lunedì 27 dicembre 2021

La legge del cartello (The evil that men do) (2015)


Sullo sfondo della guerra per il controllo del mercato messicano della droga, il messicano Santiago e il medico ripudiato Benny lavorano per il cartello del boss Lucho. Svolgono un lavoro non esattamente raffinato, infatti sono incaricati di uccidere, smembrare ed inviare parti di corpi, come avvertimento, ai domicili dei nemici del capo. Un giorno viene condotta al magazzino dove "lavorano" i due la figlia di Montero, il boss rivale di Lucho, colpevole di avere a sua volta rapito il figlio di Lucho stesso. A consegnare "il pacco" l'enigmatico Martin, nipote del boss. L'atroce compito di Santi e Benny è chiaro: occuparsi della ragazzina, anche attraverso mutilazioni e torture, se gli venisse ordinato.

Ecco un film da cui onestamente non mi aspettavo nulla, pensando di trovarmi davanti ad un prodotto di serie Z che vivacchiava su violenza e splatter in salsa narcotraffico. Nella realtà, e qui ci viene in aiuto il titolo originale, banalizzato dalla traduzione nostrana,  il regista spagnolo Ramon Térmens mette in scena sostanzialmente un thriller da camera, claustrofobicamente chiuso tra le mura di un enorme magazzino (a parte qualche sporadica eccezione), che ha in sè elementi onirici e che usa la guerra tra i cartelli messicani come un'esca, o meglio un MacGuffin, nei confronti dello spettatore.

Se il film funziona, molto lo si deve a Daniel Faraldo, navigato caratterista di origini argentine che ha frequentato cinema e serie americane quasi sempre in ruoli da villan, e che interpreta Santiago, uno sgherro apparentemente monodimensionale, coinvolto, suo malgrado, in un pericoloso percorso di redenzione e di catarsi. Tra situazioni e dialoghi alla Tarantino (come quello che avviene nella cella in cui sono custoditi i cadaveri) e qualche sequenza splatter (una, in sostanza) si arriva alla conclusione, che ancora una volta coniuga violenza e sacrificio con una dimensione quasi onirica.

Non certo un capolavoro, più che altro un film curioso. Attenzione perchè con lo stesso titolo italiano è stato distribuito anche un altro film, Running with the devil, con Cage e Fishburne, del 2019.

La legge del cartello è su Prime video.

giovedì 23 dicembre 2021

Blood Incantation, Hidden history of the human race (2019)

Americani di Denver, i Blood Incantation, nonostante una discografia non certo folta (due album in dieci anni di carriera) hanno avuto la capacità di intercettare i favori unanimi della critica, sia quella propriamente metal, che quella, più esigente, indie rock. Gia il debutto Starspawn, del 2016, era stato notevolmente attenzionato, ma è senza dubbio il successivo Hidden history of the human race, di tre anni più vecchio, ad aver definitivamente messo la band sotto i riflettori. 

La differenza tra i due lavori parte dalla copertina, che, non fosse per lo stile grafico del monicker che rientra nel classicissimo modus del black, sembrerebbe orientare più al prog-rock che ai generi estremi del metal, di norma rappresentati da copertine con soggetti un pelo più espliciti. Premendo play sul lettore sembra però che la band faccia una finta a sinistra (la cover spiazzante) per poi andare via (come da tradizione) a destra sbattendoci in faccia, con Slaves species of the gods, un indiscutibile, chiarissimo, coinvolgente pezzo death. Come a dire: questo siamo e questo facciamo. La successiva The giza power plant va nella stessa direzione, ma con la differenza di un lavoro di riffing chitarristico che emerge in maniera ancora più nitida, dimostrando come i BI abbiano lavorato sulla produzione per ottenere sì un'apocalissi sonora, ma dalla quale si possa apprezzare la tecnica di ogni componente e quindi sorridendo al technical-death. Le suggestioni della copertina si coniugano finalmente con il contenuto del disco dalla traccia tre, la strumentale Inner paths (to outer space), perfetta colonna sonora per un'ipotetica pellicola di fantascienza, dove psichedelia, atmosfere ansiogene, chitarre pulite, doppia cassa e progressive si coniugano in maniera (fino a quel punto del lavoro) insospettabile. Ma forse tutto quanto fin qui ascoltato è semplicemente preparatorio del gran finale, il colossale Awakening from the dream of existence to the multidimensional nature of our reality (Mirror of the soul), che in diciotto minuti mette in mostra molte delle influenze dei Blood Incantation, tra cavalcate death, rallentamenti, passaggi doom e metal eighties, a chiosa di un'opera che non può lasciare in alcun modo indifferenti e che crea grandi aspettative per il futuro della band.

Le radici e le ali del nuovo metal.

lunedì 20 dicembre 2021

E noi come stronzi rimanemmo a guardare (2021)

Arturo è il manager di una grande azienda, responsabile della creazione di un algoritmo che permette importanti risparmi grazie alla riduzione di diverse figure professionali. Per la legge del contrappasso, uno dei primi posti a saltare è proprio il suo. A causa della non più giovane età e dei debiti contratti, Arturo non trova altro lavoro che fare il rider. In uno scenario di futuro prossimo, dove il potere dei big data è totale, l'ex dirigente, sempre più solo e demotivato, attiverà un'applicazione che permette di avere un affetto sempre con sè sotto forma di ologramma, costruito in base alla personalità e agli interessi del cliente. Ad Arturo capita Stella.

Ci sono tanti modi di fare denuncia sociale. Chissà perchè in Italia sono ormai in pochi ad esplorarli. Qui lo fa bene Pif (Pierfrancesco Diliberto), andando a mio avviso a grattare via la ruggine ad un cinema italiano d'altri tempi che, flirtando con il grottesco, metteva in luce le contraddizioni della società. Fatte le dovute proporzioni, E noi come stronzi restammo a guardare (gran bel titolo, che utilizza una frase di Andrea Camilleri) mi ha ricordato in alcuni suoi aspetti la cifra stilistica di Elio Petri, oltre naturalmente ad un'opera come Her di Spike Jonze. Il futuro prossimo messo in scena da Pif è in realtà già presente in molti suoi aspetti: il rifugio nella "realtà" della rete per sfuggire alla solitudine, il fenomeno degli hater, e, ovviamente, sopra tutto, il mercato del lavoro, con le sue croniche precarietà, l'incertezza perenne nella quale fa precipitare giovani e non più giovani, l'odiosa  prosopopea dei moderni guru delle multinazionali, che dietro slogan esorbitanti serbano per i malcapitati le mansioni più sfruttate, malpagate e disumane. La storia narrata sarà anche proiettata qualche anno nel futuro, ma, ad esempio, la vita dei rider è già oggi esattamente quella mostrata nelle sequenze del film. 

Una pellicola dunque a suo modo importante, da vedere. Girata bene, con un ottimo lavoro di ricerca delle location scelte per raffigurare questa ipotetica città del futuro (che, seguendo l'esempio storico di Dario Argento, è un mix di diverse città italiane). Molto convincente, ma ormai non è più una novità, Fabio De Luigi (Arturo), così come apprezzabile la prova di Ilenia Pastorelli (Stella). 

E noi come stronzi restammo a guardare è in programmazione su Sky.

lunedì 13 dicembre 2021

Bob Wayne, Rogue (2021)

Non siamo dalle parti dello stallo di Hank 3, praticamente scomparso da produzione discografica, concerti, vita pubblica e social  dal 2013, ma insomma, per uno come Bob Wayne, che dal 2006 al 2017 aveva pubblicato nove dischi in dieci anni ed è stato costantemente in tour, una iato di quattro anni dall'ultimo Bad hombre è comunque significativa. 

Ricordiamo per chi si fosse sintonizzato solo ora sul blog il profilo del personaggio (tutti i post a lui dedicati sono taggati a destra e in calce a questa recensione), che vive in un camper, ha sposato in pieno la causa hobo/outlaw country, si guadagna da vivere con show e merchandise (del tipo abbastanza reazionario - se volete farvi un'idea... - ), girava con Hank 3 e tra i vari tatuaggi ne ha sul braccio uno bello grosso dei mitologici Neurosis (anche qui, per chi vivesse sulla luna, non fanno country ma metal estremo). L'ho visto una volta dal vivo poco meno di una decina di anni fa, e, data la location a misura d'uomo, ho avuto modo di scambiarci due parole, ricavandone l'impressione di un tizio affabile, ma da non far incazzare. 

Torniamo a bomba, Scrivevo di quanto sia significativo l'orizzonte temporale trascorso dall'ultima release. E' molto significativo anche il mood scelto per il comeback dopo tutto questo tempo: atmosfere scarne su di un sound quasi completamente realizzato da voce e chitarra, testi nei quali caciara e goliardia sono sostituite da temi malinconici, tesi e drammatici. Insomma, fate le debite proporzioni, Bob Wayne ha realizzato il suo personale "Nebraska".

Non si scandalizzino gli sprigsteeniani (pericolosissima categoria della quale faccio parte) nel vedere accostato un capolavoro scolpito nel tempo ad una nuova e misconosciuta opera, perchè brani come la title track che apre il lavoro, Promise land, Daddy, Painpill Kentucky e, soprattutto, Killin' (per chi scrive non solo la migliore del lotto ma anche nella top five assoluta delle canzoni di Wayne), con le loro fotografie sporche di esistenze alla deriva, promesse tradite, rapporti difficili padre-figlio, disillusioni e abbandoni hanno piena dignità di richiamare la poetica dello Springsteen più intimista e sociale. Poi certo, Bob Wayne (ma come del resto Johnny Cash, per tirare un'altra bestemmia di paragone), oltre ad essere un debosciato, ha tutt'altra sensibilità politica rispetto al democratico Boss, per cui la cazzata della ode allo spacciatore che vende droga per mantenere la famiglia (Eu rezo), perlomeno nei termini in cui è scritta, lo allontana irrimediabilmente da ogni nobile paragone. 
La seconda parte del disco si scuote un pò di dosso le atmosfere plumbee (ma estremamente suggestive) della prima, aggiunge qua e là qualche abbellimento strumentale, ripropone uno dei tormentoni del repertorio di Bob (Mack) fino alla chiusura di Heard it all before, dove l'artista riprende la sua vena scanzonata e ironica.

Con Rogue Bob Wayne regala senza dubbio al suo pubblico un disco maturo, una delle sue opere migliori di sempre (i primi cinque pezzi acustici sono un apice creativo), smettendo la maschera dell'irriverenza e rivelandosi finalmente artista compiuto.

A primavera sarà in Italia.

lunedì 6 dicembre 2021

Draft day (2014)


Sonny Weaver jr è il general manager dei Browns, la squadra di football americano di Cleveland. Il suo ruolo, tra le altre cose, gli impone di allestire la rosa attraverso la compravendita di atleti che in America ha il suo apice nella spettacolarizzazione del cosiddetto draft day, cioè la possibilità data alle squadre peggio piazzate nella stagione precedente di accedere per prime alla scelta dei giocatori più forti emersi dai college. In questo meccanismo si inserisce anche la possibilità di scambi tra le varie società. Sonny affronta questo giorno tra le tensioni con l'allenatore, la sua relazione clandestina con un'altra manager del club e il rimorso per aver licenziato il padre, glorioso coach della squadra, proprio prima che morisse.

Draft day muove su uno spunto interessante, soprattutto per noi europei, approfondire dentro situazioni di finzione, questo meccanismo americano di mercato giocatori (oltre che nella NFL è praticato anche nella lega di basket NBA). Il film è un prodotto che, per restare nella metafora sportiva, gioca in una serie minore rispetto a Ogni maledetta domenica o He got game, tuttavia, nell'addentrarsi nei meccanismi tecnici di questa giornata cruciale per il football, è forse anche più meticoloso nelle spiegazioni, a vantaggio dei non adepti al tema, ragion per cui mantiene una buona dose di interesse per due terzi della narrazione. Diciamo che Kevin Costner (Sonny) e Jennifer Gardner (la finance manager sua amante) girano un pò al minimo, restando comunque sul decoroso (del cast, sebbene in una parte minore, fa parte anche il povero Chadwick Boseman). 
Il problema, almeno per me, sta tutto nel finale, che sposa senza vergogna l'americanismo più bieco, tra fiumi di insostenibile melassa, emozioni cheap e l'affermazione della filosofia a stelle e strisce: the winner takes it all. 

Insomma, un film per curiosi dello sport ammerigano, girato con mestiere dal veterano Ivan Reitman senza alcuna pretesa autoriale.

Draft day è disponibile su Prime Video.



martedì 30 novembre 2021

I migliori della vita: John Coltrane, A love supreme (1965)


Fondamentalmente sono una persona curiosa, sempre alla ricerca di nuovi stimoli in ambito soprattutto musicale. E' per questa ragione che, come ho già scritto in passato, dopo un profondo lavoro di carotaggio di molti generi "rock", ho provato ad avvicinarmi al jazz. Prima leggendo un paio di autobiografie che sono dei veri e propri must (Peggio di un bastardo, Charles Mingus e l'autobio di Miles Davis) e poi passando all'ascolto. L'esperienza è stata molto soddisfacente ma limitata, sia nei dischi (di cui ho scritto qui e qui)  che nell'orizzonte temporale. Da qualche mese invece le mie playlist abituali (auto e smartphone) esplodono di jazz, classico perlopiù (Davis, Mingus, Monk, Parker, Gordon, Rollins, Peterson, Shorter, Adderley),  ma con qualche incursione nel moderno (segnalo a questo proposito il mostruoso trombettista Ambrose Akinmusire e il suo ultimo lavoro Origami Harvest).

Se mi trovo in questa condizione, il merito va ascritto al talento di John Coltrane e... ad una serie di incredibili coincidenze. Dopo aver consumato ed aver interiorizzato ogni nota di My favorite things, sono infatti passato all'altro capolavoro riconosciuto di Trane: A love supreme. E casualità vuole che, proprio mentre le note del disco mi si insinuavano inesorabilmente sottopelle, mi sia imbattuto, a far crescere ulteriormente il mio coinvolgimento, in un commento di Spike Lee che definisce il disco "il migliore di tutti i tempi, di ogni genere" e poi in un virgolettato di Claudio Fasoli, uno dei più apprezzati sassofonisti italiani, che dichiara "quando ero giovane ero ubriaco di Coltrane, non volevo ascoltare altro". 

Entrambe queste dichiarazioni rendono bene, nella loro enfasi, lo stato di dipendenza che crea nell'ascoltatore l'ascolto massivo di Trane e, in particolare, di questo immenso capolavoro, pubblicato nel febbraio del 1965 quando John era all'apice di uno stato di grazia (in quegli anni registrò My favorite things, Ballads, Giant steps, oltre al disco assieme a Duke Ellington). E' straziante pensare che poco più di due anni dopo il musicista ci avrebbe lasciato per un male incurabile. 

La ragione principale dietro allo straripante momento d'ispirazione di Coltrane è senza dubbio da ricercare in due stimoli: il primo l'uscita dalla dipendenza dalle droghe attraverso una disintossicazione totale, che ha anche portato John ad adottare una dieta vegetariana, e il secondo l'incontro con la fede cristiana e la spiritualità. Ed è proprio da qui che muove il concepimento di A love supreme, nato, si narra, durante una sessione di yoga, durante la quale il musicista "sentì" delle note risuonargli in testa e si convinse trattarsi di un messaggio dell'Onnipotente. Da qui la decisione di registrare un disco che fosse un ringraziamento al Signore per averlo salvato. 

L'album è in questo senso un concept, che segue il filo conduttore dei passi compiuti da Trane per rinascere a nuova vita. I quattro movimenti (per trentatrè minuti) che compongono l'opera hanno pertanto una "progressione" di titoli estremamente eloquenti: Acknowledgement (presa di coscienza); Resolution; Pursuance (perseguimento) e Psalm (salmo). Per l'occasione Coltrane (che in questa occasione utilizza sia il sassofono tenore che il soprano) si presentò in sala d'incisione dai fidati musicisti del suo quartetto (Jimmy Garrison al contrabbasso, Elvin Jones alla batteria e McCoy Tyner al pianoforte) senza spartiti o tracce scritte di ciò che si proponeva di realizzare, immaginando di dare grande spazio all'improvvisazione. Questo era un  metodo imparato da Miles Davis, ma che fino a quel momento il sassofonista non aveva mai adottato in maniera radicale.

Il primo movimento dell'opera, Acknowledgement, è probabilmente tra i più noti mai realizzati dall'artista e, al contempo, tra i più apprezzati fuori dal perimetro jazz. Il brano, come succede solo alle composizioni epocali, muove su un pattern apparentemente banale di quattro note. Nella realtà questo tappeto sonoro, che cattura magneticamente l'attenzione dell'ascoltatore, non è altro una cornice  dentro cui si dipanano improvvisazioni che conducono al magnifico finale con il mantra di "A love supreme", unica linea vocale dell'intera opera, un inserto cantato inaspettato e forse proprio per questo perfettamente congruo. 
Da lì per i successivi venticinque minuti di durata del disco il quartetto, attraversanti vari sottogeneri del jazz (modal/avant-gard/free/hard-bop, dopotutto siamo nel '65, pertanto in un'epoca di sperimentazione), realizza qualcosa di irripetibile, riuscendo a stupire e coinvolgere l'ascoltatore fino all'ultima nota. E forse anche oltre. 
Delle quattro parti del disco, Pursuance (la parte III) con i suoi dieci minuti abbondanti, è la più lunga,  ed è probabilmente anche quella in cui meglio si apprezzano gli altri musicisti, con solos importanti di McCoy al piano e di Garrison al contrabasso, proprio sulla conclusione del pezzo. Viceversa l'epilogo della parte IV, Psalm, è l'unico in cui il sax tenore di Trane è presente dal primo all'ultimo secondo del brano. E non potrebbe essere diversamente, trattandosi del pezzo più spirituale di un disco... spirituale.

La difficoltà di replicare queste composizioni nate dall'improvvisazione è testimoniata anche dal fatto che rarissimamente (addirittura si pensava una sola volta) A love supreme sia stato riproposto dal vivo nella sua interezza. Solo di recente è stata scovata e messa in commercio una registrazione realizzata il 2 ottobre 1965 a Seattle, con la stessa formazione che ha realizzato l'album. Un'occasione in più per riascoltare, in versione dilatata (per fare un esempio Acknowledgment dura oltre ventuno minuti, rispetto ai sette originari) questo capolavoro.

Insomma, non sono proprio io l'ascoltatore raffinato che si vuole dare un tono parlando (senza averne titolo) di jazz. Con ogni probabilità presto tornerò ad occuparmi di ignorantissimo metal o di country texano. Molto semplicemente c'è un momento per tutto, e quando arriva il tempo di John Coltrane lo si vuole vivere in maniera totalizzante, sentendosi migliori anche senza aver fatto nulla per meritarsi tanta bellezza.

mercoledì 17 novembre 2021

I'm movin'

Scatoloni di cartone a perdita d'occhio e facchinaggio fino allo stremo delle forze, che, nel mio caso, sono molto limitate. 
Eh sì, sono al terzo trasloco (l'ultimo spero, ma non si può dire con certezza) e se il precedente, vent'anni fa, mi aveva devastato, immaginatevi questo, affrontato alla mia non più veneranda età. 
Insomma, abbiamo cambiato casa e per assestarci, tra mobili che arriveranno non si sa bene quando, ricerche infruttuose dello scatolone giusto dove avevamo messo le mutande pulite, oltre beninteso agli impegni lavorativi, ad essere penalizzati saranno gli aggiornamenti del blog. Tanto, in ogni caso, vista la direzione editoriale assunta, orientata pressochè unicamente alle recensioni, ed essendo costretto a diradare i film visti (a parte l'assenza di tempo non ho ancora ristabilito connessione internet e Sky) e, musicalmente, essendo in una fase di totale ubriacatura a base di 'Trane e Miles, probabilmente sarei anche a corto di argomenti. 






lunedì 8 novembre 2021

Bokassa, Molotov rocktail

Dopo un esordio che ha goduto nientedimeno che dell'endorsement di Lars Ulrich (Divide and conquer, 2017) e un "attesissimo" secondo album passato piuttosto inosservato (Crismson riders, 2019) , i norvegesi Bokassa, rispettando la regola autoimposta dei due anni di tempo tra un disco e l'altro, pubblicano il nuovo lavoro: Molotov Rocktail.

A sto giro la band abbandona quasi completamente l'afflato più propriamente thrash/stoner/metal, per concentrarsi su un sound che spazia tra le diverse incarnazioni del punk (pop-hardcore-straight) e il cosiddetto scandinavian rock degli anni novanta (Turbonegro su tutti). 
Lo si capisce quasi subito, dopo un breve prologo strumentale (Freelude), quando parte la scanzonata So long, idiots che si candida ad essere la dedica dell'anno verso quanti non ci stanno propriamente simpatici. Altrettanto corrosiva (e provocatoria) la successiva Pitchfork'r'us, con cantato alla Lemmy ed improvviso coro fanciullesco. 
Con lo scorrere dei brani si fa apprezzare la buona propensione dei norvegesi alle armonie, con incursioni nel groove metal mainstream e chorus quasi arena rock (Low and Behold; Burn it all), fino alla zampata finale del lungo Immortal space pirate 3 -  Too old for this shit, un bel "doomone" che resta l'unica sortita nel metal tradizionale. 
Molto bella, infine, la copertina "da vinile" riecheggiante il mitologico  Heavy metal (il film a cartoni animati del 1981).

Insomma, un disco che, come sempre più spesso ci capita, non sposta nulla nella storia della musica, ma che ha almeno dalla sua spontaneità e divertimento.

giovedì 4 novembre 2021

Freaks out


Nella Roma occupata del 1943, poco dopo la sottoscrizione dell'armistizio firmato da Badoglio l'8 settembre, quattro esseri umani speciali: Fulvio, un uomo completamente ricoperto di pelo e dotato di una forza sovrumana, Mario, con il potere di attirare i metalli, Cencio, capace di comandare gli insetti e Matilde,  una ragazzina che emana elettricità, assieme al loro impresario Israel, animano lo scalcagnato circo Mezzapiotta. A seguito di un bombardamento che distrugge la loro tenda, i cinque decidono di affidare tutti i loro risparmi a Israel, incaricato di comprare documenti falsi e biglietti per l'America. L'impresario però non torna dalla sua missione mentre i quattro freaks, a loro insaputa, diventeranno l'obiettivo del folle nazista Franz, che, grazie a trip lisergici, riesce a vedere il futuro e si convince che solo assoldandoli riuscirà a sovvertire il destino avverso cui il reich e Hitler stanno andando incontro.

Mi capita ormai raramente di vedere un film ed avvertire una voglia, una vera e propria urgenza di commentarlo. E' successo con Freaks out di Mainetti, al quale, lo dico subito anche se deontologicamente non si dovrebbe, troverete assegnato, nell'elenco di titoli che posto bimestralmente, il voto massimo: 5/5. Qui cercherò di spiegare le ragioni che mi portano a questa consapevole sopravvalutazione, anche in relazione ai giudizi, perlopiù tiepidi, della critica togata.

Innanzitutto Freaks out è un gran bel film. Girato da dio, con effetti speciali quasi sempre dosati e coerenti, una fotografia straordinaria, prove d'attore coerenti alla cifra stilistica, soggetto, sceneggiatura, dialoghi di livello. Il villain (importantissimo per la riuscita di un action), interpretato dall'attore tedesco Frank Rogowski, come nel caso di Marinelli per Lo chiamavano Jeeg Robot, è sopra le righe il giusto, quindi centrato. Insomma, il valore artistico di questo film, a parere di chi scrive, è sicuramente da quattro stelle. Si arriva a cinque per un discorso di riconversione industriale del nostro cinema. Da questo punto di vista Freaks out potrebbe essere la produzione italiana più importante degli ultimi trent'anni. A memoria non ricordo infatti, un film ad alto budget che tenta con questa forza di lanciare il cinema italiano fuori dai suoi stantii recinti di film inutili nei quali gli insopportabili protagonisti si parlano addosso senza soluzione di continuità. E prima erano i problemi dei trentenni, poi quelli dei quarantenni, adesso i cinquantenni (forse perchè attori/registi sono sempre quelli nel corso degli anni). Anche basta, eh! 
Potrei sbagliarmi, ma credo sia dai tempi (1997) di Nirvana di Salvatores (che ci riproverà, con budget più bassi, con i due Il ragazzo invisibile) che non si assisteva ad un tentativo così coraggioso e, secondo me, riuscito, di fare, anche dalle nostre parti, cinema spettacolare e mainstream, senza rinunciare all'italianità e all'intelligenza.

Il discorso non può dunque che andare sul regista/attore/sceneggiatore/produttore Gabriele Mainetti, che ha (fin qui), resistito alle sirene che gli chiedevano un seguito di "Jeeg Robot" per concentrarsi invece su quest'opera visionaria, colorata, emozionate ed avventurosa, nata da un soggetto dell'altro enfant terrible del cinema italiano, Nicola Guaglianone. Il lavoro di Gabriele, sia dietro la macchina da presa (guardare per credere la sequenza iniziale del bombardamento aereo) che come direzione attori, è ormai ai massimi livelli. Le prove di un Santamaria (Fulvio, l'uomo lupo) completamente ricoperto di pelo, che sposta tutta la sua performance su sguardo, voce e linguaggio non verbale è impeccabile, così come quella di Castellitto jr (Cencio, il ragazzo insetto), con look tra un cyberpunk e Kurt Cobain, e di Giorgio Tirabassi, nelle vesti dell'impresario ebreo, sono significative. Anche se è della giovane e semi-esordiente Aurora Giovinazzo, nei panni della ragazza elettrica, la prova indiscutibilmente più emozionante.

In un film che prende in prestito e omaggia decine di pellicole, letteratura e fumetti: dall'ovvio Freaks di Tod Browning agli X-Men a Robin Hood (con i partigiani ribelli nelle foreste laziali invece che in quella di Sherwood, guidati da un Max Mazzotta che a sua volta sembra il compianto Flavio Bucci), da Pinocchio (lo sfarzoso circo nazista ingannevole come il "paese dei balocchi") a Le Iene (la sequenza dell'orecchio) e, nonostante una messa in scena se vogliamo molto americana, i creativi dietro al progetto riescono comunque a caratterizzare l'opera con aspetti che non sarebbero mai possibili in un film Marvel o Dc. 
Così i papà che ho visto al cinema con bambini a seguito hanno assistito, credo con imbarazzo, ad una bella chiavata a pecorina tra l'uomo e la donna lupo e ad un protagonista, affetto da un ritardo mentale, l'uomo magnete, che si masturba compulsivamente e senza pudore alcuno. Da non trascurare, infine, la rievocazione reale, seppur in una pellicola di fantasia, di un periodo storico di violenza, deportazioni e rastrellamenti, ulteriore valore aggiunto del film, soprattutto in un periodo in cui chi non vuole vaccinarsi osa paragonare la sua situazione alla persecuzione nazista agli ebrei

Insomma, un film davvero importante, forse, come dicevo, il più importante da molti anni a questa parte per l'industria cinematografica italiana. Personalmente, da appassionato, spiace leggere tanti giudizi ingenerosi espressi con il mignolo all'insù. Se vogliamo trovare difetti lo possiamo tranquillamente fare, da parte mia, ad esempio, avrei evitato la scena della fuga con il cannone, avrei definito meglio i poteri dell'uomo lupo (che a lungo, incomprensibilmente subisce) e, soprattutto, avrei messo qualche fascista, assieme ai nazisti, perchè dal film sembrano essere solo i tedeschi i responsabili delle atrocità commesse, mentre sappiamo che non è stato così. 
Preferisco tuttavia guardare il quadro generale creato da quest'opera, nella speranza (ahimè, più che nella convinzione) che Freaks out possa fare da booster ad una nuova, attesissima e diversa affermazione del cinema italiano.

lunedì 1 novembre 2021

MFT settembre/ottobre

ASCOLTI

PrinceWelcome 2 America
CarcassTorn arteries
Wayne ShorterSpeak no evil
Cannonball AdderleySomething else!
AAVVThe Metallica blacklist
PoppyFlux
AAVVI'll be your mirror: a tribute to The Velvet Undergound and Nico
Bad Religion30 Years Live
BokassaMolotov rocktail
Iron MaidenSenjutsu
Salmo, Flop
Wayne Hancock, Man of the road
John Mellencamp, The good samaritan - Tour 2000
Gang, Ritorno al fuoco
Brandee Younger, Somewhere different
Sami Yaffa, The innermost journey to your outermost mind
Sam Fender, Seventeen going under
Sweet Crisis, Tricks on my mind
Eclipse, Wired
The Royal Hounds, A whole lot of  nothin
Tom Morello, The atlas underground fire
Mastodon, Hushed and grim
Joe Bonamassa, Time clocks
Death SS, Ten
John Coltrane, A love supreme - Live in Seattle
Zac Brown Band, The comeback
Charles Mingus, Pithecanthropus erectus


VISIONI

Omicidio al Cairo (3,5/5)
The lodge (3,5/5)
I magnifici sette (1960) (3,25/5)
Il primo Natale (2,5/5)
Il collezionista di carte (3,75/5)
10 minutes gone (2/5)
Lucky day (2,75/5)
L'uomo che ingannò la morte (1959) (3,5/5)
Imprevisti digitali (3,75/5)
Il buco (2020) (3,25/5)
Affliction (3,75/5)
Valerian e la città dei mille pianeti (3,25/5)
Bullitt (3,75/5)
The host (2013) (3,25/5)
Good kill (3,5/5)
In guerra (4,25/5)
No one lives (3/5)
La rapina del secolo (2020)
The protégé (2,75/5)
Centurion (3/5)
Free Guy (2,5/5)
La grande scommessa (2015) (3,75/5)
Crows zero (3,25/5)
L'assassino (1961) (3,75/5)
L'orribile segreto del dottor Hichcock (3/5)
L'insulto (3,75/5)
Little Joe (3,75/5)
Come ti rovino le vacanze (2/5)
Lansky (2,5/5)
A casa tutti bene (2/4)
Il mostro della cripta (3/5)
Gunpowder milkshake (3/5)
Venom - La furia di Carnage (2,5/5) 
Notorious (5/5)
A cena con il lupo (2/5)
Run (3,75/5)
Il vento che accarezza l'erba (4,25/5)



Visioni seriali

The white lotus (miniserie) (3,25/5)
Coyote (miniserie) (3/5)
La casa di carta,  stagione uno (2,75/5)


LETTURE

Valerio Evangelisti, Il sole dell'avvenire

giovedì 28 ottobre 2021

Il mostro della cripta

Bobbio (Piacenza), 1988. Giò Spada è un ventenne appassionato di cinema che si diletta, assieme agli amici nerd come lui, a girare film horror casalinghi. Appassionato di un fumetto indipendente italiano, disegnato da tal Diego Busirivici, si accorge che nell'ultimo numero sono disegnati con precisione luoghi di Bobbio, inclusa una tomba nella quale dovrebbe riposare un mostro. Quando nel paese cominciano ad avvenire strani eventi, che culminano con un orribile omicidio di cui è incolpato proprio Giò, gli avvenimenti precipitano.

Da spettatore, la mia adesione ad operazioni di questo tipo, che tentano di rilanciare il cinema di genere anche in Italia (dove è stato fortissimo fino agli ottanta), è totale. 
Di Misischia avevo visto in sala The end? - L'inferno fuori e avrei voluto vedere al cinema anche quest'ultima fatica (co-sceneggiata e prodotta dai Manetti). Purtroppo non ci sono riuscito, visto che è stato distribuito poco e per un orizzonte temporale insignificante, ma appena Sky l'ha messo in programmazione l'ho recuperato. 
Il mio giudizio finale media tra l'entusiasmo di cui sopra e l'esito finale della produzione, che, purtroppo, qualche falla ce l'ha. Partiamo comunque dagli aspetti positivi, che sono sicuramente la mano dietro la mdp di Daniele, eccezionale soprattutto quando si occupa delle sequenze cariche di suspance, il lavoro di indiscutibile efficacia di effettistica "analogica" del mitologico Stivaletti (se non sapete chi è fate ammenda) e il buon bilanciamento tra atmosfere horror e momenti di comicità, equilibrio che penso fosse uno degli obiettivi del progetto. 
Tra gli aspetti negativi, lo dico con molto affetto e simpatia, la prestazione amatoriale del cast, a tratti davvero respingente (si salva Lillo, ma anche lui appare a volte come spaesato) e qualche dialogo da rivedere. Insomma, se una pellicola esce al cinema è giusto pretendere un livello di professionalità maggiore, altrimenti si fanno salve le buone intenzioni e si pianta la bandierina dell'omaggio agli action/comedy degli anni ottanta, ma poi si torna esattamente al punto di partenza e il movimento non cresce. 
E sarebbe un peccato, perchè in operazioni come questa si respira forte una smisurata passione per un certo cinema, e io altri film di Misischia vorrei proprio vederli.

giovedì 21 ottobre 2021

Valerio Evangelisti, Il sole dell'avvenire - Vivere lavorando o morire combattendo

Romagna, 1881. Attilio Verardi, ex garibaldino, fa parte di quella vastissima fascia di popolazione che combatte ogni giorno per un posto di lavoro (da operaio o da bracciante) che gli permetta, nella miseria più nera, di mettere qualcosa in tavola e sperare in un domani migliore. In un contesto sociale tumultuoso, popolato da anarchici, rivoluzionari, socialisti di diverse gradazione di rosso, e, dall'altra parte della barricata, una repressione crudele e scientifica delle forze dell'ordine al servizio della protervia dei padroni, l'affiliazione ai movimenti che si propongono di tutelare i poveracci è quasi obbligatoria, ma non priva di conseguenze. 

La mia sinossi del romanzo si concentra su uno dei protagonisti del libro, in realtà l'autore divide la sua opera in tre soggettive, Attilio appunto, la moglie Rosa e il figlio Canzio. Attraverso gli occhi di un uomo, una donna e un ragazzo, Evangelisti ci narra vent'anni di storia italiana, dal punto di osservazione della Romagna, terra attraversata da un attivismo politico fortissimo, contraddistinto, come da sempre nell'ambito della sinistra, da profonde divisioni. Oltre che appassionante, la lettura è un importante remind (per me, per altri potrebbe essere una scoperta) su cosa erano i rapporti di classe nell'Italia post risorgimentale, con i lavoratori che si spaccavano la schiena per compensi che gli permettevano a malapena di sopravvivere, e che erano disponibili a viaggiare ovunque ci fosse una minima prospettiva di lavoro. In questo scenario, Attilio e i suoi sfortunati compagni si spostano dalle bonifiche di Ostia (quelle che di cui i nostalgici attribuiscono il merito al duce) alla Sardegna e fino alla Grecia, in una spirale verso il basso che sembra non avere fine, alla quale si sopravvive esclusivamente grazie ad una solidarietà commovente tra sventurati. Allo stesso tempo vediamo il sadico sfruttamento di braccianti e mezzadri (la famiglia di Rosa), che, oltre ai beni, si vedono privati della dignità, sottoposti come sono a soprusi di ogni genere. Co-protagonisti della narrazione, personaggi realmente esistiti, dai "big" Turati e Costa a figure magari meno note ma che hanno lasciato il loro segno sui libri di storia (e su wikipedia).

Il romanzo fa parte di una trilogia (i capitoli successivi sono Chi ha del ferro ha del pane e Nella notte ci guidano le stelle) che, attraverso il focus sulle generazioni dei protagonisti, copre la storia del Paese fino al 1950 e, se non si fosse capito, lo consiglio caldamente.

giovedì 7 ottobre 2021

Prince, Welcome 2 America

Spulciando un pò il blog, mi sono reso conto di aver parlato quasi nulla di Prince. Eppure c'è stato un periodo abbastanza ampio, diciamo dai primi ottanta ai primi novanta, nel quale l'artista di Minneapolis ha occupato una buona porzione dei miei ascolti. In più, nella comitiva di amici dell'epoca, spesso era l'anello di congiunzione che conciliava i diversi gusti musicali. Piaceva insomma ai fan di Springsteen come a quelli dei Duran Duran, a quelli degli U2 e a chi ascoltava Vasco Rossi. Molti album di quel periodo (ma non Purple rain, con il quale fece il botto in Italia), per motivi squisitamente soggettivi, potrebbero tranquillamente rientrare nella lista dei miei dischi da isola deserta (1999, Around the world in a day, Parade, Sign o' the times, Lovesexy). Da li in avanti mi sono spostato su altro e poi, beh, la storia di Prince è nota, le proteste contro le major, la rinuncia al nome, la bulimia discografica, i dischi finiti e bloccati, gli anni zero un pò in ombra, la morte nel 2016.

Welcome 2 America non è il primo suo disco postumo (il terzo, per la precisione) e, come spesso mi accade, non so esattamente perchè abbia deciso di ascoltarlo, a differenza degli altri, fatto sta che l'ho fatto e ci sono rimasto sopra anche parecchio. L'opera non è il capolavoro che da qualche parte ho letto, probabilmente in qualche giudizio prevalgono i sentimentalismi per l'uomo che non c'è più. La tracklist avrebbe bisogno a mio avviso di una sforbiciata di brani e, inoltre, alcuni pezzi dubito avrebbero visto la luce se Prince fosse ancora tra noi, tuttavia un nucleo di sei - otto pezzi è di assoluto valore. A partire dalla title track, uno spoken che rimanda, nelle modalità e nelle tematiche sociali trattate, alla buonanima di Gil Scott-Heron. Poi abbiamo il classico soul nero princiano di Born 2 die, il power pop di Hot summer, l'hip hop di Check the record, la ballatona a forti tinte erotiche When she comes e la perfetta gemma di chiusura One day we will all B free

Insomma, a giudicare da buona parte di queste canzoni, i cassetti lasciati da Rogers Nelson pare abbondino di roba buona. Purtroppo non è lui a selezionarla e deciderne il rilascio, ed eventualmente anche a metterci mano per correggerne in difetti, pertanto i diamanti vanno un pò separati dalla fuffa, ma anche così i (ritardatari) nostalgici degli anni che furono, dovrebbero trovare pane per i loro denti.

lunedì 4 ottobre 2021

Coyote (2021)

Ben Clemens, integerrimo agente di frontiera americano, va in pensione dopo una vita a respingere i migranti clandestini. Divorziato, conduce una vita sostanzialmente solitaria che era riempita dall'assoluta dedizione che metteva nel lavoro. Conclusa l'esperienza nella "migra" decide di dedicarsi a completare la costruzione di una casa che il collega e amico Javier, morto, aveva iniziato al di là del confine, in Messico. Incolpevolmente, sarà invece vittima delle attenzioni del "cartel".

Lo ammetto, mi ha fatto un enorme piacere rivedere in un progetto che confà alle  sue caratteristiche, Michael Chiklis (non vi devo dire quale sia stato il suo ruolo della vita, vero?) e le aspettative, leggendo in giro giudizi incoraggianti, erano state anche abbastanza alte. Alla fine questa nuova serie, la cui prima stagione consta di sei episodi (una scelta probabilmente dettata dal contenimento dei costi di produzione data l'incognita del responso del pubblico), vive di alti e bassi. Si regge su un buon bilanciamento ritmo/tensione e ha in Chiklis un personaggio tutto sommato credibile, invecchiato e un pò appesantito rispetto ai fasti di dieci/quindici anni fa (beh, un fuscello non lo è mai stato), ma, se i produttori intendevano conferirle un afflato realistico l'obiettivo non è raggiunto e, anche se è apprezzabile il tentativo di far emergere le contraddizioni della morale americana, non si sfugge  dai luoghi comuni e dall'immagine folkloristica dei messicani.

Vedremo se la seconda stagione raddrizzerà un pò il tiro. Per adesso una grande pacca sulle spalle a Michael, ma il voto è una sufficienza stiracchiata.

Disponibile su Sky e Now TV.

mercoledì 29 settembre 2021

Ministri, Cronaca nera e musica leggera (EP, 2021)




Mi ha fatto proprio bene questo prolungato digiuno dalla musica dei Ministri, di cui non ascolto un disco con l'attenzione appropriata da almeno un lustro. Oppure, più semplicemente questo EP è uscito nel momento giusto. 
A prescindere. 
Quanto c'era bisogno della feroce poesia punk dei quattro milanesi in questo tempo devastato e vile (citazione di un altro artista milanese)?

La domanda è retorica. Ce ne era bisogno eccome. Tanto più che la band mette da parte i (legittimi) tentativi di evoluzione del proprio sound, tornando a pestare duro come tanto ci piace. 
Sarà la nostalgia, ma anche a livello di testi ho trovato Cronaca nera e musica leggera molto ispirato, con tante riflessioni corrosive che ben fotografano, ancora una volta, la società attuale. Pensiamo solo come quel passaggio del testo di Bagnini che recita: "niente scenate al centro commerciale" concretizzi in tre parole la quotidiana alienazione. Così come intenerisce, nonostante la violenza sonora, il riferimento a De Andrè dentro Peggio di niente ("improvvisamente ho visto Nina volare"), anche se, dovendo indicare il mio brano preferito vado deciso sull'esaltante title track, che si presta a grandi singalong dal vivo. 
E a proposito di concerti, chissà se sarà la volta buona per vedere i Ministri dal vivo, dopo decine di occasioni perse anche con show ad uno sputo da casa mia. 

Insomma, Cronaca nera e musica leggera è un ritorno breve ma intenso, che conforta e rassicura. Mettiamoci poi che ultimamente reggo molto meglio i dischi brevi (massimo otto tracce) che quelli più corposi, e l'esaltazione è servita.

giovedì 23 settembre 2021

In guerra (2018)


Laurent, operaio e sindacalista dell'azienda Perrin, è a capo della battaglia che si consuma fuori dai cancelli, in tribunale e nei palazzi delle istituzioni e della politica, per impedire ai dirigenti tedeschi di chiudere la filiale dove sono impiegati mille e cento lavoratori francesi.

Poco da dire. Raramente, per non dire mai, mi è capitato di assistere ad un film sulle battaglie sindacali così aderente alla realtà al pari di questo In guerra
La pellicola è l'opera centrale di una trilogia che il regista Stèphane Brizè ha dedicato al mondo del lavoro, i cui restanti film (La legge del mercato, 2015, e il nuovissimo Un autre monde) devo riuscire a recuperare. 
La fotografia che ci restituisce Brizè è nitida e spietata e mi riporta esperienze vissute in prima persona: una multinazionale che non rispetta gli accordi sindacali, delocalizzando, nonostante l'impegno opposto a continuare la produzione a seguito di sacrifici accettati dai lavoratori, l'impotenza della politica (terrificante la sequenza in cui il portavoce del Presidente della Repubblica dice alla delegazione sindacale che la Francia non può immischiarsi con le decisioni delle aziende altrimenti farebbe fuggire gli investitori stranieri), la supponenza e l'arroganza della controparte, e, soprattutto, le divisioni che emergono in seno alle varie forze sindacali con il trascorrere del tempo. E' invece cronaca esclusivamente francese la violenza ai danni dei manager aziendali, che riprende alcuni episodi realmente accaduti da quelle parti.

Lo stile del regista è spesso asciutto, quasi da reportage, con un utilizzo frequente della macchina a mano e dialoghi resi in modo estremamente realistico, come se lo spettatore non fosse sul divano di casa, ma in mezzo a quei lavoratori. Vincente anche l'idea di affiancare all'unico attore professionista, nel ruolo del protagonista Laurent (ispirato alla figura dell'ex sindacalista ed oggi parlamentare Edouard Martin, ed  interpretato con vigore da Vincent Lindon) un gruppo di co-protagonisti, attori non professionisti, che hanno vissuto sulla propria pelle una situazione analoga a quella raccontata. 

Il titolo dice tutto: c'è da tempo in atto una guerra tra le due fazioni che compongono il mondo del lavoro, e quella più debole, una volta si sarebbe definita il proletariato, la sta perdendo. 

Da non perdere.


Visto sui canali di cinema RAI, anche se al momento di scrivere non risulta disponibile su RaiPlay.


lunedì 20 settembre 2021

Mavericks, Play the hits (2019)


Mentre non sono ancora riuscito ad entrare nel mood di En espanol, l'ultimo album in ordine di tempo (2020) per i miei amati Mavericks, scopro per caso che qualche mese prima di quella release è stato da loro pubblicato Play the hits, un disco di cover, sfuggito ai miei radar.

Gli estimatori della band ben sanno quanto a Raul Malo e suoi compagni piaccia allo stesso modo interpretare brani altrui e spaziare tra i generi, passando agevolmente dai Creedence Clearwater Revival (Down on the corner, Hey tonight, Born on the Bayou) ai Bee Gees (How can you mend a broken heart), da Bruce Springsteen (All that heaven will allow) allo standard jazz Blue moon, da Merle Haggard (The bottle let me down; Okie from Muskogee) a Frank Sinatra (Something stupid), i Motley Crue (Dr Feelgood),la musica messicana, cubana, latina in generale, lo swing, il croonering, sempre sull'onda dell'estensione vocale di Malo, una potenza con pochissimi pari in ambito musica "leggera". 

Questa propensione naturale ha ovvio sfogo in Play the hits, che inizia con un paio di country trasformati in tejano, Swingin di John Anderson e Blame it on your heart di Patty Loveless. In mezzo, un altro classicone country: Are you sue Hank done it this way, reso con un possente accompagnamento di fiati soul oriented. Partenza col botto, insomma. Col trascorrere della track list troveranno agevolmente spazio anche le immancabili ballate strappacuore di Malo (Don't you ever get tired (of hurting me) di Ray Price e Before the next teardrop falls di Freddie Fender le più significative), i duetti (Martina McBride su Once upon a time di Marvin Gaye) e un altro tributo ai due re del rock and roll: Springsteen, con una Hungry heart in versione pop jazz, ed Elvis Presley con una Don't be cruel tutta piano e fiati.

Insomma un disco che sta ai Mavericks come un "pisello nel baccello" (cit.). Manca forse l'interpretazione che fa scattare in piedi dallo stupore, ma il medione generale è sempre più che soddisfacente.

P.S. Mentre mi documentavo per questa rece ho scoperto che la band, nel 2018, ha anche pubblicato un album di canzoni natalizie. Ottimo, tornerà buono per le prossime festività


lunedì 13 settembre 2021

Imprevisti digitali (2020)


Tre cinquantenni (Marie, Bertand, Christine) vicini di villetta, affrontano i fallimenti della propria vita e gli insormontabili problemi economici che ne mettono a rischio non solo la proprietà dell'abitazione, ma anche la banale sopravvivenza quotidiana. In tutto ciò, per ragioni diverse, i tre hanno gravi problemi con i social, il mondo del web in generale e le nuove dipendenze del ventunesimo secolo.

Se ci si limita alla locandina, Imprevisti digitali potrebbe apparire come una delle tante innocue commedie che l'industria cinematografica francese sforna a ripetizione. Ma quando si ha a che fare con la coppia di registi/sceneggiatori Benoit Delèpine e Gustave Kerverne (Louise Michel; Mammuth; I feel good) niente è come sembra. 
I due, infatti, portano come di consueto sullo schermo le nevrosi, il mal di vivere, il disallineamento cronico, concentrando questa volta il proprio sguardo su tre analfabeti funzionali, verso i quali nonostante tutto si prova, col trascorrere della narrazione, un profondo affetto. La rappresentazione, attraverso questi character, di uno strato sociale che è uscito velocemente (a causa di un lutto, di un divorzio, della perdita del lavoro) da una condizione di agio che pensava di aver raggiunto e che sfoggiava attraverso lo status borghese della villetta pagata con un pesante indebitamento con la banca, fotografa in maniera spietata le universali contraddizioni del nostro tempo che ha disintegrato le classi sociali, e con esse la forza collettiva in essa custodita.

Utilizzando la leva del sarcasmo e attraverso la lente deformante del grottesco, Delèpin/Kerverne mettono straordinariamente bene a fuoco lo smarrimento di una generazione finita allo sbando proprio quando ha raggiunto l'età in cui, in passato, si raggiungeva la stabilità. Quello del rapporto con internet e i social è allo stesso tempo un tema del film ma anche un mcguffin, che serve ai registi per sfogare ancora una volta la propria vena anarchica, mostrare l'alienazione di ognuno di noi, la lotta impari tra l'uomo e la Macchina. Tuttavia i due registi non perdono la loro vena poetica e sognante, come dimostrano bene gli ultimi istanti del film. 


giovedì 9 settembre 2021

Kaleem Aftab, SpikeLee: Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola

Contrariamente alle apparenze, Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola non è scritto da Spike Lee. La scelta di far comparire sulla copertina del libro il solo nome del regista americano, e non quello del vero scrittore della bio, Kaleem Aftab, rientra in quelle strategie di vendita antipatiche ed inutili alle quali, evidentemente, le case editrici non sanno rinunciare. Questa cosa mi è stata particolarmente sulle balle, ho comprato il libro pensando di avere tra le mani un certo tipo di opera e invece me ne sono ritrovata un'altra. Probabilmente, vista la mia passione per le biografie e per il cinema, l'avrei comunque scelto, ma perchè prendere per i fondelli i lettori?

Al netto di questo mio sfogo (scusate, ma ce l'avevo qui) la biografia di Lee risulta certamente interessante per qualunque cinefilo. Aftab sceglie la modalità del racconto orale (per intenderci è in stile cronistico e fitta di virgolettati) e chi, come me, cerca in queste opere la descrizione minuziosa di tutto quanto sta dietro al lavoro dell'artista più che i sensazionalismi o le dipendenze (sesso, droga o alcol) troverà piena soddisfazione nell'arco delle oltre cinquecento pagine dell'opera.

I capitoli del libro, infatti, dopo una prima parte dedicata alla giovinezza di Spike, sono suddivisi  per ciascun film diretto dal newyorkese, dagli esordi fino a Inside man (il libro è stato pubblicato nel 2006/2007) e sono fitti di notizie e curiosità dietro alle lavorazioni, i set, la scelta del cast, i finanziamenti, le polemiche. L'autore peraltro si destreggia molto bene nel tratteggiare Lee, non nascondendo le tante contraddizioni etico-morali del regista ed evitando con successo di cadere nell'agiografia, al punto che, alla fine della lettura, mi sono ritrovato a pensare all'uomo con più antipatia di quanta ne avessi prima.  
La stima per i suoi lavori migliori (per i quali purtroppo dobbiamo andare indietro di almeno quindici anni) resta invece inalterata.

lunedì 6 settembre 2021

Fulci, Exhumed information

 


Cominciano ad essere in molti, almeno a livello di underground metal, ad essersi accorti del valore dei nostrani Fulci. I casertani (Fiore alla voce, Dome alla chitarra e Klem al basso - la band è priva di batterista ed usa drum elettronici - ) hanno avuto importanti riscontri internazionali con il precedente full lenght Tropical sun, pertanto le aspettative per questo album superavano di gran lunga quelle per i lavori precedenti. Pur consapevoli di ciò, i ragazzi hanno dimostrato notevole coraggio artistico e volontà di progredire dal loro canonico campo da gioco death, regalando ai fan del cinema horror italiano una graditissima (per me lo è sicuramente) sorpresa musicale. Ma i segnali che la band si volesse aprire a nuovi orizzonti erano già arrivati qualche mese fa, quando i tre misero a disposizione la loro Death by metal alle rime del rapper Metal Carter (qui il video del pezzo). 

Insomma, era tempo di cambiamenti per lo stile dei Fulci, ma la filosofia, il riferimento primario del gruppo restano i medesimi. Infatti, dopo aver omaggiato il Maestro Lucio Fulci realizzando il debutto Opening the hell gates come un'apocrifa "colonna sonora postuma" di Paura nella città dei morti viventi e il successivo Tropical sun perimetrato attorno a Zombi 2, tra i fan (della band e del regista) c'era non poca curiosità di scoprire a quale opera fulciana avrebbero questa volta rivolto la propria attenzione i musicisti. Spiazzando non poco i bookmakers, la scelta è caduta su un film meno noto rispetto ai titoli più iconografici della produzione di Lucio, il penultimo realizzato dal cineasta prima della sua scomparsa: Voci dal profondo del 1991. 

Exhumed information inizia, come di consueto, con un dialogo estratto dal film di riferimento, per poi spalancare le porte ad un brutal death che, questa volta, volendo fare i pignoli, rinuncia agli aspetti slam (considerati più accessibili) del genere. L'apertura è per Voices, che alterna i violenti assalti a cui bene ci ha abituato il combo ad intermezzi doom, sempre accompagnati da un growl estremamente gutturale, per intenderci siamo dalle parti Cannibal Corpse periodo Chris Barnes. L'assalto sonoro accompagnato da tematiche orrorifiche procede senza sbavature per una quindicina di minuti e cinque pezzi, poi arriva la svolta. 
A partire da Glass, la traccia numero sette, siamo infatti spiazzati da una intro di synth che fa da preludio ad un (per me) meraviglioso tema musicale che tributa con gusto e competenza le colonne sonore dei nostri film di genere (giallo/thriller/horror) degli ottanta. Con questo pezzo si apre a tutti gli effetti la seconda, sorprendente parte dell'album: quattro pezzi realizzati assieme al musicista noto come TV-CRIMES, che rievocano appunto quell'inconfondibile mood che faceva da cornice alle tante (all'epoca) nostre produzioni e che a volte terrorizzavano più delle immagini stesse dei film. Queste composizioni, nelle quali la band compie verosimilmente un passo di lato (graffiando però attraverso i riff doom di Fantasma) lasciando il proscenio al tastierista ospite, ci restituiscono un gruppo che dimostra con forza e tenacia l'autenticità del proprio amore per Fulci e per il cinema di genere di quegli anni, oltre ad una verve artistica che impedisce ai musicisti di accontentarsi di quanto fin qui ottenuto. E non era poco. 

Grande rispetto ed ammirazione dunque per la traiettoria artistica di questa band italiana, apprezzabile anche per la decisione di dedicare la release ad alcuni personaggi da poco scomparsi: l'illustratore Enzo Sciotti, straordinario artista che ha realizzato centinaia di manifesti cinematografici, anche per film hollywodiani (qui trovate la lista dei "suoi" film), Camilla Fulci, sfortunata figlia del regista romano, e al mitico Giannetto De Rossi, truccatore ed effettista, la cui arte è universalmente riconosciuta, non solo dalla sua sterminata produzione italiana, ma anche all'estero (Conan, Dune, Rambo 3, Doctor M, Il proiezionista, Asterix e Obelix e molti altri). 

giovedì 2 settembre 2021

MFT luglio e agosto 2021

ASCOLTI

Halsey, If I can't have you, I want power
Danko Jones, Power trio
Ambrose Akinmusire, Where the heart emerges glistening
Turnstile, Glow on
Murubutu, Gli ammutinati del bouncin'
Tedeschi Trucks Band, Layla revisited (Live at Lockn')
Dennis DeYoung, 26 East, Vol 2
Velvet Insane, Rock 'n' roll glitter suit
John Coltrane Quartet, Ballads
Marc Ribot, Songs of resistance 1942/2018
Sturgill Simpson, The ballad of Dood and Juanita
Megadeth, Unplugged in Boston
Wynton Marsalis, Black code
Ministri, Cronaca nera e musica leggera
Prince, Welcome 2 America
Fulci, Exhumed information
The Descendents, 9th and Walnut
Rodney Crowell, Triage
Rev. Peyton's Big Band, Dance songs for hard times
Ryan Adams, Big colors
Bob Wayne, Rogue
Billy F. Gibbons, Hardware
Buckcherry, Hellbound



VISIONI

Quest'estate, in particolare nel mese di agosto, è stata la stagione del recupero di massa di grandi filmoni classici, che in buona parte, nel corso del tempo, avevo anche acquistato, senza tuttavia trovare il tempo per gustarli nelle congrue modalità (cioè nella certezza di vederli dall'inizio alla fine senza interruzioni di sorta). Difficilmente troverete nel blog la recensione di questi capolavori, figuriamoci, mi spaventa solo l'idea di scrivere un banale post di poche righe per opere d'arte che, in più di un caso, sono state sviscerate da libri interamente dedicati ad esse. Tra l'altro la presenza di questi titoli, di certo ampiamente già visti dalla stragrande maggior parte di miei coetanei, giustifica ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, la ragione per la quale ho sostanzialmente mollato le serie tv. Che senso ha perdere ore di vita per l'ennesima stagione di un serial, quando devi ancora vedere una valanga di film epocali? Insomma, ci si dà delle priorità.

Appunti di un venditore di donne (2,75/5)
Two men in town (3,25/5)
Escape plan (2,5/5)
The drug king (3/5)
Io sono nessuno (3/5)
Il quinto potere (2,75/5)
Snowden (3/5)
Black Widow (2,75/5)
Sgominate la gang! (3,75/5)
I girasoli (3,5/5)
Thor - Ragnarock (3/5)
Colombiana (1/5)
La notte del giudizio per sempre (3,5/5)
Prima pagina (4,5/5)
Pandora (1951) (3,5/5)
Lola Darling (3,5/5)
Stranger than paradise (3,5/5)
Ritorno al crimine (2/5)
Brutti sporchi e cattivi (5/5)
The boss level (3,25/5)
City of tiny lights (2/5)
In ordine di sparizione (3,5/5)
Robin Hood (2010) (2,75/5)
Source code (3,5/5)
Jolt (2,25/5)
Uno, nessuno, cento Nino (3,5/5)
Una giornata particolare (5/5)
Old (3/5)
Ribelli (2,5/5)
Il club dei divorziati (2/5)
C'era una volta a L.A. (2,25/5)
The infiltrator (2,5/5)
Suicide Squad - Missione suicida (3,75/5)
Intrigo: morte di uno scrittore (2,5/5)
The Kelly gang (3,25/5)
Cadaveri eccellenti (4/5)
La ballata di Buster Scruggs (3,75/5)
Il dottor Stranamore (5/5)
Breaking news a Yuba County (2/5)
Intrigo: Dead Agnes (1,5/5)
Grisbì (4,5/5)
Thirteen days (2,75/5)
Il sospetto (1941) (3,75/5)
Intrigo: Samaria (2/5)
Blood father (2,75/5)
Gli occhi del testimone (1959) (4/5)
Innocenti bugie (2,75/5)
La fiamma del peccato (5/5)
Ghost world (2001) (4/5)
Enemy (3,5/5)
L'ultimo yakuza (3,5/5)
Il grande sonno (1944) (5/5)
Malcolm X (3,75/5)
Fatman (2,75/5)
Gangster story (5/5)
Lassù qualcuno mi ama (5/5)
Louise Michel (3,75/5)
Crooklyn (3,25/5)
Un mercoledì da leoni (5/5)
Control (2007) (4/5)
La rabbia giovane (5/5)
To be or not to be - Vogliamo vivere! (5/5)
Il mucchio selvaggio (5/5)
The white storm (3,75/5)
Casablanca (5/5)
Corvo Rosso non avrai il mio scalpo ( 5/5)

Visioni seriali

Omicidio a Easttown (3,5/5)
Preacher, 2 (3/5)




LETTURE

Kaleem Aftab, SpikeLee: Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola

lunedì 30 agosto 2021

Rev. Peyton's Big Damn Band, Dance songs for hard times


Fate un esperimento. Ascoltate The Reverend Peyton's Big Band e poi provate ad indovinare di quanti elementi si compone la band e quali siano gli strumenti utilizzati. Personalmente sono rimasto basito nello scoprire che gli elementi sono tre e gli strumenti tutti legati al passato, ad una musica rurale ma viva e scalciante. 

Parto da qui per scrivere di questa vera e propria fulminazione musicale che mi ha colpito (non certo senza ritardo, visto che la band è in attività da più di quindici anni) perchè se la musica di Dance songs for hard times, undicesimo album in discografia, è clamorosa, lo stesso si può dire per il backgrounds dei singoli componenti e della loro radicale scelta stilistica. Partiamo dal Reverendo J. Peyton, il leader e frontman, che utilizza solo chitarre particolari, originali o repliche degli anni trenta, ma non disdegna di dedicarsi ad una scatola di sigari adattata a strumento a corde. La moglie Breezy Peyton suona il washboard con impeto punk, indossando guanti da lavoro e ditali. Il batterista Max Senteney (per un periodo dietro le pelli sedeva il fratello del Reverendo) picchia invece su un piccolo set di batteria, "arricchito" da un secchio di plastica. Detta così la Big Damn Band sembrerebbe un'accozzaglia di eccentrici freak, e allora torniamo alla domanda di apertura di questo post. Provate ad ascoltarli!

Si può iniziare come ho fatto io con il loro ultimo lavoro, Dance songs for hard times, undici pezzi nei quali il trio svernicia allegramente la musica dei loro nonni del sud con undici pezzi originali, passando con disinvoltura, ma con enorme gusto e capacità di realizzare melodie irresistibili, dal blues del delta (No tellin', when) al rockabilly stile Blasters (Too cool to dance) al più classico soul/rhythm and blues (Dirty hustlin') al rocchettone (che una volta sarebbe stato mainstream) di Sad songs
Ma se questa band da duecentocinquanta concerti l'anno ha un riferimento "spirituale" , egli è da ricercare nella figura del maestro studente Ry Cooder, la cui influenza permea, a mio avviso, tutto l'album, emergendo distintamente in un pezzo come Crime to be poor.

Disco imperdibile per gli amanti della musica old time americana, se ne avessi l'autorevolezza lo piazzerei di certo tra i migliori del 2021.


giovedì 26 agosto 2021

Ghost world (2001)


Enid e Rebecca sono due adolescenti che hanno appena finito le superiori. Ad unirle una solida amicizia fondata sulla loro particolare visione del mondo, letto con una feroce intelligenza che si traduce, apparentemente, in nichilismo e distacco dai coetanei. Nell'estate dopo il diploma però succede qualcosa, Enid è sempre la stessa, costantemente anarchica e alla ricerca di nuove provocazioni, mentre Rebecca comincia a darsi da fare per la transizione verso l'età adulta. Le due, complice uno scherzo spietato, fanno la conoscenza di Seymour, un uomo maturo, che, a prima vista, appare come il classico emarginato sociale.

Basato su di una graphic novel di Daniel Clowes, Ghost World, del regista Terry Zwigoff, vede il debutto di Scarlet Johansson (allora diciassettenne) in un ruolo da protagonista (è Rebecca) e Tora Birch, reduce dal successo di American beauty, in quello di Enid. Non conosco il fumetto dal quale è tratta la pellicola (leggo che in USA è piuttosto popolare) pertanto non saprei dosare i meriti tra opera originaria e trasposizione, di certo c'è che Ghost world è uno dei film più interessanti sullo smarrimento che attanaglia i ragazzi in un determinato momento della loro esistenza. Zwigoff intreccia questo tema universale col grande nulla che caratterizza certa provincia americana, dove la vita si trascina attorno ai soliti pochi luoghi di ritrovo e dove le ragazze per mantenersi fanno le cameriere, sperando un giorno di poter fuggire, senza accorgersi, in un attimo di essere diventate adulte, aver messo su famiglia e radici. Enid (della quale la Birch fornisce un'interpretazione indimenticabile), quasi inconsapevolmente, per inerzia, rifiuta di crescere, ma in questa sua tenace apatia resta sola, perchè l'amica Rebecca è invece risucchiata nella stessa trappola di tutti gli altri. Nell'ambito della storia riveste un'importanza particolare il personaggio di Seymour, che sembra ritagliato appositamente su Steve Buscemi, un adulto che vive nel passato dei suoi miti della musica dixieland, del blues delle origini e dei suoi preziosi cimeli dell'epoca. Egli sembra una versione cresciuta della stessa Enid che, infatti, dopo un inizio nel quale lo vede come vittima perfetta dei suoi scherzi, crea con lui un forte legame.

Ghost world è un film ingiustamente poco noto, in magico equilibrio tra divertimento e malinconia, che ci regala alcuni character meravigliosi ed indimenticabili. 

lunedì 23 agosto 2021

Dee Snider, Leave a scar

 

Terzo album a proprio nome per Dee Snider, dopo il definitivo scioglimento dei Twisted Sister. Confermato il team artistico di questa fase della carriera del grande Dee, a partire da Jamey Jasta degli Hatebreed alla produzione. Confermato anche il mood del disco, che si muove su territori perlopiù attinenti ad un groove metal molto mainstream. Per fortuna, a differenza del precedessore del 2018, il deludente For the love of metal, questo Leave a scar registra una maggiore compattezza, alcuni pezzi anthemici ben riusciti e persino un paio di episodi old school, che fanno enormemente piacere. 

Mettendo un pò in ordine i pensieri: l'avvio del disco è potentissimo, ma, torno a ribadire, un pò spersonalizzante rispetto alla storia di Snider. Ad ogni modo, pur registrando le marcate analogie con il sound di gruppi come Hellyeah o 5FDP, proprio non ce la si fa a criticare tracce dal tiro di I gotta rock (again); All or nothing more; The reckoning o Down but never out: suoni iperpompati, doppia cassa, trigger a manetta, ma il tutto funziona. 
Certo, sfido chiunque non sappia cosa sta ascoltando a ricondurre la cifra stilistica a Dee Snider (è come se Van Morrison facesse un disco con sonorità alla Beyoncè), ma ci sta che  l'ugola del Queens voglia tentare l'ultimo abbrivio per raggiungere quella notorietà che ha (troppo) brevemente accarezzato quasi quarant'anni fa, ai tempi di Stay Hungry
L'azzardo pare peraltro che abbia pagato, vista l'imponderabile entrata nel disco nella top 20 di Billboard, salutata da uno Snider eccitato come un bambino con un post su twitter

Leave a scar è dunque un lavoro piacevole, il migliore dei tre finora rilasciati (qui l'esordio del 2016) dall'ex singer dei Twisted Sister. Resta il fatto che, ascolto dopo ascolto, i pezzi che preferisco sono quelli più canonicamente legati all'epoca d'oro dell'heavy metal: Open season, Silent battles e Time to choose, in cui il nostro è coadiuvato da George Fisher dei Cannibal Corpse. 

E comunque, voci così compatte e potenti, in questo genere, a sessantasei anni suonati, non è che se ne trovino molte, in giro.

lunedì 16 agosto 2021

The Suicide Squad, Missione suicida

 



Ad gruppo di pericolosissimi super-criminali, rinchiusi nel carcere di Belle Reve, viene proposto un significativo sconto della pena in cambio della partecipazione ad una missione letalmente pericolosa su di un'isola centroamericana, teatro di pericolosi esperimenti scientifici. Tra gli altri, fanno parte di questo raffazzonato team Harley Quinn, Bloodsport, Peacemaker e il Colonnello Flag, unico militare (non villain) della squadra.

In periodi di bulimia da cinecomics, in pochi badano al nome del regista. Voglio dire, sono lontani i tempi di Raimi (Spider-man) o dei Batman di Burton o di Nolan. Se in questo caso i produttori hanno piazzato quello di James Gunn ben presente in alto sulla locandina è perchè sapevano quello che facevano. Al regista de I guardiani della galassia, passato alla DC dopo aver rotto con la Marvel (nel frattempo ha ricucito), bastano infatti pochi minuti di film per far dimenticare quella cloaca purulenta che era il precedente Suicide Squad, regalandoci una pellicola nel quale la sua mano è gioiosamente riconoscibile in ogni scena. 

Un film, che, a partire dai personaggi secondari (Dot-Man; King Shark; l'uomo smontabile; la donnola...) per finire all'improbabile mostrone, non fosse per il mega budget e il cast, potrebbe tranquillamente essere un prodotto Troma, leggendaria casa di produzione di B-movie, dove il nostro Gunn si è fatto le ossa (Tromeo & Juliet). 
Con una "mano" così dietro la mdp, Margot Robbie finalmente non sembra spaesata nei panni della Quinn, Idris Elba (Bloodsport) fa bene il suo, e persino John Cena (Peacemaker), pur rielaborando la recitazione degli ipetrofici action anni ottanta, sembra quasi un attore (ho detto quasi). 
L'altro elemento caratterizzante dello stile Gunn è l'armonizzazione della musica con le immagini. Credo siano pochi, mi sovvengono, con modalità differenti, Refn e Tarantino, i registi ai quali il connubio girato/soundtrack riesca bene quanto a Gunn (guardate la sequenza interrogatorio/fuga di Quinn, con il crescendo di Just a cigolò/I Ain't got nobody di Louis Prima a prendersi la scena).

Poche balle: questo Suicide Squad è divertente, esplosivo ed eccessivo. Un intrattenimento di lusso, insomma e probabilmente il miglior film dell'arrancante universo DC Comics (al netto di Joker, che però aveva un tentativo di taglio autoriale). 

Per chi non si fosse ancora vaccinato, dotarsi di green pass varrebbe la pena anche solo per vederlo al cinema.