mercoledì 29 febbraio 2012

Interismi



Ho usato raramente questo spazio per parlare della mia passione per il calcio in generale e in particolare per l'Inter, nonostante questa passione sia, per intensità, molto vicina a quella per la musica. Ho sempre trovato la materia di scarso interesse, considerata la sovraesposizione del calcio in ogni dove mediatico / di vita quotidiana e poi, inconsciamente, c'è sempre l'impressione di occuparsi di un argomento intellettualmente inferiore rispetto alle forme d'arte rappresentate da musica, cinema e letteratura (in realtà non è così, c'è gente che parla di calcio in maniera intelligente e senza fanatismi, ma sono oggettivamente l'eccezione e non la regola).



Per questa ragione, e anche perchè non appartengo alla categoria di tifosi interisti cosidetti bauscia, non ho pubblicato post trionfali sui successi della mia squadra (fatto salvo quello per la vittoria della Champions League, ma era dovuto) e in genere ho sentito l'impulso di scrivere più nei periodi di difficoltà che in quelli vincenti. Quale occasione migliore dunque per tornare a disquisire di colori nerazzurri, che questa impressionante striscia di sconfitte consecutive che stiamo infilando da un mese in qua, in casa e in trasferta, in Italia e in Europa?



Lo dico subito: non sono deluso, incazzato o depresso per questa deriva di gioco e risultati. Considero assolutamente normale l'appannamento che coglie un team alla chiusura di un lungo ciclo di vittorie, e quello dell'Inter è stato uno dei più esaltanti di ogni tempo. Non me la prendo particolarmente con la società, con lo staff tecnico, con i giocatori. Certo, qualche errore di valutazione è stato commesso e più di un'incertezza nell'ambito del mercato si è pure registrata, ma il tutto è accentuato dal contesto generale di chiusura fisiologica di un'era. Ho sempre ammirato l'etica di Ranieri e non è un caso se nemmeno a lui sia mai capitato in precedenza di fallire l'obiettivo del risanamento sportivo di un team.


Sono annate così, nelle quali, contrariamente a quelle predestinate al successo, tutto va male, quelli bravi diventano brocchi e quelli mediocri sprofondano. Ad andar bene ci vorrà un lustro, anno più, anno meno, per tornare a vincere, non serve farsi illusioni.



L'unica critica che mi sento di rivolgere alla società è di natura preventiva. Bisognerebbe non farsi prendere dalla frenesia tutta morattiana che porta a fare e disfare ogni singolo anno, perpetrando scelte tecniche contrapposte e incomprensibili, e costruire invece pazientemente la squadra del futuro sui giovani (qualcuno valido in rosa e nei vari prestiti in giro mi sembra ci sia), a partire da subito, visto che mi sembra chiaro che quest'anno falliremo tutti gli obiettivi stagionali e non si capirebbe il senso di insistere con la vecchia guardia, vistosamente in difficoltà.

E la critica dove sta, direte voi? Nella certezza che la dirigenza nerazzurra, così come insegna la storia, farà l'esatto contrario, facendoci rivivere stagioni di interismi (per usare un termine coniato dal tifoso vip Severgnini) che speravamo archiviate.

martedì 28 febbraio 2012

The healer

Leonard Cohen
Old Ideas
(Columbia, 2012)













E' un sussurro sofferto ma ancora incredibilmente eccitante quello del quasi ottantenne (stiamo parlando della leva del 1934, un anno dopo quella di mio padre) Leonard Cohen. Come una brezza fresca che arriva inaspettata in una giornata torrida a provocarti pelle d'oca e (ne siamo certi) inturgidimento di capezzoli delle ascoltatrici. Il tutto con naturalezza e tanta consapevolezza della propria condizione ( I got no future / I know my days are few / The presence not that pleasant / Just a lot of things to do, da The darkness), a precisare che non siamo dalle parti del vecchietto bavoso fuori dalle scuole con la Spider rossa e foulard colorato al collo, ad adescare ragazine.

Tutt'altro. Old ideas è un disco permeato, e non potrebbe essere altrimenti, di grande spiritualità nel quale la strumentazione è di assoluto contorno rispetto al soffio di voce che Coehn riesce a metterci e alle eleganti sottolineature dei cori femminili, delle tastiere, dei fiati, dei piatti della batteria costantemente spazzolati. Sin dall'autobiografica apertura con l'intensa Going home (I love to speak with Leonard / He’s a sportsman and a shepherd / He’s a lazy bastard / Living in a suit ) Leonard rimette al loro posto tutti i suoi epigoni sia che rispondano al nome di Cave che a quello di Lanegan e compagnia bella.

Più che nel folk, siamo dalle parti del jazz intimista e d'amosfera (con qualche nobile eccezione: Banjo ha la struttura del blues e la conclusiva Different sides, la più vivace del lotto, ha le caratteristiche del brano soul) che sconfina in qualcosa che è strettamente legato alla misticità del gospel, non riesco a dare una definizione diversa ad un brano quale Come healing. L'elemento conduttore è comunque quello di una grande poetica, flash improvvisi, istantanee che smuovono sempre qualcosa nel petto, come nel caso di Anyhow ( The ending got so ugly, I even heard you say / "You never ever loved me but could you love me anyway?").



Un disco riuscito,doloroso e lenitivo al tempo stesso. Mettiamoci anche che, considerati i tempi frapposti dal cantautore canadese tra una release e l'altra (otto anni tra questo e il precedente Dear Heather), Old ideas rischia di essere il testamento artistico di Coehn e il pathos complessivo attorno all'opera è servito.

7.5/10

lunedì 27 febbraio 2012

L'hair-metal è vivo (e lotta con noi) !

Steel Panthers
Balls out
(Republic Records 2011)




Let me cum in Let me cum in Let me cum in your ass tonight!
Let me cum in Let me cum in Let me cum in your mouth tonight!
Let me cum in Let me cum in, baby swallow my creamy load - don't bite!
Let me cum in Let me cum in Let me cum in your mouth tonight...



Beh, potete anche fermarvi qui. Avete copertina e refrain di uno dei brani (Let cum in, traccia numero 13) di Balls out, elementi uno più esplicito dell'altro riguardo al tema portante del Steel Panther-pensiero, non c'è molto altro da aggiungere. A parte che il genere propugnato dai quattro (sia nel sound che nel look) è l'hair metal più becero e ignorante che ha infestato gli anni ottanta. Ah, sia chiaro che i suddetti termini (hair metal anni ottanta, becero,ignorante) per il sottoscritto sono da prendere come complimenti.


Tutto negli Steel Panthers è fermo all'epoca aurea di quel genere musicale, in un periodo in cui sembrava niente potesse fermare le acconciature dei Poison, la misoginia dei Motley Crue, il mascara dei Winger e gli acuti dei Ratt. Ecco, i nostalgici di tutta quella roba lì possono allegramente ritrovarsi nelle tracce dalla uno alla quattordici di questo platter (e nei nick dei componenti il gruppo: Lexxi Foxxx, Starr, Stix...) con una maggiore dose di volgarità da hard-core movie quale bonus aggiuntivo.


Chiarito il contesto, passiamo alle canzoni. Leviamoci subito il fastidio dell'originalità, questo sound aveva detto tutto quello che aveva da dire venticinque anni fa, figuriamoci. In ogni caso ci vuole un certo (cattivo) gusto a mettere insieme un progetto di questo tipo in maniera credibile e in questo senso pezzi come Supersonic sex machine, Just like Tiger Woods, 17 girls in a row, It won't suck itself (guest il mai dimenticato Nuno Bettencourt degli Extreme e Chad Kroeger dei Nickelback), If you really really love me, Weenie ride e la già citata Let me cum in potrebbero dignitosamente stare in uno dei dischi delle band capostipiti del genere. E va da sè che anche questo è un complimento.



sabato 25 febbraio 2012

Album o' the week / The Clancy Brothers & Robbie O'Donnel, Older but no wiser (1995)




Sarà capitato a tutti primo a poi nella vita di comprare un disco solo per un particolare della copertina. Un'immagine artistica, un disegno truce, uno sguardo intenso, una grafica accattivante, a volte magari anche un paio di tette, vah. Penso però di essere il primo ad averlo acquistato per dei maglioni. Classicissimi maglioni irlandesi per la precisione. Quelli bianchi ricavati dalla lana di pecora grezza. Dietro a quattro maglioni così, è stata la mia inappuntabile riflessione, non può che nascondersi grande musica irish! E infatti, seppur ci muoviamo negli ambiti più rodati della tradizione celtica I Clancy Brothers (che scoprirò essere attivi dai sessanta con buoni riscontri negli States) e Robbie O'Connel se la sfangano alla grande maneggiando con padronanza melodie corali perfette per serate alcoliche al pub, giù,lungo la contea di Tipperary. Slainte!

venerdì 24 febbraio 2012

MFT, febbraio 2012

LA MUSICA: in fissa con Ani Di Franco, Which side are you on?. Leonard Cohen, Old ideas. Teatro degli Orrori, Il nuovo mondo. Bruce Springsteen, Wrecking ball.


A ruota Hanni El Khatib, Will the guns comes out. Mark Lanegan, Blues funeral; Litfiba, Grande nazione; Steve Earle, The hard way; Artisti Vari: Chimes of freedom, The songs of Bob Dylan; Steel Panthers, Balls out; Stiff Little Fingers, Inflammable material




IL LIBRO: Carlo Bonini, A.C.A.B.




LA SERIE TV: in fissa con The Wire.


Nei ritagli di tempo Il trono di spade, la seconda di Boardwalk Empire. La sesta di Dexter e Homeland

mercoledì 22 febbraio 2012

Catalogami questo! / 26

Art rock è un'espressione che si riferisce a una vasta famiglia di sottogeneri di musica rock caratterizzati dal tentativo di andare oltre gli schemi standard della canzone pop verso forme musicali più complesse e ambiziose, idealmente dotate della profondità filosofica e tecnica tipica della musica classica (specialmente sinfonica), del jazz o della musica d'avanguardia. Spesso vengono usati vari strumenti come archi e ottoni nel tentativo di allontanarsi dal rock classico. L'eventuale presenza di effettive contaminazioni da questi generi si deve però considerare come accessoria e inessenziale, in quanto scopo dell'art rock è contribuire all'evoluzione della musica rock in sé, esplorandone le possibilità espressive. Si è anche detto che l'art rock trasforma il rock da musica da ballare (connotazione che certamente si può facilmente associare al rock and roll tradizionale) in musica da ascoltare. Le opere art-rock sono spesso caratterizzate da testi ambiziosi e sperimentazione melodica o ritmica.

i critici (e i fan) usano questa espressione, in genere, per distinguere determinati autori e opere da quella che viene talvolta definita (in modo non meno vago) musica commerciale, ovvero musica che non cerca di andare oltre i canoni standard della musica pop, ma anzi si tiene accuratamente dentro quei confini, allo scopo di risultare "rassicurante" o "orecchiabile" al grande pubblico. In questa visione, un sinonimo di significato molto più evidente per "art-rock" potrebbe essere "rock serio" o "rock impegnato" (senza dare a quest'ultimo termine connotazioni legate all'impegno politico). In alcuni casi l'espressione è quasi sovrapposta, in significato, a quella di rock alternativo (alternative rock).


da wikipedia

Gli artisti identificabili con questo stile sono diversi ed abbracciano macrogeneri anche profondamente differenti: Pink Floyd, Moody Blues, Who,The Nice, Emerson, Lake & Palmer, David Bowie, Velvet Underground, Lou Reed, Kate Bush, Beach Boys, Beatles, Muse, Love (Forever Changes) Peter Hammill, Kate Bush, Roxy Music, Genesis, i primi Queen, Laurie Anderson Doctors of Madness, Fugazi, King Crimson, Tool, and Yes.

lunedì 20 febbraio 2012

Hanni El Khatib

Hanni El Khatib
Will The guns come out (2011)

















Non fatevi ingannare dal nome dell'autore di Will the guns come out, non mi sono dato alla musica etnica. Pur avendo Hanni origini filippino-palestinesi in realtà è stato sputato fuori dalla scena di San Francisco dove si era però affermato non in ambito musicale ma nel vasto calderone del movimento degli skaters.

Le scarse informazioni che circolano in rete non ci dicono come sia arrivato ad incidere un disco ne chi siano i suoi collaboratori, ma in fin dei conti chi se ne impippa. Il disco è una sorta di allucinato compendio di generi e stili apparentemente in antitesi ma che qui trovano coerente sintesi, accumunati da una struttura elementare ma efficace che prevede una chitarra elettrica slabbrata a condurre il gioco e il contorno di ritmiche e rdf . Un rock frenetico, industriale (non industrial eh, piuttosto metalameccanico), metropolitano, approcciato come farebbe Beck se si calasse di (più)acido. La tracklist è composta di undici pezzi, otto inediti e tre cover (i Funkadelic di I got a thing già usati dalla Nike per un
commercial , Louis Amstrong ed Elvis Presley); i riferimenti artistici sono numerosi e trasversali: dai Suicide a Jimi Hendrix passando per gli Stooges, i Primal Scream, Buddy Holly e Fatboy Slim. E' musica hard-rock suonata con piglio elettronico che non disdegna richiami ai sixties. E' una manciata di canzoni notevoli, Fuck it, you win; Come alive; la riproposizione di Heartbreak Hotel; Wait wait wait. Il tutto per una durata che non arriva alla mezzora.
Quando si dice breve ma intenso...

7,5/10


sabato 18 febbraio 2012

Album o' the week / Robert Johnson, The complete recordings (1990)




Per la rilevanza storica dell'artista questo doppio cd dovrebbe essere disco del secolo, altro che album della settimana su un blog insignificante. Però, visto che di recente sono stato da Buscemi (uno degli ultimi record shop indipendenti di Milano) e l'ho fatto mio ad un prezzo irrisorio rispetto al peso dell'opera, eccomi qui a decantarne le meraviglie. The Complete Recordings di Robert Johnson contiene tutte le incisioni che il misterioso bluesman del Mississippi ha compituo tra il 1936 e il 1937 (sarebbe misteriosamente scomparso nel 1938 a soli 27 anni). La sua opera ha contribuito a formare innumerevoli generazioni di chitarristi, dalla riscoperta inglese del blues dei sessanta fino ai giorni nostri.


C'è tutto. Ogni singola "take" dei suoi capolavori Sweet home Chicago, Cross road blues, Ramblin' in my mind, Love in vain, Kind hearted woman blues. La puzza di zolfo è compresa nel prezzo.

venerdì 17 febbraio 2012

Black clouds

Posto che se vedrò un solo concerto nel 2012 sarà quello dei Black Sabbath, non mi sono capicollato a comprare il biglietto perchè viste le condizioni generali di salute dei quattro volevo evitare di trovarmi a chiederne il rimborso magari un mese prima dello show (che, per inciso sta gonfiando il cartellone con guest quali Opeth, Trivium, Lamb of god).
Non vorrei con questi cattivi pensieri aver gufato i membri della band, ma guarda la coincidenza è arrivata la notizia che a Iommi è stato diagnosticato un linfoma. Ora, nonostante l'organizzazione si sia sperticata in rassicurazioni sul mantenimento dei progetti (tour e nuovo album), è chiaro che dense nuvole nere si addensino su questo evento.
Incrociando le dita e rinfoderando la postepay nel portafogli, nell' augurare a prescindere good luck a Tony, attendo news rassicuranti.

mercoledì 15 febbraio 2012

L'ultimo scalpo

Appare piuttosto chiaro che tutta questa storia dell’abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori (che non è il divieto di licenziamento ma l’obbligo di riassunzione per un lavoratore licenziato senza giusta causa per le imprese con più di 15 dipendenti) abbia travalicato ogni ragionamento oggettivo e sia diventata mera propaganda governativa, l'ultimo scalpo da offririre agli dei dell'Europa nella speranza di ottenere clemenza.

Ho sentito e letto di tutto sulla tutela introdotta nel maggio del 1970 (con l’astensione del P.C.I. che riteneva tutto l’impianto di legge dello statuto troppo debole, pensate un pò): che è per causa sua se non si sviluppa l’occupazione, che gli investitori esteri non vengono in Italia per questo vincolo, che mette un tappo al turn-over giovani-anziani, che mantiene il Paese in uno stato di arretratezza, che riguarda ormai pochi privilegiati…

A sostenerlo sono più o meno gli stessi che hanno introdotto, da Treu a Sacconi, quasi cinquanta varietà di tipologie contrattuali differenti senza minimamente sviluppare una rete sociale che ne assorbisse il peso, quindi niente mutui o finanziamenti se il contratto è precario, nessuna politica attiva di reinserimento, quasi nulli gli obblighi di assunzione da parte di chi abusa dei contratti a termine.

Ora queste stesse persone fingono di non sapere che razza di imprenditori tutt’altro che illuminati ci siano in Italia, dimenticano che il 98% delle aziende italiche è sotto i 15 dipendenti (e quindi escluse dall'eventuale reintegro dei lavoratori), tralasciano di dire che i licenziamenti sono già possibili per legge (ad es. la 223 del 91), sia per stati di crisi che per ristrutturazione (quindi nelle pieghe della legge basta “la qualunque” per ridurre il numero di dipendenti) solo che è prevista la mediazione del sindacato e quindi il padrone non può scegliere in autonomia a chi far liberare l’armadietto. A questo aggiungiamo il dato degli ultimi anni, solo 31mila ricorsi contro i licenziamenti individuali negli ultimi dieci anni e l’inezia di 310 regolati attraverso l’articolo 18 negli ultimi cinque.

Il problema quindi, esattamente, dove sta? Nell'abbattere l'ultimo ostacolo al pieno e totale arbitrio dell'imprenditore verso i suoi subalterni, nel precarizzare anche il lavoro senza scadenze, nel condizionare vita e attività lavorativa delle persone.

Prima di prendermi dell’ottuso ideologico sarebbe il caso di porsi la domanda se ad esserlo maggiormente non siano quelli che reclamano perentoriamente questo obbiettivo. Obbiettivo che, paradossalmente ma nemmeno tanto, è stato sempre respinto quando propugnato dai governi di destra ed è pronto ad essere impacchettato col fiocco da una coalizione sostenuta anche dal centro-sinistra.
Così è la vita, Cipputi.

lunedì 13 febbraio 2012

Out of time

Van Halen
A different kind of truth
(Interscope, 2012)
















Il primo disco del 2012 è anche il meno atteso, nel senso che non sapevo dovesse uscire un album nuovo dei Van Halen. Invece ecco qui A different kind of truth, a quattordici anni dall'uscita dell'ultimo III, con il breve interregno di Gary Cherone alla voce che aveva sostituito solo per quell'album Sammy Hagar e che qui viene deposto a favore del ritorno di David Lee Roth, per chi venisse da Marte, il primo frontman della band. Altra sostituzione è quella del bassista storico del gruppo, Michael Anthony. Al suo posto un'altro Van Halen (il terzo su quattro componenti): Wolfgang, figlio del guitar hero Eddie.


Il primo pezzo del disco è Tattoo e tutto, da subito, riporta le lancette indietro di quasi trent'anni , il brand infatti è quello reso inconfondibile dalle prime release del combo, un marchio di fabbrica piuttosto preciso al quale i quattro si aggrappano per tentare un rilancio che rischia di essere fuori tempo massimo anche per gli amanti del genere. I pezzi comunque ci sono, magari manca continuità e si cade un pò nella ripetitività, ma tracks quali China Town, Outta space, You and your blues e Stay frosty (unica acustica,almeno in partenza, del lotto) sono valide e divertono. Dovendo fare una scelta tra A different kind of true e Chickenfoot III però la mia preferenza cadrebbe senza dubbio sul lavoro di Sammy Hagar e Michael Antony uscito qualche mese fa, più tosto e coeso.


Curioso come i Van Halen siano forse l'unica band storica dell'hard rock (in senso ampio) americano ad essere stata messa un pò in disparte, anche da un punto di vista iconografico e di lascito artistico (mai sentito dire di un gruppo emergente "ecco i nuovi Van Halen"), dal trascorrere del tempo e dai revival musicali. Non sarà credo questa uscita a far cambiare le cose, ma nemmeno a sputtanare quel poco di eredità musicale residua dei quattro.


6/10

domenica 12 febbraio 2012

Spiderman da capo

Ecco il trailer del nuovo Spiderman. Come ormai noto, non si tratta del quarto capitolo della saga di Raimi, ma un nuovo inizio (i cosidetti reboot). Da quanto si intuisce dalla visione di questi due minuti dobbiamo prepararci ad una svolta più dark(qualcuno ha detto Batman Begins?), con un ruolo centrale dei genitori di Peter Parker (plot del tutto marginale nei comics), la nemesi di Lizard e un costume diverso che sembra ricordare quello della versione fumettistica 2099 di Spidey (su due piedi non mi piace, ma io sono un veeecchio lettore). In U.S.A. esce alla vigilia del giorno dell'Indipendenza.


sabato 11 febbraio 2012

Album o' the week / Steve Earle, Copperhead road (1988)





Copperhead road chiude gli anni ottanta di Steve Earle. Il debutto trionfale di Guitar road è alle spalle e all'orizzonte cominciano ad intravvedersi derive esistenziali per droga e carcere. Ma concettualmente questo disco è emblematico delle diverse anime dell'artista della Virginia. La prima parte perentoriamente politica, la seconda più orientata alle canzoni d'amore e d'abbandono. Musicalmente cominciano ad emergere le influenze irlandesi (la title track e Johnny come lately, suonata con i Pogues),che contraddistingueranno anche in seguito lo stile del musicista, a vantaggio di quelle blue collar rock.


Uno primo, fondamentale snodo della carriera di Earle.

venerdì 10 febbraio 2012

Thrash and snow

Ancora strade innevate, se fossi in età scolastica sarei al settimo cielo, invece, dovendo iniziare la giornata affrontando la rampa dei box innevata e con davanti la prospettiva di proseguirla macinando decine di chilometri a passo di lumaca, sono esasperato.
Prima di uscire di casa mi sono fermato a scegliere un cd congruo ad affrontare la perigliosa giornata che mi attendeva. Cos'è più adatto a questi paesaggi imbiancati? Nick Drake, certo. Enya, e che diamine! E perchè no i Kings of convenience?!? Fanculo, devo guidare, mica stare al caminetto con il brandy che crea l'atmosfera in mano. Ho preso Master of puppets.

giovedì 9 febbraio 2012

Catalogami questo! / 25

Dopo tanti generi "rurali", oggi cambio totalmente ambito, esplorando il downbeat.
La definizione che segue proviene dal sito
storiadellamusica.it , dove potete leggere l'articolo per intero.


Il downbeat
Le radici del fenomeno musicale battezzato dalla rivista inglese Mixmag “ trip hop” affondano nella metà degli anni ’80, quando a Bristol si crea un collettivo di Dj che prende il nome di Wild Bunch: si tratta essenzialmente di un soundsystem con una forte predilezione per l’hip hop, il dub e, più in generale, la battuta lenta (il downbeat), vale a dire tutto ciò che ha un numero di battute per minuto inferiore alle 120.
L’organico del collettivo varia ma tra le sue fila passa gente come 3D, Mushroom e Daddy G, Tricky, Smith & Mighty e Nelee Hopper, vale a dire tutti i protagonisti della primissima ondata del trip hop: i primi tre, nel 1987, formano i Massive Attack ed escono nel 1991 col primo Lp, “Blue Lines”; è il disco che inventa il genere, con un suono che per molti versi risulta ancora acerbo, ma in cui tutte le caratteristiche tipiche del genere sono già presenti : la matrice dub, la vena melanconica dei pezzi e le atmosfere oscure da subito marchio di fabbrica delle produzioni musicali di Bristol.


Quando nel 1994 i Massive Attack danno un seguito al loro esordio,quel suono è ormai diventato fenomeno musicale a sé e il trip hop sta già regalando i suoi primi capolavori: da “Dummy” dei Portishead (di cui fa parte quel Geoff Barrow che in “Blue Lines” figurava tra i produttori) a “Maxinquaye” di Tricky ( ex Wild Bunch che ha collaborato su entrambi gli album di Daddy G e compagnia), passando per l’esordio di Smith & Mighty, Bass Is Material . Nel frattempo un altro ex Wild Bunch, Nelee Hopper, lavorando dietro le quinte come produttore, si rivela altrettanto vitale per la diffusione di quelle atmosfere uggiose: già arrangiatore in quel “Raw Like Sushi” di Neneh Cherry che ha anticipato di due anni buoni la nascita del trip hop, Hopper sviluppa ulteriormente quelle sonorità lavorando con artisti come Soul II Soul, Bjork ( su “Debut” e “Post”) , la Madonna di “Bedtime Stories”, Sneaker Pimps ed Everything But The Girl, curriculum impressionante che ne fa (con Howie B) produttore-chiave per lo sviluppo di un genere che è peraltro al 50% creazione di produttori ed ingegneri del suono.

martedì 7 febbraio 2012

Altrimenti ci arrabbiamo v 2.0




La forma è certamente più professionale e gli effetti più spettacolari, ma a me le scazzottate dei film più leggeri di Jackie Chan riportano alla mente quelle di Bud Spencer e Terence Hill che guardavo da bambino. Botte da orbi, rumori tipo sciac! e tumb! a profusione, ma mai una goccia di sangue sulle faccie degli attori. E' anche per questo, oltre al fatto che si tratta a prescindere di prodotti divertenti, che mi piace guardarli con Stefano. L'unico problema se vogliamo è quello della presenza di Chris Tucker, partner di Chan nella trilogia Rush Hour, che, per ruolo e per vocazione, appena apre bocca partono saravacche di parolacce.

Ad ogni modo, in attesa di reperire il primo e l'ultimo episodio della saga (e anche i due film western con Owen Wilson) , ci siamo dedicati alla visione del secondo che, per inciso, contribuisce anche ad ampliare la formazione musicale di Stefano con l'inclusione di tre grandi pezzi di musica pop (in senso allargato) americana: California Girls dei Beach Boys, Don't stop til' you get enough di Michael Jackson e soprattutto la maestosa rivisitazione di Every breath you take dei Police da parte di Puff Daddy (I'll be missing you) in memoria di Notorius B.I.G.. Puntuale a visione terminata è infatti arrivata la richiesta (accolta, non serve specificarlo) del pargolo di sentirli e risentirli.

Anche questo è un passo in avanti. Da pischelli al massimo si usciva dal cinema dell'oratorio dopo aver visto Altrimenti ci arrabbiamo, con in testa il refrain di Dune Buggy degli Oliver Onions...

lunedì 6 febbraio 2012

New wave of american country music / 5

Moot Davis

Already moved on
2007













Moot Davis fa dell'entusiasmante honky-tonk. O forse è meglio dire faceva, visto che, nonostante si tratti di un nome emergente, dopo due album orientati a questo sottogenere country, con la recente release (Man about town, fine 2011) pare abbia svoltato verso un più sfaccettato patchwork di stili (sempre country) che ad un primo ascolto mi ha fatto venire in mente Raul Malo e i Mavericks. In attesa di approfondirlo ho optato, per presentare l'artista, per il suo secondo album, che sviluppando le coordinate del debutto inserisce nel tradizionale e collaudato perimetro del lascito artistico di Hank Williams sr un pò di personalità in più, avventurandosi anche nei campi da gioco di Johnny Cash (It ain't right) , Johnny Paycheck (sua la conclusiva I'm the only hell mama ever raised) e concedendosi qualche spruzzata di country & western (Way down Town), oltre a centrare con la title track una mammasantissima di ballata con tanto di richiamo al King Elvis Presley. Disco godibilissimo per gli amanti dell'honky-tonk che può essere iniziatico anche per chi questo genere non lo pratica abitualmente.

sabato 4 febbraio 2012

Album o' the week / Nick Drake, Bryter Layter (1970)



C'è stato un periodo in cui mi stavano sulle balle quelli a cui piaceva Nick Drake. La riscoperta di questo artista che nella sua breve vita aveva venduto poche migliaia di copie dei suoi tre dischi aveva riguardato un pò tutto il contesto dei musicofili, critici e appassionati, ma sembrava un avvenimento per pochi (altezzosi) eletti. Questo per un pò mi ha allontanato dalla malinconica arte dell' aristocratico e tormentato inglese, ed è ancora più sconvolgente tornare a scoprire quanto è di attualità oggi che i vari acoustic movement furoreggiano su ogni palco indie che si rispetti.


I tre album incisi da Drake meritano equivalente ammirazione e rispetto, ma le mie preferenze vanno, da sempre, a Bryter Layter, che contiene quattro fra le mie canzoni preferite dell'opera drakiana: Hazy Jane I, Poor boy, One of these things first e, sopratutto, Northern sky. Mettetelo su accompagnato dall'odierno paesaggio innevato e provate a trattenere il groppo in gola, se ci riuscite.

venerdì 3 febbraio 2012

Afternoon in Milan






Quale è stato l'ultimo film di Allen che ho visto per intero? Davvero non ricordo. Ho molto apprezzato il monologo iniziale di Larry David in Basta che funzioni, ma questo non mi è servito ad arrivare ai titoli di coda, giacchè il resto della pellicola perdeva abbastanza vistosamente in tenuta. Per riesumare un'opera completa devo tornare quindi indietro di più di un lustro e a quel gioiellino noir di Match Point seguito dalla trascurabile commedia Scoop. A quanto sento in giro comunque non mi sarei perso granchè. Bene, perchè invece quest'ultimo Midnight in Paris mi ha amabilmente conquistato con il suo tocco leggero, il suo tono svagato, la sua aria sognante.


Questa volta l'alter ego cinematografico di Woody Allen è Owen Wilson nei panni di Gil, insicuro e impacciato scrittore di sceneggiature per il cinema prossimo al matrimonio, che aspira a qualcosa di diverso, e di più artistico, sia nella vita che nel lavoro, perennemente perso nei miti storici della letteratura.
Assecondando il detto "attento a ciò che desideri perchè potresti ottenerlo", Owen/Gil riesce ad incontrare tutti i suoi eroi letterari del passato e a spingersi anche oltre. Il finale, sul motto del "vivi il tuo tempo" se proprio vogliamo è un pò consolatorio, ma tutto sommato coerente con la cifra stilistica della pellicola.


In compenso i cento minuti scarsi di durata di Midnight in Paris passano che è un piacere, tra battute caustiche, musica jazz, poesia e dialoghi surreali, lasciandoti, all'uscita da uno spettacolo pomeridiano a Milano, quella piacevole sensazione di leggerezza (l'ho già detto?) che ti mette di buon umore e ti bendispone se non alla vita, almeno al proseguio della giornata.

mercoledì 1 febbraio 2012

Catalogami questo! / 24

L'espressione post-rock indica, in senso ampio, un genere musicale che utilizza una strumentazione rock (chitarra elettrica, basso, batteria) in modo non conforme alla tradizione del rock stesso, attingendo più da altre tradizioni della musica d'avanguardia quali soprattutto jazz, musica elettronica, krautrock o simili.

L'espressione fu coniata da Simon Reynolds in un articolo sul numero 123 della rivista musicale The Wire (maggio 1994) e si riferiva originariamente a gruppi come Stereolab, Disco Inferno, Seefeel, Bark Psychosis e Pram; il suo significato fu esteso (diventando anche più ambiguo) fino a includere gruppi diversissimi tra loro come Slint, Godspeed You! Black Emperor, Tortoise, Labradford, Mogwai e successivamente Explosions in the Sky e God is an Astronaut. Fra i gruppi "fondatori" del genere i Talk Talk che sul finire degli anni '80 rivoluzionarono la loro musica (in precedenza erano synth-pop).


John McEntire dei Tortoise divenne in seguito produttore di molte altre band come che si ispiravano al sound del suo gruppo. In questo periodo (in cui il fenomeno era particolarmente vivo nella città di Chicago) l'uso dell'espressione post-rock iniziò a diventare più vago, indicando una gamma di stili che variavano dalla musica ambient dei Boxhead Ensemble, al rock dei Radiohead, fino alla musica elettronica degli Stereolab. Anche in seguito all'uso sempre più inconsistente che se ne faceva sui media, l'espressione post-rock cadde progressivamente in disuso nei primi anni 2000 (gli stessi Tortoise rifiutarono di essere etichettati in quel modo); tuttavia, essa viene ancora usata in certi contesti ed esistono tutt'oggi festival "post-rock" o etichette dedicate a questo genere di musica.