lunedì 25 dicembre 2023

Recap + Playlist sciuè sciuè di fine anno (un pò christmas un pò no)

Vorrei ammantarmi di grande virtù morale e sostenere che la sospensione di pubblicazioni sul blog rispondeva ad un periodo di lutto dovuto al trapasso dell'ispiratore di tanti momenti della mia vita ed anche di questo piccolo spazio di scrittura (sì, mi riferisco a mr. MacGowan), ma in realtà queste abbondanti tre settimane di assenza sono dovute al saldarsi di periodi di super lavoro con problemi di salute, che hanno prodotto una disaffezione alla scrittura o anche solo all'idea di postare qualcosa. Ci sono già passato e fu una condizione transitoria, vediamo quanto lo sarà stavolta. Buone feste.

01. A Flock of Seagulls, I ran (so far away) (1982)
02. The Jon Spencer Blues Explosion, Bellbottoms (1994)
03. Ben Vaughn, Dressed in black (1990)
04. Tom Waits, Christmas cards from hooker in Minneapolis (1978)
05. Health, Blue monday (Atomic Blonde OST, 2017)
06. Turnpike Troubadours, Brought me (2023)
07. Twisted Sister, Deck the halls (2006)
08. Kaleida, 99 luftballons (Atomic Blonde OST, 2017)
09. Bob Dylan, It must be Santa (2009)
10. Peter Gabriel, The court (2023)
11. Miles Davis, Larry Carlton, David Sanborn, Paul Shaffer, We three kings of Orient are (1988)
12. AC/DC, Mistress for Christmas (1990)
13. The Ramones, Merry Christmas (I don't wanna fight tonight) (1987)
14. Sinèad O' Connor with Shane MacGowan, Haunted (1995)
15. Trans-Siberian Orchestra, Carol of the bells (2015)
16. Amparo Sanchez, Corazòn de la realidad (2009)
17. Altan, Drowsy Maggie/Rakish Paddy/Harvest storm (1992)
18. Boz Scaggs, Lowdown (1976)
19. David Bowie, Always crashing in the same car (1977)
20. Raul Malo, I said I love you (2001)
21. Babes in Toyland, Handsome and Gretel (1991)
22. Danger Mouse feat. Run The Jewels and Big Boi, Chase me (Baby Driver OST, 2017)
23. Lankum, Go dig my grave (2023)
24
. Afghan Wigs, Debonair (1994)
25. Billy Joel, Souvenir (Live at Carnegie Hall, 1977)


venerdì 1 dicembre 2023

Codladh samh, Shane.

Shane MacGowan è morto. Ha deciso di farlo proprio nel periodo dell'anno in cui, ciclicamente, i Pogues affermano la loro postuma, ironicamente sadica, vittoria sulla società consumistico-capitalistica, grazie all'incomprensibile inclusione di Fairytale of New York in tutte le playlist sparate in ogni dove, da Spotify ai grandi mall. E ogni volta, in mezzo a Dean Martin e Frank Sinatra, ad una Let it snow e una All I want for Christmas is you, sogghigno di soddisfazione quando arrivano i nostri e il testo giunge al punto in cui Shane e Kristy MacColl si scambiano affettuosi auguri, che vanno da "mantenuto, teppista", a "vecchia puttana drogata morente con la siringa nel braccio" per passare a "feccia, verme" e "piccolo frocio da quattro soldi" e concludere con "buon Natale, coglione, prego Dio sia il tuo ultimo".

Questo blog ha il titolo di una canzone dei Pogues, nasce nell'attesa di un loro concerto in trasferta a Brixton. Dunque da un mio legame fortissimo con una band che nel periodo new wave ha portato una contaminazione musicale inedita, per mezzo di un collegamento tra spirito punk e musica tradizionale, riuscendo a creare un volano tra canzoni dimenticate, superate dal tempo, considerate roba da vecchi scorreggioni e la rabbia giovanile degli anni della Thatcher. Un ponte tra una terra martoriata dalla guerra civile e la riscoperta dell'isola smeraldo da parte di milioni di cittadini del mondo (italiani e francesi in testa). 

I Pogues erano una band fortemente politica, in culo ai conservatori inglesi e con una bella manciata di canzoni censurate in Inghilterra (in pratica mezza tracklist di If I should fall from grace with god)  per l'orgoglio con cui affermavano l'identità irlandese, in un periodo in cui l'IRA era attiva e operante. Una band rivoluzionaria e combattente, capitanata da un MacGowan dotato di carisma, allure, di una cultura, l'ho scritto nella recensione di "Una pinta con", che gli permetteva spontanei e frequenti riferimenti al pantheon di scrittori irlandesi, quali i noti James Joyce, l'immancabile Brendan Behan, William Butler Yeats, ma anche altri. Insomma leggi il testo di The sick bed of Cuchulainn e dimmi quanti altri avrebbero potuto scriverlo. 

Quasi ogni canzone degli anni migliori della band (1984/1990), al novanta per cento scritte da Shane, avevano miriadi di spunti politici, culturali, identitari, letterari, poetici, legati alla terra d'origine dei componenti. Shane ci racconta che dopo il terzo album (appunto If I should fall...) non ha più condiviso la direzione stilistica che ha preso la band ma si è trascinato tra assenze, ritardi e condizioni non conciliabili con tour e studi di registrazione. 

Ho avuto l'occasione di vedere i Pogues dal vivo due volte (entrambe documentate sul blog, qui e qui), nell'ambito di tour organizzati fuori tempo massimo (seconda parte anni zero) probabilmente al solo scopo di raggranellare gli ultimi spiccioli possibili, mettendo al centro dell'arena, davanti al pubblico-gladiatore, un MacGowan vittima sacrificale che barcollava, perdeva il filo delle canzoni ed era obbligato ad una pausa nel backstage ogni due-canzoni, ma che, in qualche modo, portava a termine il lavoro.

Il fisico di MacGowan era da tempo minato da patologie certamente riconducibili ad una vita dissoluta segnata da alcolismo e tossicodipendenze. In molti si stupiscono fosse ancora vivo e, al netto del cinismo, c'è da capirli. Gli ultimi segnali al mondo esterno, l'intervista al Guardian e la visita di Springsteen, erano purtroppo indizi estremamente eloquenti sull'approssimarsi dell'arrivo della triste mietitrice.  Eppure, non fosse costretto su una sedia a rotelle a seguito di una brutta caduta, questa pelle dura di irlandese scontroso forse sarebbe ancora qui a dirci di baciargli il culo e noi ad aspettare un suo ultimo disco (di cui parla anche nel memoir scritto assieme alla moglie quasi vent'anni fa), incuranti della mestizia che l'ascolto avrebbe comportato. 

Anche per noi che abbiamo sviluppato un rapporto quasi patologico con la musica, passata la giovinezza si sono diradati i casi in cui, ascoltando una melodia ci si è spalancata un'epifania, siamo stati colpiti dall'equivalente della sindrome di Stendhal per le opere d'arte. A me l'ultima volta in assoluto è successo proprio con una canzone dei Pogues. Non una di quelle più note e celebrate e se è per questo nemmeno una scritta da lui o dal gruppo. Si tratta di And the band played Waltzing Mathilda, una composizione di Eric Bogle attinente uno dei tanti massacri di guerra, nello specifico quello delle truppe australiane mandate come carne da cannone a farsi trucidare a Gallipoli, in Turchia. Il brano chiude il secondo lavoro dei Pogues, Rum, sodomy and the lash e l'interpretazione che ne dà Shane è di quelle memorabili. Così successe che qualche anno fa mi trovavo su qualche vetta verdeggiante della Valsassina, probabilmente dopo una qualche accesa discussione familiare, e, infilate le cuffie e acceso il lettore mp3, mentre camminando lo sguardo si perdeva nel verde dei monti, mi sono fanno inondare dalle note malinconiche e dalle parole cariche di disperazione di questo pezzo, fino alle lacrime. Scelgo lei dunque, anche se, probabilmente, per la vita senza compromessi e per l'irlandesità di Shane MacGowan,  The parting glass,  sarebbe sicuramente un commiato più congruo. 

In ogni caso, finchè funzionerà il camouflage natalizio di Fairytale of New York ad accompagnare il momento di massa più ipocrita dell'anno, l'ultima risata a risuonare rauca e beffarda sarà sempre quella di Shane MacGowan.


lunedì 27 novembre 2023

Diabolik - Ginko all'attacco! (2022)


Quanta acredine nei giudizi sulla seconda parte della trilogia dedicata ad uno dei personaggi a fumetti italiani più noti e longevi. Lo scrivevo nella recensione del primo film, i Manetti compiono un'operazione filologica fino al parossismo stilistico, con le tavole che prendono vita non solo attraverso la formula live action dei personaggi, ma anche e soprattutto attraverso dialoghi e appellativi di character totalmente disallineati da un sano buon senso commerciale. Sì, fanno sorridere alcuni passaggi, che sembrano usciti dallo sketch sui chirurghi di Aldo Giovanni e Giacomo che usavano nomi talmente assurdi da sembrare inventati sul momento (qui un poliziotto si chiama Zeman...), ma se si accetta il tutto come una forma di deferenza (eccessiva?) verso le opere originali, si entra più agevolmente nel mood della storia. Inoltre, da un altro punto d'osservazione, con questo secondo capitolo si affina la cifra stilistica del film. La sostituzione di Marinelli, non proprio a suo agio col personaggio, non solo per una mancanza di verosimiglianza fisica, con il sì monoespressivo, ma perfetto per il "concept" Giacomo Gianniotti, gli evocativi titoli di testa sulle note di Diodato che omaggiano quelli di James Bond,  e un soundtrack che pesca nella migliore tradizione dei titoli di genere italiani dei settanta, uniti alla mano sempre impeccabile dei registi, fanno di questa produzione qualcosa di rilevante che va in direzione contraria al triste mainstream italico. E perlappunto, con tanti film di merda tutti uguali a sè stessi che produciamo annualmente mò vuoi vedere che il problema è Diabolik? 
A giorni nei cinema la chiusura della trilogia.

Su Sky

lunedì 20 novembre 2023

Playlist sciuè sciuè 7

01. Edwin Starr, War (1970)
02. PoppyKnockoff (2023)
03. We Banjo 3, Light in the sky (2018)
04. Raven, Surf the tzunami (2023)
05. Rachel Sweet, B.A.B.Y. (1978)
06. Wilco, A bowl and a pudding (2023)
07. Broken Witt Rebels, Fearless (2020)
08. The Gaslight AnthemPositive charge (2023)
09. Duran Duran, Super lonely freak (2023)
10. Prong, Breaking point (2023)
11. Brad MehldauLife on Mars (2023)
12. Van Morrison, A shot of rhythm and blues (2023)
13. Rosalìa, Di mi nombre (2018)
14. Diana Ross & The Supremes, Where did our love go (1964) 
15. The Rolling Stones, Whole wide world (2023)
16. Graham Parker & The Rumor, Hey Lord, don't ask me questions (1976)
17. Dirty Honey, Won't take me alive (2023)
18. James Blake, Mile high (feat. Metro Boomin, Travis Scott) (2019)
19. Tom Robinson Band, Up against the wall (1978)
20. Paul Young, Everytime you go away (1985)

lunedì 13 novembre 2023

The Rolling Stones, Hackney diamonds (2023)

Per essere uno decisamente orientato al cosiddetto "classic rock" devo ammettere che il sacro fuoco per i Rolling Stones non ha mai divampato in me. Ne è fedele testimonianza la pressochè totale assenza di post a loro dedicati in diciassette anni di blog. Certo, con gli Stones ho pagato a lungo una falsa partenza, quando, da ragazzo, nel periodo in cui facevi esperienze anche comprando a scatola chiusa, il primo acquisto mai fatto per la band fu Dirty work, che si rivelerà essere il peggior titolo da loro mai rilasciato. Tuttavia col tempo ho pagato il debito a questa seminale formazione, con il doveroso riconoscimento ad una manciata di album irrinunciabili, quali Let it bleed (il mio preferito), Sticky fingers e Exile on main st., che sono entrati nel mio pantheon epico, ma insomma , come premettevo, al netto di qualche raccolta (la recente On air, sui primi anni di attività) e qualche live (come l'ottimo Stripped), ho un pò mollato il colpo. Lacuna mia? Sicuramente.

C'è da rilevare che, dopo un periodo - i novanta e gli zero - in cui le uscite degli Stones erano accolte con malcelato disinteresse, la meraviglia e lo sbigottimento nel vedere Jagger e Richards novelli highlander a dispetto degli stravizi dell'età dell'oro, a sgambettare (Jagger) ottantenni sul palco come se non ci fosse un domani, ha in qualche modo ingenerato una nuova poderosa ondata di interesse e rispetto da parte della scena, che ha a sua volta gonfiato un hype d'altri tempi per un disco nuovo di inediti atteso dal 2005 (A bigger bang). Apparentemente gli stessi Stones, che nel frattempo hanno seppellito l'amico e sodale di una vita Charlie Watts, volevano qualcosa di rilevante, potente, melodico, fresco ma sempre molto, molto identitario. 

Per questo scopo era necessario mettere assieme un gruppo di lavoro allargato, cominciando dalla sostituzione della batteria di Watts rispetto alla quale si è fatta la scelta più logica, ingaggiando Steve Jordan, già con la band side project di Keith Richards e con gli stessi Stones per alcune date. Poi andava fatta un'altra scelta delicata: quella del produttore, e qui si è deciso di lasciare la strada vecchia optando per un producer trendy e trasversale, quell'Andrew Watt che negli anni è passato da Post Malone a Ozzy, da Justin Bieber a Eddie Vedder, da Miley Cyrus a Iggy Pop, dimostrando sempre una versatilità (e un talento commerciale) notevole.
Il boost di una produzione scaltra e moderna si sente subito, nell'approccio a Hackney diamonds, con il singolo di lancio Angry (accompagnato da un video delizioso, si può ancora dire?) e una manciata di canzoni dal piglio classico ma dall'impatto estremamente cool e sfrontato, come Get close, Bite my head off, Live by the sword o con un pezzo dal refrain irresistibilmente pop, qual è Whole wild world

Siamo ormai abituati a rockstar più o meno ottuagenarie che ancora gliel'ammollano. Ho notato però un'evidente differenza tra il cantato di un Dylan, dell'ultimo Cash, di Springsteen o di Young e Mellencamp, rispetto a quello di Jagger. Le voci dei coetanei degli Stones portano il segno del tempo, non sono le stesse di trenta, quarant'anni fa. Sono sempre leggendarie e riconoscibili, solo fisiologicamente diverse. Quella di Mick, no. E' la stessa cazzo di voce di sempre. Mettiamoci anche l'intervento della tecnologia in fase di registrazione, ma è comunque un elemento incredibile. Poi, se chiedi a me, io preferisco la maturità delle interpretazioni vocali dei grandi vecchi, ma è una valutazione soggettiva.

Non c'è un disco degli Stones senza ballate, senza blues e, da Some girls del 1978, senza almeno una canzone affidata alla voce di Richards. La regola è confermata anche in questo lavoro, rispettivamente con Depending on you, Dreamy skies (bellissima, un pezzo rurale in odore di Tennessee e Hank Williams), con la ripresa di Rollin' stone di Muddy waters (pezzo da cui la band ha tratto ispirazione per il proprio brand) che qui diventa Rolling Stones blues e, infine, con l'ugula di Keith, qui sì, invecchiata come un bourbon di qualità, che ci porta sulle polverose note di Tell me strenght.

In un disco di questa portata non possono infine mancare gli ospiti. E infatti ci sono, ma si muovono con deferenza, quasi a non farsi scoprire dall'ascoltatore distratto. Eppure parliamo di musicisti del calibro di Elton John, Lady Gaga, Paul McCartney, Stevie Wonder e persino Charlie Watts, le cui sessioni sono state recuperate per un paio di brani, Mess it up e Live by the sword.

E comunque, quando in un disco trovi una canzone, magari un pò troppo satura e retorica, ma dalla diamantina bellezza soul gospel come Sweet sounds of heaven, che gli vuoi dire a sti tre debosciati? Che sia o meno l'ultimo album della vita (e io non lo credo), solo Grazie.

giovedì 9 novembre 2023

Recensioni Capate: Winnie-the-Pooh - Sangue e miele (2023)

Quanto ci piaceva l'idea che qualcuno sfanculasse il più noto e insopportabile personaggio Disney per l'infanzia, trasformando i character originari dei libri di Milne e Shepard in villain da slasher movie? Tanto. E tanta è stata la delusione nell'assistere ad un film che sembra girato da qualcuno che in vita sua non abbia mai visto un singolo horror, al punto che, duole dirlo, ma in questa produzione inglese manca tutto: regia, dialoghi, sceneggiatura, fotografia, prove attoriali, trucco e parrucco. Salvo gli effetti speciali ma esclusivamente per la scelta di optare per l'artigianato e non il digitale. Winnie e Pimpi dovrebbero essere degli animali antropomorfi, ma vengono messi in scena sciattamente come degli uomini con (brutte) maschere di silicone. Il film è talmente atroce che non ti solletica nemmeno quel sano brivido ridanciano delle zozzerie di serie B. Che coraggio mettere in cantiere il sequel!

lunedì 6 novembre 2023

Mine Yndlingsting, settembre ottobre '23

ASCOLTI

The Gaslight Anthem, History books
The Rolling Stones, Hackney diamonds
Brad Mehldau, Your mother should know
Code Orange, The above
Prong, State of emergency
Haken, Fauna
Wilco, Cousin
Brujerìa, Esto es Brujerìa
The Armed, Perfect saviors
Pierpaolo Capovilla, Cattivi maestri
Those Poor Bastards, God awful
Enrico Rava, On the dance floor
F.E.A.R., The record
John Mellencamp, Orpheus descending


VISIONI

Babylon (4/5)
L'impero delle ombre (3,75/5)
Il ritorno di Casanova (3/5)
Cantando sotto la pioggia (4/5)
Ombre rosse (5/5)
La morte corre lungo il fiume (5/5)
Lords of Dogtown (3,5/5)
La parola ai giurati (1957) (4/5)
Rush (3,5/5)
Jailbirds (3/5)
Harper (Detective's story) (3,5/5)
Quando (2/5)
Mr Vendetta (4/5)
Secret Team 355 (2,5/5)
The infernal machine (2,25/5)
Assassinio a Venezia (3/5)
Rischio a due (2,5/5)
Hollywood party (4/5)
La casa delle bambole (3,75/5)
Lake Bodom (3,5/5)
Mirror mask (3,5/5)
A dangerous method (3,5/5)
Ava (1/5)
Stake land (3,5/5)
Dogman (3,5/5)
X - A sexy horror story (3,5/5)
Educazione fisica (2/5)
La notte del 12 (3,75/5)
Devil's knot - Fino a prova contraria (2,5/5)
Old Dads (2,25/5)
Speak no evil (3,5/5)
Cocainorso (2,5/5)
Winnie-the-Pooh - Sangue e miele (1/5)

Visioni seriali

Top Boy - Summerhouse, 1 (3,5/5); 2 (3,5/5)
Il grande gioco (1/5)

LETTURE

Stendhal, Il rosso e il nero
Oliver Stone, Cercando la luce

lunedì 30 ottobre 2023

Dogman (2023)



Durante un controllo stradale notturno la polizia ferma Douglas, una drag queen che guida un furgone stipato di cani. Una volta in centrale, Doug, che scopriamo avere una disabilità fisica che lo obbliga sulla sedie a rotelle, comincia a raccontare alla psicoterapeuta assegnatagli la sua storia. Figlio di famiglia disfunzionale, padre e fratello violenti maniaci religiosi e madre che si salva da quello schifo abbandonandolo, dopo che loro lo chiudono nel recinto dei cani. Quella condizione disumana creerà un'empatia superiore tra il ragazzino e i cani.


Una nuova uscita di Luc Besson non è mai banale o ordinaria e, anche nei film magari meno riusciti, si colgono sempre degli elementi di assoluto valore cinematografico. Questo vale anche per Dogman (il regista ha chiesto a Garrone il permesso di utilizzare il medesimo titolo del film italiano di cinque anni fa), anzi se lo chiedi a me, quest'ultima opera ha decisamente più luci che ombre.
Partiamo da una mia personalissima chiave di lettura, senza la quale, assistendo alle imprese dei cani di Doug, si rischiano impietose analogie con certi film live action Disney anni ottanta. Perchè per Besson era così importante poter usare quel titolo? Perchè laddove Dogman, nel caso di Garrone, era da intendere come l'uomo dei cani, quindi dog-sitter/tolettatore, nella pellicola del francese il significato è da leggere come quello storicamente assegnato ai  super-eroi (con super problemi) classici, alla stregua dunque di Spider-Man, Ant-Man e via discorrendo.

Sono inequivocabilmente mutuate dal mondo supererositico le "origini" dell'eroe (o del villain), che prendono sempre il via da un evento traumatico che dona al personaggio, assieme al potere, una condanna, che può essere morale (la morte dei congiunti per Bat-Man o Spider-Man) o fisico (la cecità di Devil, la deformità di Hulk). 
E cosa succede a Doug? Costretto a vivere per anni in simbiosi con i cani, difendendoli come farebbe un capo branco, condividendo con loro il poco cibo, scaldandosi con il calore dei loro corpi, l'adolescente sviluppa con gli animali una connessione totale, una comunicazione quasi telepatica, per la quale basta uno sguardo o una parola per farli agire come soldati.

Senza questa premessa sovrannaturale temo venga a cadere la sospensione dell'incredulità, a danno del giudizio critico sull'opera. E comunque, anche al netto della mia (contestabile) lettura, credo non possa non essere universale il plauso alla prova attoriale del one man show del film, un Caleb Landry Jones semplicemente spettacolare, che come un magnete cattura su di sè l'attenzione dal primo momento all'ultimo in cui appare in scena. 
Un personaggio dolente, ferito dalla vita, rassegnato al suo fato, che trova asilo solo tra altri reietti come lui (le drag queen di un teatro), gli unici ad accettarlo senza remore. Pur avendo Landry Jones al suo attivo una corposa filmografia, trova qui l'interpretazione della vita, quella per cui qualunque (bravo) attore darebbe un braccio, e la coglie magistralmente.

Insomma, un favola noir da vedere.

lunedì 23 ottobre 2023

Recensioni capate: Herbert Lieberman, L'ospite perfetto (1971)




Secondo romanzo di Herbert Lieberman, che in seguito orienterà la sua scrittura più verso il thriller, L'ospite perfetto è una micidiale bomba ad orologeria che anche prima della sua deflagrazione spazza progressivamente via lungo le pagine ogni tipo di convenzione sociale e perbenismo, mettendo alla berlina l'ipocrisia delle apparenze di una cittadina del sud degli Stati Uniti (ma avrebbe potuto essere una qualunque città di provincia occidentale) e la falsa narrazione borghese della vita, fatta di rapporti superficiali e felicità costruita sul possesso e la sua ostentazione. 
La vita di Albert e Alice, neo pensionati che si ritirano in campagna, passa proprio come la coppia l'aveva immaginata, con le giornate a scorrere operose tra cura della casa e dell'orto, fino a quando non viene minata dall'arrivo di uno strano operaio del gas, che da subito crea curiosità nei due. 
Costui, Richard Atlee, si insinuerà progressivamente e in modo anomalo nella loro vita, facendo inizialmente emergere ferite e vecchi rancori sopiti e provocando poi la reazione bigotta della cittadina, che, a partire dallo sceriffo e dal prelato, emarginerà la coppia, fino alle estreme conseguenze. 
Un romanzo avvincente, atipico, che coniuga suspance, angoscia, malinconia e dramma, regalandoci un un personaggio controverso, magnifico, indimenticabile: Richard Atlee.

Per approfondimenti qui trovate la più ampia recensione dell'amica Mrs Rosewater.

lunedì 16 ottobre 2023

Recensioni capate: Sturgill Simpson, Sound & fury (2019)

Che a Sturgill Simpson stesse stretto il rigoroso taglio d'abito country lo si è capito presto, bastava prestare attenzione a Metamodern sounds in country music o A sailor's guide to earth, tuttavia è con il suo quarto album del 2019, Sound & fury, che il kentuckiano si è lasciato alle spalle ogni frammento residuo del genere con cui ha debuttato, immergendo l'ascoltatore in un progetto fatto di suoni stratificati, fortemente lisergico, con un ruolo centrale dei sintetizzatori che stravolgono ogni pattern, richiamando qui la disco, lì il rock psichedelico. In questo mulinello di suoni avvolgenti e stranianti, la bravura di Simpson sta nel non perdere mai di vista la melodia delle linee vocali che, se astratte dal resto lasciano chiaramente emergere matrici soul, funk, rock e pop. La partenza strumentale con Ronin mette subito in guardia qualunque incauto approccio classicista, e lo srotolarsi delle nove tracce che seguono scolpiscono nell'asfalto (vista la clamorosa copertina) il "tradimento" del musicista rispetto le proprie origini. 
Disco assolutamente rilevante, con picchi compositivi da ricordare, a partire da Remember to breathe, Make art not friends (un messaggio ai suoi detrattori?), e passando per Best clockmacker on Mars, All said and done per finire con Fastest horse in town

Il progetto Sound & Fury è inoltre multimediale, cioè associato ad un mediometraggio genere distopico che miscela diversi stili, dall'anime al live action. Un affascinante mega videoclip che riprende i brani del disco, anch'esso scritto e prodotto da Sturgill Simpson per la regia di Junpei Mizusaki, dello studio Kamikaze Douga (ancora disponibile su Netflix). 

lunedì 9 ottobre 2023

Playlist sciuè sciuè 6


(01) Sinead O' Connor, I am streched on your grave (1990)
(02) Pier Paolo Capovilla, Morte ai poveri (2022)
(03) Justice, Waters of nazareth (2005)
(04) Kingdom Come, Living out of touch (1988)
(05) Billy Idol, One breath away (2014)
(06) Anti Nowhere League, So what (1981)
(07) Libertines, Time for heroes (2002)
(08) Alice Cooper, White line Frankstein (2023)
(09) Electronic, Getting away with it (1989)
(10) Justin Hurwitz, Call me Manny (Babylon soundtrack) (2022)
(11) Baroness, Anodyne (2023)
(12) Marty Stuart and His Fabulous Superlatives, Country star (2023)
(13) The Architets, A match made in heaven (2016)
(14) Dan Hartman, Second nature (1984)
(15) Enzo Avitabile feat Khaled, Abball' cu me (2018)
(16) Those Poor Bastards, Drinking alone (2022)
(17) Jim Carroll Band, People who died (1980)
(18) Wino, Forever gone (2020)
(19) Radio Birdman, New race (1977)
(20) The Mighty Stef feat. Shane MacGowan, Waitin' around to die (2009)

lunedì 2 ottobre 2023

Lettera al mio giudice, George Simenon (1946)

Vista da fuori, la vita del dottor Charles Alavoine sembra il perfetto coronamento di molti obiettivi borghesi. Una solida posizione sociale, una bella casa, due figlie, una moglie invidiata da tutti. E dunque perchè costui si trova in prigione, da dove sta scrivendo una lettera al giudice incaricato del suo caso? Si intuisce abbia commesso un grave delitto, ma perchè? E chi è la vittima?


Romanzo in forma epistolare scritto da Simenon in pochi giorni, nel periodo post-bellico in cui riparò in America in fuga dalle accuse di collaborazionismo, Lettera al mio giudice, come spesso accade per le opere di questo autore, si rivela ancora oggi al lettore con una modernità quasi sconcertante. Alavoine, il protagonista, racconta di sè al giudice istruttore a condanna emessa, quidi non per scagionarsi, ma per spiegarsi. Tuttavia, prima di arrivare al contesto in cui è maturato il delitto, compie un'analisi lucidamente scientifica della pantomima del suo processo, dove sconfessa risolutamente la retorica prosopopea dei suoi prestigiosi avvocati, che scelgono una linea difensiva da lui disapprovata non in quanto debole ma perchè insincera, non corrispondente ai fatti. Da lì racconta della sua vita, un'esistenza tutto sommato ordinaria nella quale però germogliano semi di alienazione ed infelicità causati da scelte di vita imposte da convenzioni sociali che subisce e che, nel tempo, lo schiacciano. 

Alavoine potrebbe essere uno qualunque di noi, che vive la sua vita, fino alla morte, senza nemmeno capire la ragione della sua insoddisfazione, di cosa lo divori dentro, del suo malessere inconscio, e così sicuramente sarebbe, se un incontro casuale, fortuito, non deviasse il corso degli eventi della sua esistenza. Questo evento si chiama Martine, una ragazza debole e insicura, anche lei destinata ad una vita ordinaria, da cui tenta di affrancarsi con atteggiamenti forzati, non coerenti con la sua personalità, che la vedono concedersi ad amanti occasionali, abusi alcolici e comportamenti innaturalmente sregolati.

Tra i due nasce una relazione, ed ecco che, improvvisamente, Alavoine libera il suo personalissimo, represso Mr Hyde. Egli è autenticamente innamorato di Martine, per lei corre dei rischi mai nemmeno immaginati prima, mettendo a repentaglio, per poi sconvolgere, la sua vita borghese, la casa, la moglie, la genitorialità. Ma, e qui sta uno degli aspetti più attuali del romanzo, nel rapporto tra il dottore e la ragazza di provincia, si insinua un veleno: la tossicità di lui che ha scoppi improvvisi di violenza (alcuni passaggi del libro li ho trovati particolarmente dolorosi e indigesti) e di lei che li accetta come inevitabili e, in qualche modo, attraverso distorte elaborazioni mentali frutto di traumi emotivi del passato, meritati.

Nella sua lunga confessione, Alovoine dimostra di essere lucido e presente a sè stesso, comprendendo la gravità dei suoi comportamenti, ma, al tempo stesso, totalmente folle, quando trova delle giustificazioni razionali a quei comportamenti disumani. 

Lo stile di Simenon ci permette di entrare fisicamente nel racconto, di capire tutto, la mente del protagonista, il contesto sociale, l'inadeguatezza in cui si sente intrappolata Martine che diventa terreno fertile per innescare la miccia del represso Alavoine. Più di ogni altra cosa, Lettera al mio giudice, oltre ad essere un romanzo strepitoso, teso, angosciante, potrebbe essere, ancora oggi, un caso di scuola utile a comprendere le dinamiche psicologiche che conducono taluni uomini a comportamenti, dentro il rapporto di coppia, che sfociano in dominio possessivo, intimidazioni, molestie e violenze. 
Un libro, a mio avviso proto-femminista, che ci regala due protagonisti, per ragioni diverse, ugualmente indimenticabili.


P.S. Lettera al mio giudice è stato il mio primo audiolibro. Esperienza nuova e interessante, probabilmente anche grazie alla lettura immersiva di Massimo Popolizio

lunedì 25 settembre 2023

Mr Vendetta (2002)


Ryu è un ragazzo sordomuto, artisticamente molto dotato. Purtroppo deve lasciare la scuola per accudire la sorella gravemente malata e per lavorare, allo scopo di pagarle le cure. Quando capisce che i tempi per un trapianto sono inconciliabili con l'aspettativa di vita di lei, si rivolge alla rete criminale specializzata in trapianti di organi clandestini. Il suo tentativo finirà tragicamente, prosciugandogli le finanze e non solo quelle. Con un amica militante anti-sistema decide allora di rapire una bambina, figlia di un imprenditore, e chiedere, attraverso il sequestro lampo, la somma di denaro necessaria.


Dopo una vita di tempo in attesa di trovare una copia fisica di questo film fuori mercato italiano, il primo della trilogia della vendetta di Park Chan-wook - completata da Lady Vendetta e Old Boy - , mi sono rassegnato ad acquistare un dvd estero con sottotitoli in inglese. Ovviamente il giorno dopo aver ricevuto la consegna del disco ho scoperto che la piattaforma Paramaunt + (a cui ho accesso gratuitamente come abbonato Sky), l'ha incluso nella sua programmazione. Pazienza, dopo averlo visto resto ancora più convinto e soddisfatto di averlo a fare bella mostra di sè sullo scaffale, prima degli altri due capitoli.

Park Chan-wook, qui alla quarta prova da regista, comincia meglio a mostrare la sua poetica, il suo stile di narrazione, i suoi temi, la sua attenzione alla realtà che lo circonda. Già perchè Mr Vendetta, come spesso capita nelle pellicole sudcoreane di genere, infarcisce la sua storia di contenuti sociali. Nei primi dieci minuti del film ci mostra infatti il discrimine sociale nel trattamento sanitario, l'emarginazione dei disabili dentro un'emarginazione sociale più ampia che riguarda povertà, emergenza abitativa, sfruttamento lavorativo. 

E poi c'è il fulcro attorno al quale ruota la storia, che parte da Ryu, ma che successivamente trova altri protagonisti inizialmente inseriti come personaggi di sfondo. Per le prime due delle canoniche tre parti, Mr Vendetta è un film drammatico con punte di ironia nerissima contrassegnata da colpi di sfortuna del fato non lontani, come plot twist, alle sceneggiature più note dei Coen. Nell'ultima parte del film deflagra invece una violenza sorda, ottusa, inarrestabile. A differenza degli altri due film della trilogia però, qui l'esercizio della vendetta non è esclusiva di un unico character, bensì, fino alla sequenza finale, è ripartita su più personaggi, ad ognuno dei quali non rimane che la rabbia cieca e la violenza sistematica per elaborare il proprio lutto, le proprie ingiustizie. Una vendetta ora improvvisata, ora pianificata, inevitabile o imprevedibile (per la vittima), ma sempre ad alto tasso di sangue e sadismo.

Nel cast, assieme al bravissimo Shin Ha-kyun (Ryu), che avrà un ruolo anche in Lady Vendetta, compare l'attore feticcio di Chan-wook, quel Song Kang-ho (il padre della bimba) che, oltre ad essere presente nell'intera trilogia, ci regalerà da lì a poco interpretazioni formidabili in Memories of murder, The host, Il buono il matto il cattivo, L'impero delle ombre, Snowpiercer, Parasite e A taxi driver.  

Un film letteralmente imperdibile (come tutta la trilogia). Impossibile amare il cinema e non innamorarsi di questo regista, questi attori, queste storie.

Paramount+



lunedì 18 settembre 2023

I migliori della vita: Bruce Springsteen, Tunnel of love (1987) - parte due



Al tramonto dell'estate del 1987 arriva nei negozi il singolo che anticipa l'uscita di Tunnel of love. Si tratta di Brilliant disguise, un brano che dal punto di vista musicale non solo non ha niente a che vedere con Born in the USA, ma disconosce tutta la produzione antecedente di Springsteen. L'arrangiamento della ballata è impostato su di un loop che poggia soprattutto sulla nota LA, alternata nelle sue modalità maggiore, seconda e quarta. Sebbene costruita in maniera canonica (strofa/ritornello/bridge) si ha la percezione che la traccia abbia un unico (per me ipnotico, per altri monotono) pattern, dall'inizio alla fine. Il testo anticipa la penombra emotiva di quello che sarà il lavoro completo. Dubbi sull'autenticità dell'amore provato e ricevuto e sospetti di tradimento ne caratterizzano infatti il portato. Sul lato B del singolo l'oscurità si infittisce, con una spettrale Lucky man (outtake che resterà fuori dalla tracklist dell'album), a riecheggiare Nebraska.

Ed eccoci finalmente al "pacchetto completo" di Tunnel of love: dodici tracce che rappresentano (per chi scrive) un malinconico, meraviglioso, controverso viaggio introspettivo negli spazi che intercorrono dentro un rapporto di coppia. Mai prima (e mi ripeto, mai dopo) un disco di Springsteen era stato così monotematico, quasi un concept sul dilemma del sentimento più nobile e affannosamente cercato dall'animo umano, fotografato in una condizione sospesa in cui, neanche fossimo nello splendido film Pixar Inside out, convivono ricerca della felicità, gelosia, momenti di esaltazione, malinconia, fiducia verso il partner ed assenza di essa. 

E subito, con  Ain't got you, l'incipit del lavoro, veniamo catapultati in questa dimensione di ombre (tante) e luce (poca). Nell'errebì alla Bo Didley, il Bruce fresco di matrimonio con la top model ci dice che ha tutti i beni materiali che un uomo possa desiderare (I got all the fortunes of heaven in diamonds and gold/ I got all the bonds baby that the bank could hold ) ma gli manca l'amore (But the only things I ain't got, baby/ I ain't got you) , quasi che, invece che un neo sposo, a cantare sia uno spasimante non corrisposto. Il testo, sebbene per tematiche rientri in una solida tradizione allegorica propria del rockabilly fifties,  è talmente autobiografico nella sua disamina della condizione borghese di Bruce (I got house full of Rembrandt and priceles art (...) /  I been around the world and all across the seven seas / Been paid a king's ransom for doin' what comes naturally) da provocare il rigetto "filosofico" dell'amico Little Steven, cui il brano viene fatto ascoltare in anteprima (c'è da dire che l'ex chitarrista della E Steet all'epoca era all'apice del suo afflato artistico di intransigente denuncia politico-sociale al sistema americano), e che gli rimprovera - a mio avviso con eccessiva severità - un inaccettabile imborghesimento. 

I due pezzi successivi sono gli unici del lotto che possiamo definire happy love songs. Se per Ain't got you, dal punto di vista stilistico, siamo al cospetto di un ritorno alle origini, alle passioni musicali giovanili di Bruce (non a caso dal vivo verrà proposto in un azzeccatissimo medley con She's the one)  per Tougher than the rest è tutta un'altra storia. La batteria di Max Weinberg ha infatti un incedere marziale autoritario, che viene però subito addolcito da una chitarra country honky tonk, e una melodia sinuosa che serve a Bruce per dire alla sua amata If you're looking for love, honey I'm tougher than the rest. Di come il pezzo venga scritto per una donna e diventi poi lo strumento con cui si celebra l'amore per un'altra ho già detto, quindi vado oltre. 

Si diceva dei rumors che volevano Bruce pubblicare un disco country, ebbene pur non corrispondendo questo a verità, c'è indubbiamente una fascinazione honky tonk che emerge a differente intensità in due tre brani. Se in Tougher then the rest questa intensità è solo accennata nell'arrangiamento di chitarra, si palesa senza timore in All that heaven will allow (ripresa non a caso dai Mavericks), secondo e ultimo brano in cui emerge l'aspetto più romantico ed esaltante, gioioso della relazione sentimentale. Con When you're alone chiudiamo in bellezza il cerchio country, attraverso un arpeggio che in quell'ambito trova la sua collocazione, un testo e un cantato che non cerca mediazione musicale alcuna. Una country song fatta e finita insomma, scarna e malinconica come da tradizione, in cui il titolo dice tutto. Mi sono sempre stupito che uno come Johnny Cash, che pure ha più volte coverizzato Bruce (Highway patrolman; I'm on fire; Johnny 99, Further on up the road) o uno come Willie Nelson, per la cui voce il pezzo sembra scritto, non abbiano mai pensato di fare propria questa canzone alla Hank Williams.

E poi ci si addentra nelle paludi dei dubbi di un uomo insicuro e lacerato dai tormenti. La lista dei titoli in cui Springsteen si psicanalizza è corposa, a partire dallo scarno folk di Cautious man dove racconta di Billy Horton, un uomo che vive sospeso, irrealizzato, una condizione condensata in due parole, LOVE e FEAR, tatuate una su ciascuna nocca delle mani (rielaborazione cinematografica dello spaventoso Mitchum de La morte corre sul fiume). Non sfugge alle tribolazioni springstiniane nemmeno la caleidoscopica title track, che, attraverso un massiccio uso di sintetizzatori, realizza la vertigine tipica della giostra in movimento, e con essa le tante insidie di una relazione stabile (It ought be easy / ought to be simple enough / Man meets woman and they fall in love / But this house is hounted and the ride get rough ). 

Per chi scrive l'apice del disco è One step up, una ballata anch'essa malinconica e di struggente solitudine sebbene nell'ambito di una vita a due, fotografia di un uomo che fa un bilancio della sua vita (When I look at myself I don't see / The man I wanted to be) mentre il suo matrimonio sprofonda in una routine di incomprensioni. Voglio anche in questo caso segnalare un passaggio del video che ha accompagnato la release del singolo, nel punto in cui vediamo Bruce fantasticare su un adulterio e un istante dopo la mdp inquadrare la fede al suo dito, una sequenza sottolineata dal testo (There's a girl across the bar / I get the message she's sendin' / Mmmh she ain't lookin' to married / And me, honey I'm pretending). 
Un passaggio che, con brutale onestà, fotografa, trovando una forma di ironia dentro un contesto di disillusione, una condizione decisamente comune per molti uomini sposati. L'unico pezzo dell'intera raccolta di canzoni che va a riallacciarsi con il blue collar rock, sebbene più aspro del recente passato, è Spare parts. Ma anche qui, se la musica si fa più sferzante, il tema resta quello della solitudine causata dall'abbandono, stavolta visto però nell'ottica di una donna lasciata dal suo uomo dopo la scoperta di una gravidanza. Non a caso, credo, nel rovesciamento dei ruoli che vedono passare il POV da uomo a donna, l'epilogo della canzone muta, trovando riscossa e speranza.


L'elemento principale, forse l'unico, che rende l'autobiografia Born to run, una lettura importante per farsi strada nella psicologia springstiniana, è la rivelazione di una forma patologica di depressione, ereditata dal padre, di cui Bruce rivela di avere sempre sofferto. Una depressione che, per usare le sue parole, arriva violenta ed improvvisa, implacabile e inarrestabile come un treno in corsa. Nel 1987 non lo sapevamo, e abbiamo pensato che Two faces, da un certo punto di vista una canzone minore, di raccordo, si rifacesse unicamente ai problemi sentimentali fil rouge dell'album. Col senno di poi il pezzo acquisisce un senso enorme, figurandosi come una criptica rivelazione al mondo esterno del male di vivere che attanaglia il Boss quando è giù dal palco. Il testo, da questo punto di vista, è inequivocabile: "Sometimes mister I feel sunny and wild / Lord I love to see my baby smile / Then dark clouds come rollin' by / Two faces have I / One that laughs one that cries /One says hello one says goodbye / One does things I don't understand / Makes me feel like half a man".

Come detto, Tunnel of love è un unicum nella produzione springstiniana. Per certi versi (l'introspezione della maggior parte delle composizioni, l'essenzialità di molti arrangiamenti) guarda a Nebraska, ma per altri, come ad esempio lo sguardo disilluso sulla convenzione sociale del matrimonio e sulla fragilità delle relazioni, si riallaccia ad una parte di composizioni di The river, la title track su tutte (ispirata dalla sorella), che gettavano sulla condizione matrimoniale ombre e incertezze. Stavolta ad interrogarsi sul tema non è un più un giovane uomo che parla delle esperienze altrui, ma un adulto finito che riflette su se stesso, sul proprio, di matrimonio. E se per il mio personalissimo gusto One step up è l'highlight dell'album, c'è un'altra canzone a cui sono legatissimo da sempre, che da sempre ho sentito vibrare nelle mie corde più profonde ed intime. Si tratta di Walk like a man, che viaggia sulle ali leggere della nostalgia, della dolcezza, della malinconia, della purezza del sentimento, mentre celebra il giorno "più bello". Un pezzo che, idealmente, nella mia personale macchina del tempo, ha fatto da ponte al me stesso che nel 1987 si sentiva in uno stato di grazia e che oggi, per ragioni diverse, sente ancora più sue le parole di quel testo. 

Ma in fin dei conti l'identificazione con Tunnel of love è solo la manifestazione di un sintomo, una patologia, una relazione non comune con la musica che, per ragioni ignote, non è quello che accompagna la stragrande maggioranza delle persone, attraversate da una fase della vita, quella del passaggio tra adolescenza ed età adulta, nella quale questa arte ha (oppure aveva, non saprei) un ruolo predominante ma decisamente temporaneo, che si conclude e viene quindi accantonato nel giro di un lustro o giù di lì. 

Per qualcuno di noi invece, nemmeno il subentrare di oneri e responsabilità connessi alla crescita riesce a scalfire questo rapporto di dipendenza, questa connessione che ci porta, da sempre e ogni giorno che sorge il sole, a dedicare una parte variabile di tempo ad un'immersione fanciullesca in un abisso di note (con o senza parole). Un universo nel quale ognuno ha i suoi luoghi musicali dell'anima nei quali ciclicamente torna e ritorna. Per me Tunnel of love è uno di quelli, sono sicuro che anche tu hai i tuoi, e che li tieni stretti a te come frammenti di sciocca ma irrinunciabile felicità. 


qui la prima parte

lunedì 11 settembre 2023

Recensioni capate: Lords of Dogtown (2006)


Il pattern che fa da filo conduttore alla storia è quello abusato da un pò tutti i biopic, e in particolare da quelli attenenti figure della cultura pop. Tuttavia il film della Hardwicke (probabilmente il migliore della filmografia della regista) cattura efficacemente un attimo fuggente, quello in cui, a metà settanta, lo skateboarding, da mezzo di trasporto poco impegnativo dalle evoluzioni scolastiche, diventa simbolo di libertà selvaggia e incontrollata. I tre protagonisti Stacy, Jay e Toni (skater famosi in USA), interpretati da John Robinson, Emile Hirsch e Victor Rasuk, si alzano all'alba per andare a surfare in un postaccio di Venice Beach (la Dogtown del titolo), ma vengono regolarmente rimbalzati dagli "anziani" che godono del diritto di cavalcare le prime onde del mattino. I tre allora ripiegano sullo skate, adattando lo stile della tavola da surf a quella con le rotelle, e accompagnando le quotidiane, selvagge scorribande di gruppo con occupazioni abusive di piscine vuote per provare evoluzioni sempre più ardite. A rompere il legame di fratellanza arrivano i capitali che piegano il movimento alle logiche del mercato e all'inarrestabile impulso a fare soldi con la novità del momento. L'abbiamo già sentita con il punk, il rock and roll, la pop art, la letteratura che nasce indipendente questa storia ma, anche grazie all'approccio realistico ai limiti del documentario della Hardwicke - unito alla buona prova del cast di giovanissimi (un ruolo che lascia il segno è anche quello di Heath Ledger) - , il film colpisce nel segno, mettendo bene in chiaro come un afflato che nasce come massima espressione di libertà, diventi un prodotto analogo a tanti sullo scaffale del consumismo. 
Colonna sonora, da Hendrix ai Black Flag (interpretati con un cameo dai Rise Against), memorabile.

lunedì 4 settembre 2023

Shane Stevens, Io ti troverò (1979)



E' dalla recensione di Io ti troverò (By reason of insanity in originale), pubblicata dal blog amico Come un killer sotto il sole che avevo in animo di leggere questo romanzo. E, sì, visto che il post ispiratore è vecchio di sette anni, puoi tranquillamente affermare che ce ne ho messo di tempo. Ma ne è valsa la pena. Non ho di proposito riportato la trama dell'opera di Stevens perchè di norma mi piace sintetizzare al nocciolo la sinossi e qui, limitandomi ad evidenziare la macro trama della caccia ad un micidiale serial killer dall'infanzia agghiacciante, non avrei reso un gran servizio ad una trama complessa, articolata e stratificata.
Questo tomo di ottocento pagine è in tutto e per tutto una sorta di "capo d'opera", una modalità diversa (per l'epoca in cui è stata scritta) di raccontare una vicenda nera di fantasia, collegata al vero tanto quanto al verosimile, diversamente non avrebbe generato un autentico culto, preso a riferimento, tra gli altri, da Harris, King ed Ellroy.

Il villain protagonista è Thomas Bishop, un serial killer spietato ed estremamente intelligente che uccide in maniera efferata tutte le donne che può, a causa degli abusi fisici e psicologici che ha subito fin dalla tenera età, per mano della madre, a sua volta abusata da Carly Chessman (noto delinquente realmente vissuto e conosciuto non solo per le sue gesta criminali - rapine, stupri, sequestri -, ma per essere uno dei casi giudiziari americani più noti), di cui, nel tempo, egli si convince orgogliosamente di essere figlio.
Attorno all'assassino, Stevens crea un vero e proprio universo popolato da editori, giornalisti, politici, psicologi, poliziotti, sceriffi di contea, piccoli delinquenti e capi mafiosi, donne qualunque con le quali il lettore ha il tempo di empatizzare grazie ad un'attenzione non comune da parte di uno scrittore nei confronti della vittime predestinate con cui ciba la propria creatura mostruosa. In questo modo, pur mancando nella storia una protagonista femminile, il genere ha un ruolo centrale nella narrazione, sebbene resti questa probabilmente l'unica lacuna della storia. In un racconto in cui si svolgono decine di brutali omicidi Stevens sceglie di lasciare quasi sempre fuori scena le descrizioni degli assassinii, mentre, in maniera un pò lasciva si sofferma in dettagli molto espliciti dei rapporti sessuali consumati dai protagonisti. 

E, a proposito di protagonisti, sono pochi quelli che escono positivamente dalla penna di Stevens, infatti, se il serial killer vive in funzione della sua "missione" di liberare il genere umano dalle donne, ognuno dei characters che in qualche modo fa perno attorno a lui è a suo modo ossessionato da qualcosa: dal proprio lavoro, dall'ambizione politica, dal denaro, dal successo, dal potere. Certo, la maggior parte di loro non uccide, ma non per questo è meno motivato ad impedire a chiunque di frapporsi tra sè stesso e il traguardo prefigurato, anche se per farlo deve mentire, ricattare, calpestare, tradire.

Un pò come fa Easton Ellis con American Psycho (anche se qui non siamo al livello di quel capolavoro), Shane Stevens usa il thriller nero per scattare una fotografia dell'America, in questo caso dai sessanta ai settanta, e, per certi versi, l'immagine in cornice fa ancora più paura delle gesta del povero, spaventoso Thomas Bishop.

giovedì 31 agosto 2023

Na rudaí is fearr liom, luglio e agosto 2023

ASCOLTI

Metallica, 72 seasons
Steve Earle and the Dukes, Jerry Jeff
L.A. Guns, Black Diamonds
Lucinda Williams, Stories from a rock 'n' roll heart
Raven, All hell's breaking loose
John Mellencamp, Orpheus descending
Dry Cleaning, Stumpwork
Molly Tuttle, City of gold
Poison Idea, Feel the darkness
Carpenter Brut, Leather terror
Squid, O monolith
Fires In The Distance, Air not meant for us
Shame, Food for worms
Sturgill Simpson, Sound and fury
Slakeye Slim, Scorched heart
PIL, End of world
Depeche Mode, Memento mori
Studio Murena, Wadirum
Hardy, The mockingbird and the the crow
Mammoth WVH, II
Bikini Kill, The singles
Sinead O' Connor, I do not want what I haven't got
Alice Cooper, Road
Litfiba, 12-5-87 (aprite i vostri occhi)
Fake Names, Expandebles
Stan Ridgway, The big heat
Zulu, A new tomorrow
The Tossers, S/T


Playlist monografiche

Shooter Jennings
Taylor Swift
The Hives
Rise Against


VISIONI

Il sipario strappato (3,25/5)
Mixed by Erry (3/5)
Questione di karma (2,5/5)
Elvis (3/5)
Yara (2/5)
Memory (2,5/5)
Accident man (2,75/5)
Una vita in fuga (2,5/5)
The plane (2/5)
Laggiù qualcuno mi ama (3/5)
Morbius (2,25/5)
Una boccata d'aria (2,5/5)
Pallottole su Broadway (3,5/5)
Tank girl (3,5/5)
Banlieu 13 (3/5)
I cancelli del cielo (5/5)











Miss Sloane - Giochi di potere (3/5)
Barbie (3/5)
AKA (3,25/5)
Bandit (2,5/5)
Extraction - Tyler Rake (2,5/5)
Extraction II - Tyler Rake 2 (2/5)
The Misfits (2/5)
Mission Impossible - Dead Reckoning, parte uno (2,5/5)
Don't worry darling (3/5)
Watcher (3,5/5)
Wizard of lies (3/5)
Mona Lisa and the blood moon (3,5/5)
Gli iniziati (3/5)
Moonlight (3,25/5)

in grassetto i film visti al cinema

Visioni seriali

Inside Man (3,25/5)
Gli orrori di Dolores Roach (3,25/5)
La regina degli scacchi (3/5)
The Punisher, 1 (3/5)
Happy valley, 1 (3,5/5)

LETTURE

Herbert Lieberman, L'ospite perfetto

lunedì 28 agosto 2023

LA Guns, Black diamonds (2022)


Il disco che non t'aspetti. 
Tracii Guns e Phil Lewis si devono sicuramente essere rotti le balle di assistere a tutto il consenso raccolto da sti giovani virgulti che, guardando unicamente indietro, dai Greta Van Fleet ai Dirty Honey ai (sigh) Maneskin, raccolgono consenso e stadi pieni. Phil, in particolare, boomer della generazione che ha vissuto in tempo reale i modelli originali. - Adesso gliela facciamo vedere noi - sono certo si siano detti. - Ma ti pare che una band da marciapiede come la nostra - avranno continuato - può farsi pisciare in testa da due segaioli? - . - Tzè, certo che no. Per cui diamoci dentro, fosse l'ultimo disco che facciamo - .

Non è la prima volta, dalla ricongiunzione dei due leader della band, che gli L.A. Guns sfornano un album di tutto rispetto, ma la differenza dai recenti dischi coi controcazzi, com'erano ad esempio The missing peace e The devil you know , sta nell'allargamento al meglio dell'hard rock classico dei settanta (e non solo) del perimetro creativo del combo. 
Il balzo sulla sedia, causato dalla distanza tra le aspettative glammettone e il lavoro che hai tra le mani, è immediato. Bastano padiglioni auricolari funzionanti e l'attacco one hundred per cent zeppeliniano dell'opener You betray per realizzare la straordinaria, rinnovata cazzimma dei reduci dei tempi d'oro del Sunset Strip a Hollywood.

All'irritazione di cui in premessa non è da escludere l'aggiunta di una furente indignazione per (tolto un ridotto zoccolo duro di appassionati) la sostanziale indifferenza che li ha avviluppati, nonostante, tra gli eroi (benchè commercialmente minori) di quella stagione di lacche e spandex, siano gli unici superstiti in grado di produrre ancora musica rilevante (vero Guns 'n' Roses, Motley Crue, Poison & co?) nel dignitosissimo solco della propria storia. 

E' di questo sentimento che si nutre il perfetto sleaze-rock Wrong about you, che ci accompagna come meglio non si potrebbe ad una delle romantic metal ballad più intense, per musica e liriche, che mi sia capitato di sentire da molto tempo a questa parte, Diamonds.
Nell'impasto di suoni perlappunto sleaze, glam, HR, metal, lungo la tracklist riaffiorano non solo di nuovo i Led Zeppelin (Gonna lose), ma finanche i Beatles (forse filtrati dagli Enuff 'z' nuff) con la sognante Crying.

La musica vada dove deve, con decine di bands molto più fighe e trendy dei L.A. Guns, ma niente può togliere a Black diamonds il suo valore, meritato esclusivamente sul campo, non grazie a studiatissime e raffinate strategie di marketing. 

lunedì 21 agosto 2023

Recensioni capate: John Wick 4

 

Arrivati al quarto capitolo della saga, ormai quello creato da Derek Kolstad (soggetto e sceneggiatura) e Chad Stahelski (regia) è diventato a tutti gli effetti un universo a sè. Il John Wick Cinematic Universe. Se nel primo capitolo, un action-noir tetro e dolente, alcuni elementi erano di sfondo, di complemento, rispetto alla furia vendicativa del vedovo inconsolabile, col passare del tempo (e dei sequel) la Gran Tavola e la stratificata rete gerarchico-infrastrutturale del crimine mondiale assume ruolo di primo piano, e con essa i suoi protagonisti, sui quali si erge la maschera mefistofelica di Ian McShane. A titolo personale preferivo le atmosfere notturne dei primi due capitoli, tant'è che il terzo mi ha lasciato un pò meh, il punto tuttavia è che John Wick si guarda come si guarda(va) un porno: la trama è secondaria rispetto alle coreografie (in questo caso di "gun-fu"). E in tal senso, nel quarto capitolo, c'è da godere, dall'esasperazione delle riprese a plongèe, a richiamare vecchi videogiochi (non inedite ma efficacissime) fino alla lunga parte finale a Parigi con l'incredibile battaglia in mezzo al traffico attorno all'Arco di Trionfo e sulla scalinata di Montmartre, la soddisfazione per gli amanti dell'action di qualità è garantita. Il capitolo doveva essere quello conclusivo ma a fronte della colossale risposta del botteghino probabilmente non sarà così. E occhio ai nuovi personaggi Tracker (Shamier Anderson) e Cain (il mitologico Donnie Yen): ognuno di essi si meriterebbe un bello spin-off.

lunedì 14 agosto 2023

Playlist sciuè sciuè 5 (mi sono fatto prendere la mano)

01. Reef, Shoot me your ace (2022)
02. Dry Cleaning, Hot penny day (2022)
03. Wipers, Pushing the extreme (1981)
04. Molly Tuttle, Alice in the bluegrass (2023)
05. Cancer Bats, Hail destroyer (2008)
06. Royal Blood, Figure it out (2014)
07. Poison Idea, Taken by surprise (1990)
08. Amanda Fields, Without you (2023)
09. Carpenter Brut, Day stalker (2022)
10. Soul Glo, Jump! (Or get jumped!!!) (2022)
11. Crashdiet, Riot in everyone (2005)
12. Squid, Undergrowt (2022)
13. Zakk Wylde's Black Label Society, Born to lose (1998)
14. Fires In The Distance, Wisdom of falling leaves (2023)
15. Wolf Alice, Bros (2015)
16. The Sister of Mercy, First and last and always (1985)
17. Meat Puppets, Up on the sun (1985)
18. Annihilator, Alison hell (1989)
19. Shame, Alibis (2022)
20. The Jesus Lizard, Destroy before reading (1994)
21. The Long Ryders, I had a dream (1984)
22. Billy Bob Thornton, Starlight lounge (2001)
23. Southside Johnny, Don't waste my time (2015)
24. Wilco, Cruel country (2022)
25. Meat Loaf, Dead ringer for love (1977)

lunedì 7 agosto 2023

Fëdor Dostoevskij, Il giocatore (1866)


Aleksej Ivànovic, di professione precettore (colui che si occupava dell'educazione e dell'istruzione all'interno delle famiglie nobili), si trova in Germania, in una località, Roulettenburg (il cui nome dice tutto: è infatti un luogo molto apprezzato per il suo casinò), aggregato alla famiglia di un vecchio generale caduto in disgrazia che ha perduto la moglie ed ora si porta dietro, assieme ai figli, una giovane, bellissima e subdola francese. Aleksej si impone, riuscendoci, di stare lontano dal suo vizio del gioco, è innamorato della figlia maggiore del generale, Polina, per la quale farebbe (e fa) qualunque cosa ella chieda, anche derogare dal suo impegno di astenersi dai tavoli da giuoco. La convivenza forzata (dalla necessità) di queste persone, i loro secondi fini, le difficoltà economiche nascoste dietro la patina dell'alto lignaggio, deflagreranno rumorosamente all'inaspettato arrivo dell'anziana madre del generale, la cui morte tutti anelavano, chi per raccoglierne l'eredità chi, di conseguenza, per vedersi saldati i crediti. Anche l'esistenza di Ivànovic sarà stravolta dall'arrivo della dispotica vecchia.

Dopo I fratelli Karamazov e Delitto e castigo, letti più di vent'anni fa, ho finalmente recuperato questo romanzo breve (se paragonato ai due testè citati) di Dostoevskij, considerato un capolavoro della letteratura russa dell'800, scoprendo, contrariamente a quanto pensavo, che tratta solo parzialmente del vizio del gioco, volgendo altresì il suo focus principale verso una società mitteleuropea decadente, rappresentata da personaggi verso i quali si concentra impietosamente la penna di Dostoevskij, non lesinando giudizi aspri che ci riportano alla memoria i tanti luoghi comuni dell'epoca, basati sulla provenienza o dall'etnia dei popoli  (il francese, l'inglese, l'ebreo, il russo) che oggi subirebbero senza dubbio l'accusa di non essere politicamente corretti, ma che appaiono funzionali ad una narrazione il cui equilibrio tra dramma e commedia spesso viene spezzato a vantaggio di quest'ultimo genere, risultando, in più di un passaggio, grottesca ed esilarante. 

Lo scrittore, sommerso da debiti per il gioco e in fuga dai creditori, proietta la sua situazione personale frammentandola in più di un character del libro, ma senza dubbio è il protagonista Ivànovic, uomo di cultura e talento, perdutamente innamorato ma non corrisposto e forte giocatore, che Fedor individua come suo doppelganger. Erano infatti queste le condizioni disperate che imposero a Dostoevskij di ridurre drasticamente, per evitare di incorrere nelle penali previste da un contratto con un editore, i suoi tempi di scrittura, terminando Il giocatore in meno di un mese.
Un contesto che tuttavia non ha influenzato negativamente il risultato finale, venendo probabilmente a crearsi una situazione per cui l'urgenza creativa (in questo caso originata dalla poco nobile motivazione dei creditori alla porta) ha portato ad un processo di scrittura efficace, di immediata fruizione.

Il campionario di varia umanità tratteggiato da Dostoevskij ben descrive la miseria malcelata da nobiltà che permeava l'alta borghesia della seconda metà dell'ottocento. Un'umanità che, evidentemente, l'autore non aveva in grande simpatia, e che pertanto mette a nudo senza lasciargli nemmeno addosso la classica, pudica foglia di fico. In un modo o nell'altro tutti hanno delle miserie, umane quando non economiche, strategie, pochezze intellettuali, finalità finanziarie da perseguire, mentre al suo alter ego Ivànovic interessa solo l'amore per Polina, la quale ha però verso di lui un sentimento di apparente indifferenza. 

E così, impossibilitato a coronare l'amore della vita, ad Aleksej/Fedor non resta che arrendersi alla sua pulsione incontrollata: il gioco. E' nei passaggi che spiegano al lettore la natura irrazionale di quelli che oggi definiremmo ludopatici che si svelano tutti i più profondi e inconfessabili tormenti responsabili della spirale di autodistruzione (non diversa dalla tossicodipendenza) in cui cade più di un personaggio della storia e in cui era realmente precipitato il romanziere russo. 
Nella disarmante facilità attraverso cui alcuni insospettabili personaggi sono irrimediabilmente attratti dal meccanismo infernale della roulette (all'epoca un'assoluta novità) e dunque del gioco d'azzardo, si può forse leggere una disperata difesa di Dostoevskij in relazione alle sue debolezze, una sorta di giustificazione di resa alla presenza di un mostro enorme e invincibile dotato di zanne rotanti nere e rosse che ipnotizza le sue vittime, per poi mieterle una ad una. E lui era solo una delle tante.