lunedì 18 settembre 2023

I migliori della vita: Bruce Springsteen, Tunnel of love (1987) - parte due



Al tramonto dell'estate del 1987 arriva nei negozi il singolo che anticipa l'uscita di Tunnel of love. Si tratta di Brilliant disguise, un brano che dal punto di vista musicale non solo non ha niente a che vedere con Born in the USA, ma disconosce tutta la produzione antecedente di Springsteen. L'arrangiamento della ballata è impostato su di un loop che poggia soprattutto sulla nota LA, alternata nelle sue modalità maggiore, seconda e quarta. Sebbene costruita in maniera canonica (strofa/ritornello/bridge) si ha la percezione che la traccia abbia un unico (per me ipnotico, per altri monotono) pattern, dall'inizio alla fine. Il testo anticipa la penombra emotiva di quello che sarà il lavoro completo. Dubbi sull'autenticità dell'amore provato e ricevuto e sospetti di tradimento ne caratterizzano infatti il portato. Sul lato B del singolo l'oscurità si infittisce, con una spettrale Lucky man (outtake che resterà fuori dalla tracklist dell'album), a riecheggiare Nebraska.

Ed eccoci finalmente al "pacchetto completo" di Tunnel of love: dodici tracce che rappresentano (per chi scrive) un malinconico, meraviglioso, controverso viaggio introspettivo negli spazi che intercorrono dentro un rapporto di coppia. Mai prima (e mi ripeto, mai dopo) un disco di Springsteen era stato così monotematico, quasi un concept sul dilemma del sentimento più nobile e affannosamente cercato dall'animo umano, fotografato in una condizione sospesa in cui, neanche fossimo nello splendido film Pixar Inside out, convivono ricerca della felicità, gelosia, momenti di esaltazione, malinconia, fiducia verso il partner ed assenza di essa. 

E subito, con  Ain't got you, l'incipit del lavoro, veniamo catapultati in questa dimensione di ombre (tante) e luce (poca). Nell'errebì alla Bo Didley, il Bruce fresco di matrimonio con la top model ci dice che ha tutti i beni materiali che un uomo possa desiderare (I got all the fortunes of heaven in diamonds and gold/ I got all the bonds baby that the bank could hold ) ma gli manca l'amore (But the only things I ain't got, baby/ I ain't got you) , quasi che, invece che un neo sposo, a cantare sia uno spasimante non corrisposto. Il testo, sebbene per tematiche rientri in una solida tradizione allegorica propria del rockabilly fifties,  è talmente autobiografico nella sua disamina della condizione borghese di Bruce (I got house full of Rembrandt and priceles art (...) /  I been around the world and all across the seven seas / Been paid a king's ransom for doin' what comes naturally) da provocare il rigetto "filosofico" dell'amico Little Steven, cui il brano viene fatto ascoltare in anteprima (c'è da dire che l'ex chitarrista della E Steet all'epoca era all'apice del suo afflato artistico di intransigente denuncia politico-sociale al sistema americano), e che gli rimprovera - a mio avviso con eccessiva severità - un inaccettabile imborghesimento. 

I due pezzi successivi sono gli unici del lotto che possiamo definire happy love songs. Se per Ain't got you, dal punto di vista stilistico, siamo al cospetto di un ritorno alle origini, alle passioni musicali giovanili di Bruce (non a caso dal vivo verrà proposto in un azzeccatissimo medley con She's the one)  per Tougher than the rest è tutta un'altra storia. La batteria di Max Weinberg ha infatti un incedere marziale autoritario, che viene però subito addolcito da una chitarra country honky tonk, e una melodia sinuosa che serve a Bruce per dire alla sua amata If you're looking for love, honey I'm tougher than the rest. Di come il pezzo venga scritto per una donna e diventi poi lo strumento con cui si celebra l'amore per un'altra ho già detto, quindi vado oltre. 

Si diceva dei rumors che volevano Bruce pubblicare un disco country, ebbene pur non corrispondendo questo a verità, c'è indubbiamente una fascinazione honky tonk che emerge a differente intensità in due tre brani. Se in Tougher then the rest questa intensità è solo accennata nell'arrangiamento di chitarra, si palesa senza timore in All that heaven will allow (ripresa non a caso dai Mavericks), secondo e ultimo brano in cui emerge l'aspetto più romantico ed esaltante, gioioso della relazione sentimentale. Con When you're alone chiudiamo in bellezza il cerchio country, attraverso un arpeggio che in quell'ambito trova la sua collocazione, un testo e un cantato che non cerca mediazione musicale alcuna. Una country song fatta e finita insomma, scarna e malinconica come da tradizione, in cui il titolo dice tutto. Mi sono sempre stupito che uno come Johnny Cash, che pure ha più volte coverizzato Bruce (Highway patrolman; I'm on fire; Johnny 99, Further on up the road) o uno come Willie Nelson, per la cui voce il pezzo sembra scritto, non abbiano mai pensato di fare propria questa canzone alla Hank Williams.

E poi ci si addentra nelle paludi dei dubbi di un uomo insicuro e lacerato dai tormenti. La lista dei titoli in cui Springsteen si psicanalizza è corposa, a partire dallo scarno folk di Cautious man dove racconta di Billy Horton, un uomo che vive sospeso, irrealizzato, una condizione condensata in due parole, LOVE e FEAR, tatuate una su ciascuna nocca delle mani (rielaborazione cinematografica dello spaventoso Mitchum de La morte corre sul fiume). Non sfugge alle tribolazioni springstiniane nemmeno la caleidoscopica title track, che, attraverso un massiccio uso di sintetizzatori, realizza la vertigine tipica della giostra in movimento, e con essa le tante insidie di una relazione stabile (It ought be easy / ought to be simple enough / Man meets woman and they fall in love / But this house is hounted and the ride get rough ). 

Per chi scrive l'apice del disco è One step up, una ballata anch'essa malinconica e di struggente solitudine sebbene nell'ambito di una vita a due, fotografia di un uomo che fa un bilancio della sua vita (When I look at myself I don't see / The man I wanted to be) mentre il suo matrimonio sprofonda in una routine di incomprensioni. Voglio anche in questo caso segnalare un passaggio del video che ha accompagnato la release del singolo, nel punto in cui vediamo Bruce fantasticare su un adulterio e un istante dopo la mdp inquadrare la fede al suo dito, una sequenza sottolineata dal testo (There's a girl across the bar / I get the message she's sendin' / Mmmh she ain't lookin' to married / And me, honey I'm pretending). 
Un passaggio che, con brutale onestà, fotografa, trovando una forma di ironia dentro un contesto di disillusione, una condizione decisamente comune per molti uomini sposati. L'unico pezzo dell'intera raccolta di canzoni che va a riallacciarsi con il blue collar rock, sebbene più aspro del recente passato, è Spare parts. Ma anche qui, se la musica si fa più sferzante, il tema resta quello della solitudine causata dall'abbandono, stavolta visto però nell'ottica di una donna lasciata dal suo uomo dopo la scoperta di una gravidanza. Non a caso, credo, nel rovesciamento dei ruoli che vedono passare il POV da uomo a donna, l'epilogo della canzone muta, trovando riscossa e speranza.


L'elemento principale, forse l'unico, che rende l'autobiografia Born to run, una lettura importante per farsi strada nella psicologia springstiniana, è la rivelazione di una forma patologica di depressione, ereditata dal padre, di cui Bruce rivela di avere sempre sofferto. Una depressione che, per usare le sue parole, arriva violenta ed improvvisa, implacabile e inarrestabile come un treno in corsa. Nel 1987 non lo sapevamo, e abbiamo pensato che Two faces, da un certo punto di vista una canzone minore, di raccordo, si rifacesse unicamente ai problemi sentimentali fil rouge dell'album. Col senno di poi il pezzo acquisisce un senso enorme, figurandosi come una criptica rivelazione al mondo esterno del male di vivere che attanaglia il Boss quando è giù dal palco. Il testo, da questo punto di vista, è inequivocabile: "Sometimes mister I feel sunny and wild / Lord I love to see my baby smile / Then dark clouds come rollin' by / Two faces have I / One that laughs one that cries /One says hello one says goodbye / One does things I don't understand / Makes me feel like half a man".

Come detto, Tunnel of love è un unicum nella produzione springstiniana. Per certi versi (l'introspezione della maggior parte delle composizioni, l'essenzialità di molti arrangiamenti) guarda a Nebraska, ma per altri, come ad esempio lo sguardo disilluso sulla convenzione sociale del matrimonio e sulla fragilità delle relazioni, si riallaccia ad una parte di composizioni di The river, la title track su tutte (ispirata dalla sorella), che gettavano sulla condizione matrimoniale ombre e incertezze. Stavolta ad interrogarsi sul tema non è un più un giovane uomo che parla delle esperienze altrui, ma un adulto finito che riflette su se stesso, sul proprio, di matrimonio. E se per il mio personalissimo gusto One step up è l'highlight dell'album, c'è un'altra canzone a cui sono legatissimo da sempre, che da sempre ho sentito vibrare nelle mie corde più profonde ed intime. Si tratta di Walk like a man, che viaggia sulle ali leggere della nostalgia, della dolcezza, della malinconia, della purezza del sentimento, mentre celebra il giorno "più bello". Un pezzo che, idealmente, nella mia personale macchina del tempo, ha fatto da ponte al me stesso che nel 1987 si sentiva in uno stato di grazia e che oggi, per ragioni diverse, sente ancora più sue le parole di quel testo. 

Ma in fin dei conti l'identificazione con Tunnel of love è solo la manifestazione di un sintomo, una patologia, una relazione non comune con la musica che, per ragioni ignote, non è quello che accompagna la stragrande maggioranza delle persone, attraversate da una fase della vita, quella del passaggio tra adolescenza ed età adulta, nella quale questa arte ha (oppure aveva, non saprei) un ruolo predominante ma decisamente temporaneo, che si conclude e viene quindi accantonato nel giro di un lustro o giù di lì. 

Per qualcuno di noi invece, nemmeno il subentrare di oneri e responsabilità connessi alla crescita riesce a scalfire questo rapporto di dipendenza, questa connessione che ci porta, da sempre e ogni giorno che sorge il sole, a dedicare una parte variabile di tempo ad un'immersione fanciullesca in un abisso di note (con o senza parole). Un universo nel quale ognuno ha i suoi luoghi musicali dell'anima nei quali ciclicamente torna e ritorna. Per me Tunnel of love è uno di quelli, sono sicuro che anche tu hai i tuoi, e che li tieni stretti a te come frammenti di sciocca ma irrinunciabile felicità. 


qui la prima parte

lunedì 11 settembre 2023

Recensioni capate: Lords of Dogtown (2006)


Il pattern che fa da filo conduttore alla storia è quello abusato da un pò tutti i biopic, e in particolare da quelli attenenti figure della cultura pop. Tuttavia il film della Hardwicke (probabilmente il migliore della filmografia della regista) cattura efficacemente un attimo fuggente, quello in cui, a metà settanta, lo skateboarding, da mezzo di trasporto poco impegnativo dalle evoluzioni scolastiche, diventa simbolo di libertà selvaggia e incontrollata. I tre protagonisti Stacy, Jay e Toni (skater famosi in USA), interpretati da John Robinson, Emile Hirsch e Victor Rasuk, si alzano all'alba per andare a surfare in un postaccio di Venice Beach (la Dogtown del titolo), ma vengono regolarmente rimbalzati dagli "anziani" che godono del diritto di cavalcare le prime onde del mattino. I tre allora ripiegano sullo skate, adattando lo stile della tavola da surf a quella con le rotelle, e accompagnando le quotidiane, selvagge scorribande di gruppo con occupazioni abusive di piscine vuote per provare evoluzioni sempre più ardite. A rompere il legame di fratellanza arrivano i capitali che piegano il movimento alle logiche del mercato e all'inarrestabile impulso a fare soldi con la novità del momento. L'abbiamo già sentita con il punk, il rock and roll, la pop art, la letteratura che nasce indipendente questa storia ma, anche grazie all'approccio realistico ai limiti del documentario della Hardwicke - unito alla buona prova del cast di giovanissimi (un ruolo che lascia il segno è anche quello di Heath Ledger) - , il film colpisce nel segno, mettendo bene in chiaro come un afflato che nasce come massima espressione di libertà, diventi un prodotto analogo a tanti sullo scaffale del consumismo. 
Colonna sonora, da Hendrix ai Black Flag (interpretati con un cameo dai Rise Against), memorabile.

lunedì 4 settembre 2023

Shane Stevens, Io ti troverò (1979)



E' dalla recensione di Io ti troverò (By reason of insanity in originale), pubblicata dal blog amico Come un killer sotto il sole che avevo in animo di leggere questo romanzo. E, sì, visto che il post ispiratore è vecchio di sette anni, puoi tranquillamente affermare che ce ne ho messo di tempo. Ma ne è valsa la pena. Non ho di proposito riportato la trama dell'opera di Stevens perchè di norma mi piace sintetizzare al nocciolo la sinossi e qui, limitandomi ad evidenziare la macro trama della caccia ad un micidiale serial killer dall'infanzia agghiacciante, non avrei reso un gran servizio ad una trama complessa, articolata e stratificata.
Questo tomo di ottocento pagine è in tutto e per tutto una sorta di "capo d'opera", una modalità diversa (per l'epoca in cui è stata scritta) di raccontare una vicenda nera di fantasia, collegata al vero tanto quanto al verosimile, diversamente non avrebbe generato un autentico culto, preso a riferimento, tra gli altri, da Harris, King ed Ellroy.

Il villain protagonista è Thomas Bishop, un serial killer spietato ed estremamente intelligente che uccide in maniera efferata tutte le donne che può, a causa degli abusi fisici e psicologici che ha subito fin dalla tenera età, per mano della madre, a sua volta abusata da Carly Chessman (noto delinquente realmente vissuto e conosciuto non solo per le sue gesta criminali - rapine, stupri, sequestri -, ma per essere uno dei casi giudiziari americani più noti), di cui, nel tempo, egli si convince orgogliosamente di essere figlio.
Attorno all'assassino, Stevens crea un vero e proprio universo popolato da editori, giornalisti, politici, psicologi, poliziotti, sceriffi di contea, piccoli delinquenti e capi mafiosi, donne qualunque con le quali il lettore ha il tempo di empatizzare grazie ad un'attenzione non comune da parte di uno scrittore nei confronti della vittime predestinate con cui ciba la propria creatura mostruosa. In questo modo, pur mancando nella storia una protagonista femminile, il genere ha un ruolo centrale nella narrazione, sebbene resti questa probabilmente l'unica lacuna della storia. In un racconto in cui si svolgono decine di brutali omicidi Stevens sceglie di lasciare quasi sempre fuori scena le descrizioni degli assassinii, mentre, in maniera un pò lasciva si sofferma in dettagli molto espliciti dei rapporti sessuali consumati dai protagonisti. 

E, a proposito di protagonisti, sono pochi quelli che escono positivamente dalla penna di Stevens, infatti, se il serial killer vive in funzione della sua "missione" di liberare il genere umano dalle donne, ognuno dei characters che in qualche modo fa perno attorno a lui è a suo modo ossessionato da qualcosa: dal proprio lavoro, dall'ambizione politica, dal denaro, dal successo, dal potere. Certo, la maggior parte di loro non uccide, ma non per questo è meno motivato ad impedire a chiunque di frapporsi tra sè stesso e il traguardo prefigurato, anche se per farlo deve mentire, ricattare, calpestare, tradire.

Un pò come fa Easton Ellis con American Psycho (anche se qui non siamo al livello di quel capolavoro), Shane Stevens usa il thriller nero per scattare una fotografia dell'America, in questo caso dai sessanta ai settanta, e, per certi versi, l'immagine in cornice fa ancora più paura delle gesta del povero, spaventoso Thomas Bishop.

giovedì 31 agosto 2023

Na rudaí is fearr liom, luglio e agosto 2023

ASCOLTI

Metallica, 72 seasons
Steve Earle and the Dukes, Jerry Jeff
L.A. Guns, Black Diamonds
Lucinda Williams, Stories from a rock 'n' roll heart
Raven, All hell's breaking loose
John Mellencamp, Orpheus descending
Dry Cleaning, Stumpwork
Molly Tuttle, City of gold
Poison Idea, Feel the darkness
Carpenter Brut, Leather terror
Squid, O monolith
Fires In The Distance, Air not meant for us
Shame, Food for worms
Sturgill Simpson, Sound and fury
Slakeye Slim, Scorched heart
PIL, End of world
Depeche Mode, Memento mori
Studio Murena, Wadirum
Hardy, The mockingbird and the the crow
Mammoth WVH, II
Bikini Kill, The singles
Sinead O' Connor, I do not want what I haven't got
Alice Cooper, Road
Litfiba, 12-5-87 (aprite i vostri occhi)
Fake Names, Expandebles
Stan Ridgway, The big heat
Zulu, A new tomorrow
The Tossers, S/T


Playlist monografiche

Shooter Jennings
Taylor Swift
The Hives
Rise Against


VISIONI

Il sipario strappato (3,25/5)
Mixed by Erry (3/5)
Questione di karma (2,5/5)
Elvis (3/5)
Yara (2/5)
Memory (2,5/5)
Accident man (2,75/5)
Una vita in fuga (2,5/5)
The plane (2/5)
Laggiù qualcuno mi ama (3/5)
Morbius (2,25/5)
Una boccata d'aria (2,5/5)
Pallottole su Broadway (3,5/5)
Tank girl (3,5/5)
Banlieu 13 (3/5)
I cancelli del cielo (5/5)











Miss Sloane - Giochi di potere (3/5)
Barbie (3/5)
AKA (3,25/5)
Bandit (2,5/5)
Extraction - Tyler Rake (2,5/5)
Extraction II - Tyler Rake 2 (2/5)
The Misfits (2/5)
Mission Impossible - Dead Reckoning, parte uno (2,5/5)
Don't worry darling (3/5)
Watcher (3,5/5)
Wizard of lies (3/5)
Mona Lisa and the blood moon (3,5/5)
Gli iniziati (3/5)
Moonlight (3,25/5)

in grassetto i film visti al cinema

Visioni seriali

Inside Man (3,25/5)
Gli orrori di Dolores Roach (3,25/5)
La regina degli scacchi (3/5)
The Punisher, 1 (3/5)
Happy valley, 1 (3,5/5)

LETTURE

Herbert Lieberman, L'ospite perfetto

lunedì 28 agosto 2023

LA Guns, Black diamonds (2022)


Il disco che non t'aspetti. 
Tracii Guns e Phil Lewis si devono sicuramente essere rotti le balle di assistere a tutto il consenso raccolto da sti giovani virgulti che, guardando unicamente indietro, dai Greta Van Fleet ai Dirty Honey ai (sigh) Maneskin, raccolgono consenso e stadi pieni. Phil, in particolare, boomer della generazione che ha vissuto in tempo reale i modelli originali. - Adesso gliela facciamo vedere noi - sono certo si siano detti. - Ma ti pare che una band da marciapiede come la nostra - avranno continuato - può farsi pisciare in testa da due segaioli? - . - Tzè, certo che no. Per cui diamoci dentro, fosse l'ultimo disco che facciamo - .

Non è la prima volta, dalla ricongiunzione dei due leader della band, che gli L.A. Guns sfornano un album di tutto rispetto, ma la differenza dai recenti dischi coi controcazzi, com'erano ad esempio The missing peace e The devil you know , sta nell'allargamento al meglio dell'hard rock classico dei settanta (e non solo) del perimetro creativo del combo. 
Il balzo sulla sedia, causato dalla distanza tra le aspettative glammettone e il lavoro che hai tra le mani, è immediato. Bastano padiglioni auricolari funzionanti e l'attacco one hundred per cent zeppeliniano dell'opener You betray per realizzare la straordinaria, rinnovata cazzimma dei reduci dei tempi d'oro del Sunset Strip a Hollywood.

All'irritazione di cui in premessa non è da escludere l'aggiunta di una furente indignazione per (tolto un ridotto zoccolo duro di appassionati) la sostanziale indifferenza che li ha avviluppati, nonostante, tra gli eroi (benchè commercialmente minori) di quella stagione di lacche e spandex, siano gli unici superstiti in grado di produrre ancora musica rilevante (vero Guns 'n' Roses, Motley Crue, Poison & co?) nel dignitosissimo solco della propria storia. 

E' di questo sentimento che si nutre il perfetto sleaze-rock Wrong about you, che ci accompagna come meglio non si potrebbe ad una delle romantic metal ballad più intense, per musica e liriche, che mi sia capitato di sentire da molto tempo a questa parte, Diamonds.
Nell'impasto di suoni perlappunto sleaze, glam, HR, metal, lungo la tracklist riaffiorano non solo di nuovo i Led Zeppelin (Gonna lose), ma finanche i Beatles (forse filtrati dagli Enuff 'z' nuff) con la sognante Crying.

La musica vada dove deve, con decine di bands molto più fighe e trendy dei L.A. Guns, ma niente può togliere a Black diamonds il suo valore, meritato esclusivamente sul campo, non grazie a studiatissime e raffinate strategie di marketing. 

lunedì 21 agosto 2023

Recensioni capate: John Wick 4

 

Arrivati al quarto capitolo della saga, ormai quello creato da Derek Kolstad (soggetto e sceneggiatura) e Chad Stahelski (regia) è diventato a tutti gli effetti un universo a sè. Il John Wick Cinematic Universe. Se nel primo capitolo, un action-noir tetro e dolente, alcuni elementi erano di sfondo, di complemento, rispetto alla furia vendicativa del vedovo inconsolabile, col passare del tempo (e dei sequel) la Gran Tavola e la stratificata rete gerarchico-infrastrutturale del crimine mondiale assume ruolo di primo piano, e con essa i suoi protagonisti, sui quali si erge la maschera mefistofelica di Ian McShane. A titolo personale preferivo le atmosfere notturne dei primi due capitoli, tant'è che il terzo mi ha lasciato un pò meh, il punto tuttavia è che John Wick si guarda come si guarda(va) un porno: la trama è secondaria rispetto alle coreografie (in questo caso di "gun-fu"). E in tal senso, nel quarto capitolo, c'è da godere, dall'esasperazione delle riprese a plongèe, a richiamare vecchi videogiochi (non inedite ma efficacissime) fino alla lunga parte finale a Parigi con l'incredibile battaglia in mezzo al traffico attorno all'Arco di Trionfo e sulla scalinata di Montmartre, la soddisfazione per gli amanti dell'action di qualità è garantita. Il capitolo doveva essere quello conclusivo ma a fronte della colossale risposta del botteghino probabilmente non sarà così. E occhio ai nuovi personaggi Tracker (Shamier Anderson) e Cain (il mitologico Donnie Yen): ognuno di essi si meriterebbe un bello spin-off.

lunedì 14 agosto 2023

Playlist sciuè sciuè 5 (mi sono fatto prendere la mano)

01. Reef, Shoot me your ace (2022)
02. Dry Cleaning, Hot penny day (2022)
03. Wipers, Pushing the extreme (1981)
04. Molly Tuttle, Alice in the bluegrass (2023)
05. Cancer Bats, Hail destroyer (2008)
06. Royal Blood, Figure it out (2014)
07. Poison Idea, Taken by surprise (1990)
08. Amanda Fields, Without you (2023)
09. Carpenter Brut, Day stalker (2022)
10. Soul Glo, Jump! (Or get jumped!!!) (2022)
11. Crashdiet, Riot in everyone (2005)
12. Squid, Undergrowt (2022)
13. Zakk Wylde's Black Label Society, Born to lose (1998)
14. Fires In The Distance, Wisdom of falling leaves (2023)
15. Wolf Alice, Bros (2015)
16. The Sister of Mercy, First and last and always (1985)
17. Meat Puppets, Up on the sun (1985)
18. Annihilator, Alison hell (1989)
19. Shame, Alibis (2022)
20. The Jesus Lizard, Destroy before reading (1994)
21. The Long Ryders, I had a dream (1984)
22. Billy Bob Thornton, Starlight lounge (2001)
23. Southside Johnny, Don't waste my time (2015)
24. Wilco, Cruel country (2022)
25. Meat Loaf, Dead ringer for love (1977)

lunedì 7 agosto 2023

Fëdor Dostoevskij, Il giocatore (1866)


Aleksej Ivànovic, di professione precettore (colui che si occupava dell'educazione e dell'istruzione all'interno delle famiglie nobili), si trova in Germania, in una località, Roulettenburg (il cui nome dice tutto: è infatti un luogo molto apprezzato per il suo casinò), aggregato alla famiglia di un vecchio generale caduto in disgrazia che ha perduto la moglie ed ora si porta dietro, assieme ai figli, una giovane, bellissima e subdola francese. Aleksej si impone, riuscendoci, di stare lontano dal suo vizio del gioco, è innamorato della figlia maggiore del generale, Polina, per la quale farebbe (e fa) qualunque cosa ella chieda, anche derogare dal suo impegno di astenersi dai tavoli da giuoco. La convivenza forzata (dalla necessità) di queste persone, i loro secondi fini, le difficoltà economiche nascoste dietro la patina dell'alto lignaggio, deflagreranno rumorosamente all'inaspettato arrivo dell'anziana madre del generale, la cui morte tutti anelavano, chi per raccoglierne l'eredità chi, di conseguenza, per vedersi saldati i crediti. Anche l'esistenza di Ivànovic sarà stravolta dall'arrivo della dispotica vecchia.

Dopo I fratelli Karamazov e Delitto e castigo, letti più di vent'anni fa, ho finalmente recuperato questo romanzo breve (se paragonato ai due testè citati) di Dostoevskij, considerato un capolavoro della letteratura russa dell'800, scoprendo, contrariamente a quanto pensavo, che tratta solo parzialmente del vizio del gioco, volgendo altresì il suo focus principale verso una società mitteleuropea decadente, rappresentata da personaggi verso i quali si concentra impietosamente la penna di Dostoevskij, non lesinando giudizi aspri che ci riportano alla memoria i tanti luoghi comuni dell'epoca, basati sulla provenienza o dall'etnia dei popoli  (il francese, l'inglese, l'ebreo, il russo) che oggi subirebbero senza dubbio l'accusa di non essere politicamente corretti, ma che appaiono funzionali ad una narrazione il cui equilibrio tra dramma e commedia spesso viene spezzato a vantaggio di quest'ultimo genere, risultando, in più di un passaggio, grottesca ed esilarante. 

Lo scrittore, sommerso da debiti per il gioco e in fuga dai creditori, proietta la sua situazione personale frammentandola in più di un character del libro, ma senza dubbio è il protagonista Ivànovic, uomo di cultura e talento, perdutamente innamorato ma non corrisposto e forte giocatore, che Fedor individua come suo doppelganger. Erano infatti queste le condizioni disperate che imposero a Dostoevskij di ridurre drasticamente, per evitare di incorrere nelle penali previste da un contratto con un editore, i suoi tempi di scrittura, terminando Il giocatore in meno di un mese.
Un contesto che tuttavia non ha influenzato negativamente il risultato finale, venendo probabilmente a crearsi una situazione per cui l'urgenza creativa (in questo caso originata dalla poco nobile motivazione dei creditori alla porta) ha portato ad un processo di scrittura efficace, di immediata fruizione.

Il campionario di varia umanità tratteggiato da Dostoevskij ben descrive la miseria malcelata da nobiltà che permeava l'alta borghesia della seconda metà dell'ottocento. Un'umanità che, evidentemente, l'autore non aveva in grande simpatia, e che pertanto mette a nudo senza lasciargli nemmeno addosso la classica, pudica foglia di fico. In un modo o nell'altro tutti hanno delle miserie, umane quando non economiche, strategie, pochezze intellettuali, finalità finanziarie da perseguire, mentre al suo alter ego Ivànovic interessa solo l'amore per Polina, la quale ha però verso di lui un sentimento di apparente indifferenza. 

E così, impossibilitato a coronare l'amore della vita, ad Aleksej/Fedor non resta che arrendersi alla sua pulsione incontrollata: il gioco. E' nei passaggi che spiegano al lettore la natura irrazionale di quelli che oggi definiremmo ludopatici che si svelano tutti i più profondi e inconfessabili tormenti responsabili della spirale di autodistruzione (non diversa dalla tossicodipendenza) in cui cade più di un personaggio della storia e in cui era realmente precipitato il romanziere russo. 
Nella disarmante facilità attraverso cui alcuni insospettabili personaggi sono irrimediabilmente attratti dal meccanismo infernale della roulette (all'epoca un'assoluta novità) e dunque del gioco d'azzardo, si può forse leggere una disperata difesa di Dostoevskij in relazione alle sue debolezze, una sorta di giustificazione di resa alla presenza di un mostro enorme e invincibile dotato di zanne rotanti nere e rosse che ipnotizza le sue vittime, per poi mieterle una ad una. E lui era solo una delle tante.


lunedì 31 luglio 2023

I migliori della vita: Bruce Springsteen, Tunnel of love (1987) - parte uno



Ho inaugurato questa rubrica nel 2008. Dire che si tratti un appuntamento senza frequenza fissa è usare un eufemismo, se è vero com'è vero che in quindici anni ho pubblicato solo 17 post, di cui, peraltro, la maggior parte nei primi due. L'aspetto bizzarro della cosa è senza dubbio l'assenza di un album di Springsteen nella lista di quelli trattati, in considerazione del rapporto simbiotico che per molti anni ho avuto con l'artista.

Comunque. Avevo deciso che il primo "springstiniano della vita" avrebbe dovuto essere Born in the USA, non il mio preferito, ma quello che ha l'indubbio merito di aver spalancato all'allora adolescente di periferia un portone - che non si è mai chiuso -  sul rocker di Freehold, NJ. Invece, per tutta una serie di ragioni perlopiù strettamente personali, che non starò qui ad approfondire, ho scelto Tunnel of love, probabilmente il lavoro in assoluto più intimo di Bruce.

Cominciamo da lui, The Boss. Uno degli aspetti che faceva dannare i fans di quell'epoca era il rigore, l'etica e la maniacale serietà che egli aveva (aveva) rispetto alla propria produzione. Una pignoleria che lo portava a scrivere e registrare decine e decine di pezzi per disco, da cui ne selezionava i canonici 8-12 da incidere e pubblicare. Questa, soprattutto nei primi tre lustri di carriera, era la regola, e noi lì a chiederci come potevano non essere divulgate tracce meravigliose (o almeno così le ritenevamo, condizionati dal mistero che le avvolgeva e da chi ce le raccontava sulle riviste) che eravamo "obbligati" a cercare affannosamente nei bootleg, manco fossero il sacro Graal.

Nel 1985, con il secondo leg del tour di BITUSA, quello che uscì dagli States per toccare gli stadi soprattutto europei, il mondo intero scoprì Bruce Springsteen. Non era la prima volta che il Boss usciva dal suo Paese (se dovessi credere a tutti quelli che sostengono di averlo visto a Zurigo nel 1981, quello stadio sarebbe dovuto essere grande come due Maracanà di Rio), ma qui le dimensioni delle location scelte per soddisfare l'enorme domanda di biglietti esplosero definitivamente tipo uno a dieci. Il successo nel vecchio continente raggiunse un tale livello che Born in the USA non bastava più a saziarlo e tornarono addirittura in classifica album come Darkness on the edge of town e/o Born to run.

Dunque, Bruce era in turnè mentre si scatenava la springsteenmania, e io sono certo che quelli della Columbia, la sua casa discografica, si stessero mangiando le mani, pensando ai soldi che avrebbero potuto fare pubblicando un nuovo album, se solo fossero riusciti ad avere l'assenso di quel folle a mettere le mani nei suoi archivi. 
Sarebbe andata bene qualcosa, qualunque cosa. 
E Bruce, volendo, un disco di altissima qualità, con le stesse sonorità di Born in the USA, quindi rock and roll, introspezione e critica sociale, avrebbe potuto assemblarlo in trenta secondi e senza muovere il culo da qualunque camera di hotel lo stesse ospitando in quel momento, grazie allo sconfinato repertorio di outtakes pronte all'uso che aveva, anche limitandosi ai più recenti scarti di BITUSA e Nebraska (per gli onanisti: My love will not let you down; Frankie; Shut out the light; Man at the top; Lion's den; Janey don't you lose heart; This hard land; Pink cadillac; Murder inc.; Sugarland; Stand on it; TV movie; The big payback, giusto per citarne una manciata ). 
Ma per lui quella parte di espressione artistica era chiusa, l'ispirazione come vedremo lo stava portando in altri lidi, e quello Springsteen lì non avrebbe mai fatto qualcosa che andasse contro la sua integrità artistica (quello Springsteen lì). 

Tornato a casa dopo un anno in giro per mezzo mondo, Springsteen si concentrò sulla sua vita privata. A trentasei anni non aveva una relazione sentimentale stabile. La più nota era stata con la fotografa rock Lynn Goldsmith, ma insomma, fino a quel momento, aveva costantemente anteposto la sua musica a qualunque altro aspetto di vita privata.

Sorprendendo un pò tutti, il rocker della porta accanto, quello che non aveva mai smesso di frequentare il territorio natale fuggendo dunque dalla vita della star, si accasa con una modella (con aspirazioni da attrice), Julianne Philips, di oltre dieci anni più giovane e, assieme a lei, superando la sua proverbiale riservatezza, posa per le maggiori riviste popolari e di gossip. Il matrimonio durerà solo un paio di anni, proprio il tempo che serve al Boss per tornare a pubblicare un album di inediti, a tre di distanza dal precedente clamoroso successo di Born in the USA. E' il 9 ottobre 1987 e nei negozi arriva Tunnel of love, una raccolta di canzoni meravigliosamente contraddittorie che rappresentano la più brutale, spietata, onesta, pubblica terapia di autoanalisi che Springsteen abbia mai fatto (e mai farà).

Basta analizzare i dischi fin a quel momento pubblicati per rendersi conto di come a Springsteen non piacesse restare fermo sulla stessa modalità espressiva, e pur tuttavia, anche con questa consapevolezza, più di un ascoltatore restò spiazzato mettendo per la prima volta la puntina sul vinile di Tunnel of love, per la prepotenza con cui emergeva la volontà di cambiamento di uno Springsteen che, dopo oltre dieci anni (al netto della parentesi di Nebraska) di esaltante, ma anche limitante convivenza con la E Street Band, guardava decisamente altrove.

L'intento di Bruce di affrancarsi da un pattern che l'aveva imprigionato in una gabbia dorata emerge cristallino già solo leggendo i crediti del disco, laddove apprendiamo che il Boss si cimenta in tutti gli strumenti, e i singoli membri della storica band fanno solo occasionalmente capolino nell'esecuzione dei brani, senza peraltro spiccare con il proprio brand stilistico, al punto da poter tranquillamente affermare che se invece di loro a suonare fossero stati dei session men, nessuno se ne sarebbe accordo. Non lo capimmo subito, ma si trattava per la Band di un avviso di sfratto, che si materializzerà subito dopo la fine del tour del 1988.

E il segnale anche simbolicamente più eloquente di questa rivoluzione è rappresentato dall'assenza, nelle dodici composizioni, del sax di Clarence Clemons, fino a quel momento presenza iconografica, irrinunciabile del wall of sound springstiniano, un climax identitario saccheggiato da molti wannabe ottantiani. Il gigante afroamericano è infatti malinconicamente relegato nemmeno in panchina, ma in tribuna, da dove si alza senza stringere tra le mani il suo strumento, per i cori di un'unica canzone (When you're alone). Agli altri non va molto meglio. La maggior parte di ciascuno dei dodici brani presenti sul lavoro vedono infatti la presenza di uno, al massimo due componenti della E Street, e quasi sempre si tratta dei soli Weinberg (batteria) o Danny Federici (tastiere). Un cambiamento che riverbererà anche sul tour mondiale a seguire, con il vecchio gruppo che farà più di un passo indietro sul palco, diviso per la prima volta con una sezione fiati e una batteria di coriste. 

Ma lo spleen dello struggimento sentimentale, dei dubbi esistenziali che attraversano Springsteen, solidi fili conduttori dell'album, può essere sintetizzato efficacemente in due momenti che la musica si limitano a lambirla, divisi temporalmente solo da pochi mesi , vale a dire il tempo che intercorre tra ottobre (release del disco) e giugno (pubblicazione di Tougher than the rest, quarto singolo estratto). Con l'arrivo nei negozi, al tramonto del 1987, di Tunnel of love, l'ultima riga della canonica lista dei crediti riporta un minimale, incerto, imbarazzato, maldestro, quasi autoimposto tributo alla neo-moglie ("Thanks Juli"), ma poco dopo, con la diffusione del video di Tougher than the rest, emerge in tutta la sua evidenza il passaggio di mano del cuore del rocker, che si manifesta attraverso un eloquentissimo e quasi erotico scambio di sguardi con Patti Scialfa durante l'esecuzione del pezzo.

Nel frattempo, da questa parte del mondo, io vivevo la mia prima relazione sentimentale importante, avevo finalmente patente e auto (tanto per saldare ulteriormente l'immersione con uno dei temi springstianiani più abusati) e sperimentavo per la prima volta (non l'ultima, ca va sans dire) l'ansia da fanboy per l'attesa di un nuovo lavoro del mio cantante preferito, con tutto ciò che questo comporta: la famelica ricerca di notizie, aggiornamenti (è superfluo ricordare che internet non esisteva), informazioni di qualunque genere sull'album e sulla sua data di uscita. Ricordo per esempio che l'anticipazione più diffusa vedeva Bruce apprestarsi a pubblicare un disco country. 

Tunnel of love un disco country tout court non lo era, tuttavia... 

(continua)




lunedì 17 luglio 2023

Elvis (2022)


Il mito di Elvis Presley, una delle più ingombranti icone pop del novecento, con flash della fanciullezza, l'esplosione nel 1956, le polemiche, il famoso '68 comeback, il declino, la morte. 

Ho ridotto all'essenziale la sinossi perchè, tanto, cosa c'è da dire sulla trama di un biopic (l'ennesimo, questo sì è da sottolineare), su Elvis? 
L'approccio cinematografico ipertrofico e caleidoscopico di Baz Luhrmann (regista che ho molto amato per il suo Romeo + Juliet) è noto, e per certi versi era la persona più adatta per riproporre una storia masticata e rimasticata più volte. 
La sua scelta è quella di far raccontare la vita del King da quello che ci viene indiscutibilmente presentato come il villain della storia: il colonnello Parker (interpretato da Tom Hanks), che sfrutta fino allo sfinimento psicofisico, spesso attraverso subdoli ricatti morali, il suo artista, soprattutto quando Elvis vorrebbe dare una svolta alla sua carriera con, ad esempio, un tour mondiale, affascinato dal successo di Led Zeppelin e Rolling Stones. 
E' sicuramente inusuale che la figura negativa del film (il Colonnello ci viene mostrato come un cinico e crudele affarista, responsabile diretto del decadimento di Presley, e quindi della sua morte) faccia anche da Caronte e ci conduca in questo viaggio prima esaltante (gli esordi) e poi tragico, con gli ultimi anni in cui il Re del Rock and Roll è sostanzialmente prigioniero di una residence (una serie infinite di show) a Las Vegas. 

Il primo atto del film è probabilmente il migliore, con la sceneggiatura che celebra il giusto tributo a tutta la musica nera (soul, gospel, errebì e blues) che Elvis, bianco in un area quasi totalmente afroamericana, ha respirato da fanciullo. E' citato il suo rapporto fraterno con B.B. King, Sister Rosetta Tharpe, Mahalia Jackson e le forti influenze di Blind Lemon Jefferson, Fats Domino e Little Richard. A formare il suo modo per l'epoca incendiario di stare sul palco la frequentazione dei locali per soli neri (all'epoca era ben salda la segregazione razziale) e, strano a dirsi, le chiese. In tutto questo non ci si può esimere dall'apprezzare la caratterizzazione di Austin Butler del King, al netto di un problema: forse per una eccessiva forma di rispetto verso il Mito, Butler offre allo spettatore sostanzialmente sempre la stessa immagine di Presley, nonostante l'originale Elvis fosse, nei settanta, appesantito com'era, la tragicomica controfigura di se stesso.

Probabilmente tutto il budget di trucco e parrucco è stato destinato al personaggio di Tom Hanks, con effetti, a mio avviso, inversamente proporzionali allo sforzo profuso, se, a tratti, si sfiora la comicità involontaria e se il suo colonnello assomiglia al Pinguino di Batman, nella versione di Danny De Vito. 

Il giudizio del film oscilla su questi aspetti. Va dall'esaltazione eversiva, quasi punk del primo atto (fino alla "punizione" del servizio militare), alla descrizione di un personaggio troppo monodimensionale (il col. Parker, appunto) fino ad un indigesto e poco credibile melodrammone finale. E' cristallina la volontà di Luhrmann di ricondurre il mito alle sue origini musicali, restituendo così un ruolo centrale a tutta la comunità nera proto rock 'n roll  dei primi cinquanta, e in questo l'operazione non solo è riuscita ma sacrosanta. C'è, d'altra parte, una forma di deferenza assolutoria, agiografica, sulla figura, in realtà controversa, del King, che contamina un pò il tutto. 

Elvis resta comunque una produzione importante, mai come in questo caso da vedere per farsi una propria opinione personale.


Sky

lunedì 10 luglio 2023

Le mie cose preferite di maggio e giugno 2023

ASCOLTI

Iggy Pop, Every loser
U2Songs of surrender
Metallica72 seasons
Steve Earle and The DukesJerry Jeff
Van MorrisonMoving on skiffle
L.A. Guns, Black diamonds
Lucinda Williams, Storeis from a rock 'n roll heart
Planxty, Aris
Raven, All hell's breaking loose
Meshell Ndegeocello, The omnichord real book
Gov't Mule, Peace...like a river
John Mellencamp, Orpheus descending
Jason Isbell and The 400 Unit, Weathervanes
Vomitory, All heads are gonna roll
Ben Harper, Wide open light
Winery Dogs, III
Robbie Fulks, Bluegrass vacation
The Interrupters, In the wild
Def Leppard, Drastic symphonies
The Tossers, S/T
Extreme, Six

MONO

System of a down
John Fogerty
Faith No More


VISIONI

Queen & Slim (3,5/5)
Beau ha paura (4/5)
Boiling point - Il disastro è servito (3,5/5)
Outrage Beyond (3,5/5)
Outrage Coda (3,5/5)
The losers (2/5)
Operation Fortune (2,5/5)
One way (2022) (3/5)
Tetris (1/5)
Yaksha (3,25/5)
Villetta con ospiti (2,75/5)
Air - La storia del grande salto (2,5/5)
Masquerade - Ladri d'amore (2,75/5)
Mon crime - La colpevole sono io (3,25/5)
Tre fratelli (3/5)
The forgiven (2,5/5)
I Guardiani della galassia, vol. 3 (3,5/5)
Fractured (3/5)
Ida Red (3,5/5)
American gigolò (3,75/5)
Dov'è la tua casa (3/5)
Io confesso (3,5/5)
Quel pomeriggio di un giorno da cani (4/5)
Le buone stelle (3,25/5)
Tra due mondi (3,75/5)
Le jene di Chicago (3,75/5)
Sharper (2/5)
Son of no one (2/5)
Grazie ragazzi (2,5/5)
Paura in palcoscenico (3,5/5)
Flamin' hot (1,5/5)

VISIONI SERIALI

Save me (3,5/5)
The last of us (3,25/5)
Beef - Lo scontro (3/5)
Killing Eve (2,5/5)
Ted Lasso, 2 (3/5)

LETTURE

Fedor Dostoevskij, Il giocatore

lunedì 3 luglio 2023

Recensioni capate: Air - La storia del grande salto (2023)

Compiaciuto atto di autoerotismo sul "modello" della società capitalista USA, Air - La storia del grande salto è intriso di prosopopea americana, delle sue regole, delle sue parole d'ordine (celebrate con enfasi nel decalogo del successo della Nike). Qui almeno c'è una regia (Affleck) e un cast di livello (Damon, Davis, lo stesso Affleck, Bateman con parrucca improponibile, la Davis) che forniscono un'ottima prova, la sceneggiatura scorre e il film ha un ritmo accattivante. Poi, oh, alla fine è sempre la solita storia, sovrapponibile a tante altre già viste (l'ultimo Flamin' hot, su Disney Plus, ad esempio).

Prime Video

lunedì 12 giugno 2023

Recensioni capate: Rattlesnake Milk, Chicken fried snake (2022)



Texani di Lubbock, al terzo album, i Rattlesnake Milk dopo un inizio cowpunk si registrano dentro un mood sonoro meno anarchico, ma che resta, nelle liriche, fermamente ancorato a tematiche ribelli, propriamente outlaw. Si viaggia pertanto dentro storie borderline, di vite alla deriva, di pistole, famiglie disfunzionali e, ovviamente whiskey e vite di strada. Il sound è cementificato con la slide guitar (di Andrew Chavez) che già di per sè ha il sapore ferroso della strada, della sabbia, della sconfitta. Ci canta sopra Sean Lewis e bastano un paio di strofe, ad esempio di On the road o di .38 special, per realizzare che dalla sua ugula non potranno mai uscire versi zuccherosi e spensierati. Un disco che può far affiorare apparentamenti con le cose soliste di Mark Knopfler, ma che suona più fresco, urgente ed autentico della roba dell'anziano ex leader dei Dire Straits. Unica pecca, ma per altri può essere un valore, un brand, la monoliticità dei pezzi, che quando arrivi alle ultime tracce può saturare un pò. Gran bel disco, anyway.

giovedì 8 giugno 2023

Recensioni capate: Tra due mondi (2021)

Tra due mondi è senza dubbio un film anomalo. Girato dallo scrittore Emmanuel Carrere (Limonov), tratto dal libro denuncia di Florence Aubenas sulle condizioni di lavoro del sottoproletariato francese e fortemente voluto dalla protagonista Juliette Binoche, sostanzialmente unica attrice professionista del cast, il progetto avrebbe potuto trovare più di un ostacolo sulla sua strada. Invece, al netto di qualche incertezza, la pellicola raggiunge il suo obiettivo, che non è solo quello di mostrarci senza pietismi la vita precaria, stremante e senza speranza di un gruppo di lavoratrici delle pulizie, e quindi ragionare ancora una volta sugli effetti del capitalismo, ma quello di evidenziare le enormi, incolmabili differenze (di classe) di due mondi, persino con chi (la Binoche, la cui protagonista è un'esponente dell'intellighenzia di sinistra), del mondo di sotto entra a far parte per un periodo, ma con secondi fini. In questo senso il finale del film, amarissimo, è semplicemente perfetto.

Sky Cinema

lunedì 5 giugno 2023

Guardiani della galassia vol. 3 (2023)


Da tempo ho perso qualunque tipo di interesse per le produzioni del Marvel Cinematic Universe. Sarà sicuramente perchè ormai ho una certa, ma non si può ignorare l'evidente  caduta a picco del livello qualitativo dei film, deflagrata, a mio avviso, dopo Avengers Endgame in una ridicola farsa nella quale il bilanciamento tra epica, dramma e, appunto, demenzialità è definitivamente saltato verso quest'ultima. E, a mio, avviso, la "responsabilità" di questa deriva è indirettamente da attribuire proprio a James Gunn, che, dieci anni fa, con il primo capitolo de Guardiani della Galassia ha introdotto nel MCU questa modalità di intrattenimento, da lui ampiamente sperimentata nel corso di tutta la propria carriera, dalla Troma a Super - Attento crimine!!! 
L'errore della Marvel, dopo il successo enorme del primo dei Guardiani, fu pensare che la formula potesse essere replicata da chiunque, come se, e scusate il paragone improprio, bastasse fare un film sulla delinquenza giovanile per replicare il Kubrick di Arancia meccanica. Da qui lo scempio dell'ultimo lustro, e basta riguardare i primi film Marvel (gli Spider-Man di Raimi, gli X-Men di Singer, i primi Avengers, Iron Man, etc. ) per rendersi conto della distanza siderale con gli attuali prodotti usa-e-getta.

Quindi. Non vado più al cinema per i film Marvel. A parte qualche significativa eccezione. Quando cioè dietro al progetto c'è un regista autentico e non un impiegato intercambiabile. Così è stato per il Doctor Strange di Raimi e così è per James Gunn, che chiude meravigliosamente, anche in modo melodrammatico (ma senza rinunciare mai all'ironia) questa storia di una formazione di eroi totalmente improbabile e di quinta fascia ai tempi dei soli fumetti. 

L'incipit chiarisce subito come il taglio del film, a differenza dei due capitoli precedenti, sia orientato alla malinconia, con Rocket che ascolta la depressiva Creep dei Radiohead mentre cammina solitario lungo le strade della città satellite, base dei GDG. Da lì, e nel corso degli eventi della storia, comincia il flashback sulle dolorose origini del procione (sì, procione, e non tasso). Questa è la parte della pellicola in cui Gunn si raccorda maggiormente col gotico, con il filone horror del "dottore pazzo", ma anche con la capacità che aveva la Disney di intenerire con personaggi buffi e deliziosi. Nel farlo arriva chiaro e potente anche il messaggio animalista e anti-vivisezione del regista. Non penso di essere stato l'unico, in sala, con gli occhi lucidi, durante più d'una sequenza. 

Ma, naturalmente, questo "volume 3" è anche in tutto e per tutto un film di Gunn e dei Guardiani, quindi mostroni, battute a raffica, strategie fallaci, colpi di genio, salvataggi non riusciti, intervenenti miracolosi dell'ultimo secondo e una grandissima colonna sonora (un unico appunto: perchè sottoutilizzare la mitologia Badlands di Springsteen? Ci sarebbe stata da dio nella narrazione e non a metà dei titoli di coda). 

Il film, come detto, chiude coerentemente una trilogia di favolosa science fiction, collegata al MCU solo per diritti cinematografici ma per massima parte totalmente godibile anche in maniera indipendente. E, visto che James Gunn ha reciso definitivamente il suo rapporto con la Marvel (farà il vice presidente dell'ambito cinematografico della concorrente DC), sarebbe altrettanto coerente chiudere qui con questi personaggi. Lo scrivo nella consapevolezza che, ovviamente, non avverrà.

giovedì 1 giugno 2023

Warrior Soul, Out on bail (2022)


Dodicesimo album di inediti per i Warrior Soul, o meglio, per Kory Clarke, frontman, singer, songwriter, ormai one man band (o last man standing) del glorioso monicker che ha esordito nel 1990 "riuscendo" nell'impresa di essere sempre disallineato a qualunque trend musicale in voga. Raramente, questa condizione di perenne outsiders, ha comportato affermazioni popolari e/o commerciali e i WS, infatti, non fanno eccezione. 
Ma di questo ho già scritto nei post precedenti sul gruppo, pertanto passo direttamente all'analisi di Out on bail, disco che va in controtendenza rispetto agli ultimi rilasciati, laddove, pur in presenza del riconoscibilissimo marchio impresso dalla voce di Clarke, il sound si era adagiato su un confortevole hard rock mainstream di buona qualità. Con questo lavoro i Guerrieri tornano, inaspettatamente ma con risultati eccellenti, ai loro pattern più originali, alle chitarre acide, le atmosfere lisergiche, alla sospensione del tempo, ad un rock più liquido e meno dritto per dritto, insomma tornano a fare i Warrior Soul, mi sembra non ci siano dubbi a riguardo.

Con We're alive, che apre l'album, è forte la suggestione di tornare indietro di trent'anni (ma senza quella fastidiosa sensazione di autoplagio in cui spesso si incappa quando band spompate "tornano alle origini"), e il viaggio totalmente immersivo nel WS Universe continua quasi senza soluzione di continuità da canzone a canzone, con l'unica eccezione in salsa AC/DC-Motorhead del brano che (curiosamente, dato il suo essere stilisticamente avulso dal resto) dà titolo all'opera. Probabilmente un residuo della doppietta precedente di lavori in studio (Back on the leash e Rock 'n' roll disease).
Assieme alla ripresa del loro sound si riaffaccia prepotente nei testi di Clarke anche la vena polemica, anti-social e anarchica tipica del suo songwriting, che ben si esprime dentro tracce quali Cancelled culture, End of the world o The new paradigm, e anche questa è un'ottima notizia.

Tra l'altro, durante il covid, nemmeno i WS si sono sottratti alla pratica dell'album di cover (Cocaine and other good stuff), che, ad un ascolto distratto, non mi sembra proprio imprescindibile, vedremo se gli concederò altre chance di crescere. 
Out on bail, al contrario, è un appuntamento imperdibile per i fan della band, e un'occasione per approcciarli a chi, colpevolmente, ancora non li conosca.

lunedì 29 maggio 2023

Recensioni capate: The Broken Spokes, Where I went wrong (2021)


A volte sembra basti poco, ma evidentemente così proprio non è, se per ascoltare uno straordinario, genuino honky tonk album bisogna armarsi di santa pazienza e procedere per numerosi, frustranti, tentativi. 
Per fortuna ci sono i Boken Spokes che la tua perseveranza la ripagano per intero, con un ten-tracks sfavillante, dove la distanza qualitativa tra cover classiche (solo due: Driving nails in my coffin' di Enrest Tubb e Honky tonk song di Mel Tillis) e pezzi inediti è azzerata da un songwriting eccelso e un sound che ci ricorda la stretta parentela esistente tra questo stile del country e il rock and roll ma anche tra la redneck music e l'old time di New Orleans (River of blues). 
Un album che letteralmente vola, non solo per la brevità del timing complessivo, ma anche e soprattutto per la non scontata capacità della band di interpretare un genere che ha qualcosa come tre quarti di secolo di storia. 
Irresistibile.

giovedì 25 maggio 2023

Recensioni capate: Queen & Slim (2019)

L'esordiente regista Melina Matsoukas (una lunga gavetta nei video musicali, prevalentemente modern errebì) debutta con un road movie, nel solco della solida tradizione hollywoodiana di genere che prevede una coppia in fuga. Nel caso specifico, i due, di cui non viene mai svelato il nome, interpretati da Daniel Kaluuya (attore feticcio di Jordan Peele) e Jodie Turner Smith (poco cinema prima di questo film, molto dopo), scappano dall'omicidio commesso per legittima difesa ai danni di un poliziotto razzista. Nella loro improbabile fuga verso la libertà (Cuba, ironico, no?) attraversano un'America frantumata e divisa, tra giovani neri pieni di odio e risentimento che li eleggono, loro malgrado, ad eroi e poliziotti, sempre neri, schiacciati tra senso del dovere e coscienza del problema del razzismo nelle forze dell'ordine. Film non impeccabile, ma molto valido. Melina ha un'ottima mano, i paesaggi e le location rendono bene il degrado di quella parte di sud degli states, le contraddizioni dei comportamenti dei "fratelli", così come l'aiuto decisivo di una famiglia di bianchi,  evitano la trappola dello schierare buoni da una parte e cattivi dall'altra, anche se è chiaro per chi parteggi la regista. Sempre convincente Kaluuya: con quella faccia da ragazzo bravo ma sempre un pò spaesato, è perfetto per il ruolo.

lunedì 22 maggio 2023

Cruachan, The living and the dead

La prima volta che approcciai gli irlandesi Cruachan mi trovavo nella fase in cui ricercavo spasmodicamente qualunque band il cui genere fosse catalogato sotto il prefisso "irish". In quel caso era irish-metal (lo so, non si usa più). Probabilmente all'epoca (credo fossero i primi anni duemila con l'album Folk-Lore, che comprendeva un paio di featuring di Shane Mac Gowan) le mie orecchie non erano pronte a quel tipo di contaminazioni, al punto di archiviare in fretta l'esperienza valutandola bizzarra e molto prossima ai confini del ridicolo.

Ora, io non so se avessi ragione all'epoca oppure oggi, quando, nel frattempo, provo piacere ad ascoltare qualcosa del folk-metal, fatto sta che il nono disco (in quasi trent'anni) dei Cruachan mi sta regalando momenti davvero piacevoli, laddove il raccordo tra musica e strumenti tradizionali irlandesi si armonizza con cantato scream, (ma anche clean), sonorità thrash, doom e metallerie varie. 
Funziona la commistione dei pattern, siano essi strumentali, come le 100% irish The living o The festival, che quelle in cui prevale sì la componente metal (The harvest, The ghost), ma senza accantonare mai l'elemento roots. 
A caratterizzare il forte valore trasversalmente identitario dell'operazione anche il ventaglio degli ospiti, che include il prevedibile contributo di un'altra importante band folk-metal, i Fintroll, con il singer Mathias Lillmans (The ghost) 0 il chitarrista dei Venom Stuart Dixon (The witch), per poi scartare sul fisarmonicista Camillus Hiney (The festival) e all'accoppiata tra la singer venezuelana Nella e l'attore Jon Campling (The changeling).

Un disco insomma che è un viaggio suggestivo, al tempo stesso malinconico ed elettrizzante, dentro un universo di tradizioni che, attraverso la centrifuga metal, invece di perdere, ci guadagna ulteriormente in allure evocativa.

E così siamo arrivati a maggio inoltrato per avere la prima recensione del 2023...

giovedì 18 maggio 2023

Bruce & Shane

Nei giorni in cui si trovava a Dublino per le date del tour europeo, Bruce Springsteen ha fatto visita a Shane Mac Gowan. Non fosse stato per Victoria, moglie dell'ex frontman dei Pogues, che ha inteso immortalare il momento e diffonderlo sui social, la visita sarebbe rimasta rigorosamente privata. 
La foto, a causa delle precarie condizioni di salute di Shane, mette tanta tristezza. 
E peccato anche che negli show di Dublino Bruce non abbia chiuso il cerchio interpretando un pezzo dei Pogues. 
Al netto di tutto ciò, grande commozione.


L'articolo di Repubblica.


lunedì 15 maggio 2023

Playlist sciuè sciuè, 4

01. Johnny Hallyday, Allumer le feu
02. Talking Heads, (Nothing but) Flowers
03. Iggy Pop, Strung out Johnny
04. Danger Mouse & Blach Though with Michael Kiwanuka, Aquamarine
05. Gary Numan, Cars
06. Steve Earle, I makes money
07. Suicidal Tendencies, Send me your money
08. Steve Wonder, Master blaster (Jammin')
09. Ginger Wildheart & The Sinner, Wasted time
10. Tricky, You don't wanna
11. Lou Reed, Sex with you parents (motherfucker) part II
12. Periphery, Wildfire
13. Blackmore's Night, Once in a million years
14. Depeche Mode, Never let me go
15. U2, Two hearts beat as one (2023 version)
16. Magazine, Shot by both sides
17. Flogging Molly, Now is the time
18. Pearl Jam, Smile
19. Cruachan, The crow
20. Japan, Gentlemen takes polaroid