermo il film della Zhao, che attendevo con trepidazione sin dal suo passaggio a Venezia 2020.
Empire, Nevada è una cittadina che sopravviveva in simbiosi con la locale fabbrica. Con la chiusura dello stabilimento, anche la località si è spenta e progressivamente svuotata. Fern resiste con il marito finchè può, ma, quando anche lui muore, prende una decisione radicale: vivere su di un furgone attrezzato da casa mobile, spostandosi per gli Stati e passando da un lavoro all'altro per avere di che vivere. La donna scoprirà un diverso livello di libertà e, assieme ad esso, un complesso universo di persone che hanno fatto la medesima scelta.
Adattamento cinematografico del libro omonimo di Jessica Bruder, Nomadland è un'opera molto particolare che tocca temi drammatici quali la solitudine, la povertà, l'emarginazione e la deriva sociale, restituendoceli però dentro uno scenario di grande umanità, aiuto solidaristico e dignità, che si intreccia con la scelta consapevole che questa comunità ha compiuto. Simbolo di questa scelta di vita è Fern (Frances McDormand), sempre pronta a dare una mano e a condividere il poco che ha, ma al tempo stesso orgogliosamente aggrappata al suo status di loner che le impedirà di accettare offerte di vita stanziali e finanche la ricostruzione di un percorso sentimentale.
Il film è girato in stile quasi documentaristico, con molto utilizzo della macchina a mano e sicuramente la sensazione di assistere ad un reportage è enfatizzata dalla scelta neorealistica della regista Chloè Zhao di utilizzare, tra gli attori, alcuni reali "nomadi" (Swankie, Linda May, Bob Wells), persone cioè che vivono davvero, quotidianamente, il percorso di fantasia di Fern. La comunità errante qui rappresentata si muove con traiettorie disomogenee ma che seguono sempre la mutevole geografia da Stato a Stato dei lavori stagionali, che si tratti dei picchi natalizi di Amazon (contesto che apre il film), la raccolta delle patate o il lavoro nei fast food. E' dentro i parcheggi, spesso messi a disposizioni dalle multinazionali, nei tempi morti tra un turno e l'altro, che questa popolazione ciclicamente si trova, cementando i rapporti, le amicizie, i momenti conviviali, le feste, ricorrendo finanche al baratto.
Un messaggio autenticamente anti-consumista e anti-capitalista lanciato contro l'America trumpiana che speriamo di esserci lasciati alle spalle.
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