Ho sempre pensato che tutto sommato fosse curioso che Bruce Springsteen sia considerato l'icona del blue collar rock americano, laddove è vero che si "guadagna" questa investitura con una tripletta di dischi irripetibili (Darkness on the edge of town; The river e Born in the USA), ma è abbastanza noto come il cuore del Boss abbia sempre palpitato per altri generi, ad esempio il folk (ampiamente omaggiato, sia negli album d'esordio del 1973, che in Nebraska e The Ghost of Tom Joad, senza considerare le innumerevoli perle distribuite sostanzialmente in ogni suo disco), l'errebì e il soul. In quest'ultimo caso però, l'autentica passione di Bruce per tali generi non è mai deflagrata in un disco monotematico. Sarebbe molto probabilmente accaduto se l'artista non fosse stato costretto, dalle note beghe legali con il primo produttore Mike Appel, al fermo di ogni attività dal 1975 fino al 1978. In quel periodo infatti l'afflato verso il soul è fortissimo e si traduce, con la complicità di Little Steven, nella collaborazione prima con Southside Johnny, al quale vengono regalati parte dei brani che confluiscono nei primi tre, imperdibili lavori (I don't want to go home; This time it's for real; Hearts of stone) e, qualche anno dopo, nella stessa generosa operazione con Dedication di Gary US Bonds.
Ma le sliding doors della carriera di Springsteen, come sappiamo, lo hanno portato altrove, ad incidere, a valle di quelle beghe legali, un disco (forse il suo migliore) di rock intriso di rabbia e disillusione (Darkness on the edge of town) che lo ha orientato ai lavori del decennio successivo (al netto, come si diceva, dell'unicum Nebraska). Da lì in avanti la strada di Bruce e della black music dei sessanta si divarica, al netto di qualche eccezione: si pensi alla sezione di fiati nel tour del 1988 di Tunnel of love, e alcuni pezzi (Soul driver; Roll of the dice; Man's job; Real man; I wish I were blind) nell'altalenante Human touch che, con un diverso arrangiamento ed interpreti differenti (il disco fu registrato utilizzando session men, avendo Bruce deciso di mettere a riposo la E Street), sarebbero stati perfetti per il primo disco soul/errebì del Boss (che infatti, si portò, nelle due legs 1992 e 1993 del tour, un cantante soul, Bobby King, come seconda voce).
Il tutto per dire che quando è arrivato l'annuncio di un album quasi interamente composto da cover di pezzi soul/rnb anni sessanta (Nightshift dei Commodores è del 1985), ogni singolo appassionato di Springsteen ha pensato: ci siamo, Bruce ci regalerà di certo una perla di inestimabile valore, come fece nel 2006 con le Seeger Sessions (che il sottoscritto ritiene, assieme a The ghost of Tom Joad, l'unico disco veramente indispensabile del Boss negli ultimi trent'anni). Purtroppo, come il Paris Saint Germain insegna, non basta mettere assieme il meglio per centrare il risultato desiderato e, infatti, Only the strong survive suona come un progetto battezzato dai migliori auspici e pur tuttavia non riuscito.
Siamo d'accordo, la voce di Springsteen migliora miracolosamente disco dopo disco e queste sonorità sono quanto di meglio per officiarla. Posto ciò iniziano i problemi, il più evidente dei quali è l'assenza di una vera band a sostenerlo, laddove, al netto di sezione fiati e cori, la maggior parte degli strumenti è suonata dallo stesso Bruce e dal produttore Ron Aniello. Non so quanto sia loro o degli arrangiamenti la responsabilità della resa finale, fatto sta che il suono è piatto e compresso, la sezione ritmica basso batteria è quasi sempre irrilevante (in un disco soul!) e a volte si ha l'impressione che la voce si appoggi su basi preregistrate (tipo karaoke). Insomma, la capacità di Bruce di dilatare i brani, appropriandosene in tutto e per tutto, quella meraviglia emotiva che ci strappava il cuore in tracce come Land of hope and dreams, esplicito tributo a certo soul sixties impegnato o le mitologiche, torrenziali versioni live di Quarter to three, del Detroit medley, di Shout degli Isley brothers è clamorosamente assente (ingiustificata). E di certo non aiuta la scelta di chiudere sostanzialmente tutti i brani (si "salva" solo, ma sarà stato un caso, Forgot to be your lover) attraverso il fader, cioè smorzandoli fino al silenzio, invece che alternare questa modalità all'interruzione all'unisono, modello interpretazione dal vivo.
Anche andando ai singoli brani, riesco forse a salvarne giusto un paio (The sun ain't gonna shine anymore - in odore di Western stars - e Do I love you (Indeed i do)), tra interpretazioni piacevoli ma anonime (Nightshift - pezzo che nella versione originale adoro - ; Western Union man, What becomes of the brokenhearted) e rivisitazioni scialbe, come quella di I forgot to be your lover, che fanno rimpiangere l'interpretazione, tamarra sì, ma perlomeno non didascalica, di Billy Idol. E ho detto tutto.
Ma forse l'aspetto che più mi ha deluso dentro l'operazione Only the strong survive è la sensazione di un disco "soul" registrato senza passione, senza "anima", quasi un compitino svolto con la sicumera derivante dalla presunzione che il combinato disposto tra la garanzia della qualità dei pezzi e l'autorevolezza vocale di Springsteen fossero sufficienti a portare a casa il risultato. Purtroppo stavolta non è così.
Dopodichè, siccome il disco è generalmente piaciuto, parafrasando la scusa che utilizzavano le ragazze che periodicamente mi lasciavano, la colpa è sicuramente mia, non di Springsteen.
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