lunedì 27 febbraio 2023

Edward Bunker, Educazione di una canaglia (2000)

Edward Heward Bunker nasce a Los Angeles tra le due guerre, nel 1933. Di carattere ribelle fin da piccolo, dopo il divorzio dei genitori viene affidato al padre che però non riesce a gestirlo e che, al culmine di una serie di atti vandalici compiti dal bambino, lo affida ai servizi sociali. Qui, Eddie, non ancora adolescente, passa da collegi a scuole militari a riformatori, in un crescendo di atti criminali che, a questo punto inevitabilmente, lo condurranno nelle più famigerate prigioni americane (San Quintino) con qualche tappa anche in manicomio. Il suo destino sembra dunque segnato. A salvarlo Louize Fazenda Wallis, ex stella del cinema muto e moglie del potente produttore cinematografico Hal B. Wallis, conosciuta da Bunker nell'ambito della filantropia soprattutto orientata al recupero di giovani sfortunati della donna, e, in misura ancora superiore, lo sconfinato amore per la letteratura.

Questo libro giace sulla mia libreria da quasi un quarto di secolo. Anzi, sarebbe meglio dire sulle librerie delle tre case che ho cambiato in tutto questo tempo. L'ho finalmente ripreso e, anche se sarei bugiardo a sostenere che l'ho divorato, sono riuscito a completarne la lettura. 

Bunker, dentro il suo racconto autobiografico, ci offre inevitabilmente lo spaccato dell'America (soprattutto la California, ma non solo) a cavallo tra gli anni quaranta e settanta, periodo nel quale Eddie passò più tempo rinchiuso che libero. 
Il giovane Edward Bunker rivela sin dall'inizio il suo carattere ribelle e il suo rifiuto di qualunque autorità. Per questo, e per i suoi improvvisi scatti di violenza, pagherà il suo conto con servizi sociali e giustizia, a volte anche attraverso modalità disumane, figlie del tempo. Nell'autobio ovviamente si parla molto di ambienti carcerari, ed è stupefacente di come Eddie si ricordi nei minimi particolari di luoghi, dettagli e persone dopo così tanto tempo, ma anche della natura umana, di industria cinematografica, di puttane, ladri, papponi, spacciatori e genitori inadeguati. 
Tuttavia il grande sottotesto è il potere salvifico della letteratura: Bunker infatti sin da bambino divora libri su libri e presto (nei sessanta) prova a cimentarsi con la scrittura, riuscendo a completare ben sei romanzi prima che una casa editrice decida di pubblicarlo (Come una bestia feroce, 1973). 
Con il suo ultimo rilascio da San Quintino comincia la sua nuova vita di scrittore a tempo pieno, consulente cinematografico e attore caratterista (lo ricordiamo tutti come Mr Blue in Le iene di Tarantino, ma dal 1980 al 2005, anno della sua morte, mise in fila ruoli per una ventina di film). 
Una vita avventurosa insomma, nel bene e nel male, in qualche modo, tipicamente americana.

giovedì 23 febbraio 2023

Recensioni capate: Al massimo ribasso (2017)


Ci sono due modi per raccontare le piaghe della società: puoi fare film rigorosi, magari anche ben riusciti, che guarderanno esclusivamente i più sensibili al tema, o puoi fare come (tra gli altri) John Carpenter, che in Essi vivono svela l'inganno del capitalismo americano per mezzo di un action fantascientifico. Il regista Riccardo Iacopino (pochi film al suo attivo, ma sempre dalla parte giusta) sceglie la seconda e, nonostante la ristrettezza di mezzi (parte del film è stato finanziato grazie ad un crowdfunding), fa centro. Al massimo ribasso accende sì un riflettore sulla pratica di appalti e subappalti che, oltre ad essere indegni di un Paese civile, sono anche una delle fonti di sussistenza delle mafie, ma lo fa con un racconto totalmente noir (l'antieroe disilluso messo di fronte alla possibilità di riscatto), su uno spunto sovrannaturale. Molto poggia sulle spalle del bravo Matteo Carlomagno (Diego, il protagonista), ma location, fotografia e direzione degli attori sono notevoli. Da segnalare un cameo di Luciana Littizzietto.

Raiplay

lunedì 20 febbraio 2023

Simple Minds, Direction of the heart (2022)

Era impossibile, per chi negli anni ottanta viveva la musica mainstream, non incappare nei Simple Minds. Nel mio caso, a differenza di altre band che sarebbero divenute colossali (U2) o che si sarebbero drammaticamente eclissate (Big Country), con la band di Jim Kerr non si venne a creare un legame ombelicale, diciamo tuttavia che nel periodo di maggior visibilità commerciale del gruppo, quel lustro allargato in cui cronologicamente si posizionavano Once upon a time; Street fighting years e Real life (e non quindi la fase precedente e più nobile della band), una loro nuova uscita era qualcosa a cui prestavo attenzione. Poi, non essendo appunto per me imprescindibili, sono passato ad altro.

Gli scozzesi invece, pur attraverso cambi di formazione e abbandoni (ad oggi gli unici membri originali sono, oltre a Kerr, il chitarrista Charlie Burchill), tra alti e bassi non hanno mai mollato il colpo. Per dire, negli anni zero, quando in pochi se li filavano, hanno rilasciato sette album. Come dicevo, per me il discorso è diverso, infatti sono tornato ad accorgermi di loro casualmente e solo in occasione di quest'ultimo disco uscito lo scorso ottobre, che però, devo ammettere, mi ha invischiato nella sua tela di melodie subdolamente catchy.

Direction of the heart è un tuffo pieno in quella stagione ottantiana che, dopo aver preso slancio dalla new wave, entrava nella fase del grande consenso di massa. Epic pop con ritornelli da cantare a pieni polmoni ma sempre eleganti, che andavano ad intasare le programmazioni radiofoniche. 
I Simple Minds a quanto pare sono rimasti lì (è un complimento). 
Provare per credere l'enfasi barocca dell'opener Vision thing, i rimandi al pop celtico di Street fighting years nell'attacco di Solstice kiss, la compostezza dandy di First you jump e la dance di qualità di Human traffic (featuring Russell Mael degli Sparks). 
Un disco insomma che ti si appiccica addosso al punto che diventa complicato scrollarselo, principalmente perchè non vuoi davvero farlo.

Comfort music.

giovedì 16 febbraio 2023

Recensioni capate: Amsterdam (2022)


Davanti al cast sontuoso riportato nella locandina, ad un soggetto con implicazioni politico-sociali e chiari rimandi all'America attuale dei reduci in post traumatic stress e ad  un regista (David O. Russell) che non è un fenomeno e non ha mai girato capolavori, ma che il suo insomma lo porta a casa (Three kings, The fighter, Il lato positivo, American Hustle), cosa può andare storto? 
Purtroppo diverse cose. A partire dalla deficitaria direzione degli attori per passare all'ardito bilanciamento tra commedia, grottesco, dramma e poliziesco, per finire con un plot che si attorciglia eccessivamente e, solo parzialmente, nel finale, si sbroglia. 
Non un brutto film (3/5), ma viste le premesse... 
E poi perchè Christian Bale recita come Al Pacino?

Su Disney plus

lunedì 13 febbraio 2023

Bruce Springsteen, Only the strong survive (2022)

Ho sempre pensato che tutto sommato fosse curioso che Bruce Springsteen sia considerato l'icona del blue collar rock americano, laddove è vero che si "guadagna" questa investitura con una tripletta di dischi irripetibili (Darkness on the edge of town; The river e Born in the USA), ma è abbastanza noto come il cuore del Boss abbia sempre palpitato per altri generi, ad esempio il folk (ampiamente omaggiato, sia negli album d'esordio del 1973, che in Nebraska e The Ghost of Tom Joad, senza considerare le innumerevoli perle distribuite sostanzialmente in ogni suo disco), l'errebì e il soul. In quest'ultimo caso però, l'autentica passione di Bruce per tali generi non è mai deflagrata in un disco monotematico. Sarebbe molto probabilmente accaduto se l'artista non fosse stato costretto, dalle note beghe legali con il primo produttore Mike Appel, al fermo di ogni attività dal 1975 fino al 1978. In quel periodo infatti l'afflato verso il soul è fortissimo e si traduce, con la complicità di Little Steven, nella collaborazione prima con Southside Johnny, al quale vengono regalati parte dei brani che confluiscono nei primi tre, imperdibili lavori (I don't want to go home; This time it's for real; Hearts of stone) e, qualche anno dopo, nella stessa generosa operazione con Dedication di Gary US Bonds. 

Ma le sliding doors della carriera di Springsteen, come sappiamo, lo hanno portato altrove, ad incidere, a valle di quelle beghe legali, un disco (forse il suo migliore) di rock intriso di rabbia e disillusione (Darkness on the edge of town) che lo ha orientato ai lavori del decennio successivo (al netto, come si diceva, dell'unicum Nebraska). Da lì in avanti la strada di Bruce e della black music dei sessanta si divarica, al netto di qualche eccezione: si pensi alla sezione di fiati nel tour del 1988 di Tunnel of love, e alcuni pezzi (Soul driver; Roll of the dice; Man's job; Real man; I wish I were blind) nell'altalenante Human touch che, con un diverso arrangiamento ed interpreti differenti (il disco fu registrato utilizzando session men, avendo Bruce deciso di mettere a riposo la E Street), sarebbero stati perfetti per il primo disco soul/errebì del Boss (che infatti, si portò, nelle due legs 1992 e 1993 del tour, un cantante soul, Bobby King, come seconda voce). 

Il tutto per dire che quando è arrivato l'annuncio di un album quasi interamente composto da cover di pezzi soul/rnb anni sessanta (Nightshift dei Commodores è del 1985), ogni singolo appassionato di Springsteen ha pensato: ci siamo, Bruce ci regalerà di certo una perla di inestimabile valore, come fece nel 2006 con le Seeger Sessions (che il sottoscritto ritiene, assieme a The ghost of Tom Joad, l'unico disco veramente indispensabile del Boss negli ultimi trent'anni). Purtroppo, come il Paris Saint Germain insegna, non basta mettere assieme il meglio per centrare il risultato desiderato e, infatti, Only the strong survive suona come un progetto battezzato dai migliori auspici e pur tuttavia non riuscito.

Siamo d'accordo, la voce di Springsteen migliora miracolosamente disco dopo disco e queste sonorità sono quanto di meglio per officiarla. Posto ciò iniziano i problemi, il più evidente dei quali è l'assenza di una vera band a sostenerlo, laddove, al netto di sezione fiati e cori, la maggior parte degli strumenti è suonata dallo stesso Bruce e dal produttore Ron Aniello. Non so quanto sia loro o degli arrangiamenti la responsabilità della resa finale, fatto sta che il suono è piatto e compresso, la sezione ritmica basso batteria è quasi sempre irrilevante (in un disco soul!) e a volte si ha l'impressione che la voce si appoggi su basi preregistrate (tipo karaoke). Insomma, la capacità di Bruce di dilatare i brani, appropriandosene in tutto e per tutto, quella meraviglia emotiva che ci strappava il cuore in tracce come Land of hope and dreams, esplicito tributo a certo soul sixties impegnato o le mitologiche, torrenziali versioni live di Quarter to three, del Detroit medley, di Shout degli Isley brothers è clamorosamente assente (ingiustificata). E di certo non aiuta la scelta di chiudere sostanzialmente tutti i brani (si "salva" solo, ma sarà stato un caso, Forgot to be your lover) attraverso il fader, cioè smorzandoli fino al silenzio, invece che alternare questa modalità all'interruzione all'unisono, modello interpretazione dal vivo.

Anche andando ai singoli brani, riesco forse a salvarne giusto un paio (The sun ain't gonna shine anymore - in odore di Western stars e Do I love you (Indeed i do)), tra interpretazioni piacevoli ma anonime (Nightshift - pezzo che nella versione originale adoro - ; Western Union man, What becomes of the brokenhearted) e rivisitazioni scialbe, come quella di I forgot to be your lover, che fanno rimpiangere l'interpretazione, tamarra sì, ma perlomeno non didascalica, di Billy Idol. E ho detto tutto. 

Ma forse l'aspetto che più mi ha deluso dentro l'operazione Only the strong survive è la sensazione di un disco "soul" registrato senza passione, senza "anima", quasi un compitino svolto con la sicumera derivante dalla presunzione che il combinato disposto tra la garanzia della qualità dei pezzi e l'autorevolezza vocale di Springsteen fossero sufficienti a portare a casa il risultato. Purtroppo stavolta non è così.

Dopodichè, siccome il disco è generalmente piaciuto, parafrasando la scusa che utilizzavano le ragazze che periodicamente mi lasciavano, la colpa è sicuramente mia, non di Springsteen. 

giovedì 9 febbraio 2023

Recensioni capate: Argentina 1985 (2022)


Il film di Santiago Mitre, di cui vidi l'ottimo Il presidente, verte sul primo processo istruito contro le atrocità commesse in Argentina durante la dittatura dei generali (1976/1983), che presero il potere attraverso un colpo di Stato (orchestrato, finanziato e appoggiato dagli USA attraverso l'operazione Condor). Le decine di migliaia di vittime furono soggetti collegati alla sinistra politica e al sindacato, ma anche persone comuni, che vennero sequestrate, torturate e spesso uccise e fatte sparire. Erano uomini, donne (anche in stato di gravidanza), ragazzini. 
Il film è talmente pedagogico che andrebbe proiettato nelle scuole (con questo governo la vedo dura), ma, volendo trovargli un difetto, lascia intendere che in qualche modo i protagonisti (il giudice Strassera e il suo team) abbiano sconfitto il male.   In realtà - SPOILER, MA E' STORIA - Videla, il maggior responsabile dei crimini commessi, nonostante una condanna all'ergastolo, rimase in carcere meno di cinque anni giacchè, nel 1990, il presidente Menem gli concesse l'amnistia e solo molto dopo, quando ormai era vecchio (morì nel 2013), il generale tornò per brevi periodi dietro le sbarre. 
Detto che Ricardo Darìn andrebbe preservato come patrimonio dell'umanità, Argentina 1985 (4/5) è da vedere come base di partenza per tutti coloro che non conoscono la vicenda argentina (e del Brasile, del Paraguay, del Cile, della Bolivia, dell'Uruguay).
Sullo stesso argomento, ma con una luce diversa, più periferica, e sempre con uno strepitoso Darìn, Capitano Kòblic.

Su Prime

lunedì 6 febbraio 2023

Eddie Vedder, Earthling (2022)


Fino a qui la discografia solista di Eddie Vedder (il soundtrack di Into the wild; Ukulele songs) in qualche modo si era sempre tenuta a rispettosa distanza dai Pearl Jam, tendendo a privilegiare la componente artistica più intimista di Vedder. Con Earthling il frontman dell'Illinois decide di scrollarsi di dosso questo eccessivo senso di lealtà verso i compagni di viaggio di una vita e confeziona un album che veleggia sicuro sulle onde del mainstream rock .

Accompagnato da musicisti d'eccellenza (Chad Smith e Josh Klighoffer, rispettivamente batterista ed ex chitarrista dei RHCP, nonchè Benmont Tench degli Heartbreakers di Tom Petty), lungo una tracklist di dodici pezzi, Vedder ci spiega la sua concezione di rock buono per tutte le stagioni. E lo fa, inevitabilmente, attraverso pezzi più o meno riusciti, echi dei Pearl Jam e tracce che invece se ne affrancano totalmente. 
La partenza risponde a questa seconda categoria ed è sicuramente spiazzante: si fatica a ricondurre pezzi come Invincible e Power of right (che comunque crescono con l'ascolto) allo stesso cantante che conoscevamo. Poi però arriva Long way, che è uno straordinario, commovente tributo a Tom Petty e il bilanciamento tra passato (dei PJ) e presente artistico di Eddie trova un suo magico equilibrio. 

Il produttore iper trendy Andrew Watt (Justin Bieber, Miles Cyrus, Post Malone, 5 Seconds of Summer, ma anche Ozzy e l'ultimo Iggy Pop) persegue in maniera evidente l'obiettivo alta rotazione su Virgin Radio e pertanto chiama a raccolta per un featuring - che risulta più folkloristico che sostanziale - big del passato come Elton John (il duetto su Picture è forse l'interpretazione meno riuscita, più fuori dalle corde di Vedder), Stevie Wonder (armonica sul divertente Try) e nientepopodimeno che Ringo Starr per (l'inevitabilmente) beatlesiana Mr Mills. Manca solo Springsteen, ma ci sarebbe stato benone su The dark.

Il disco mi sembra faccia emergere un aspetto inedito del cinquantottenne frontman dei Pearl Jam, più divertente e rilassato, che riesce comunque ad arrivare alla tensione del gruppo madre con una manciata di brani che male non sarebbero stati, nella produzione PJ degli anni zero (Brother the cloudFallout today; The haves; Good and evil; Rose of Jericho). C'è vita oltre i Pearl Jam? Se ci addentriamo nell'interpretazione della conclusiva On my way, Vedder sembrerebbe orientarsi ad una risposta affermativa.

Di sicuro non il disco dell'anno, ma abbiamo assistito a tramonti artistici ben peggiori.