lunedì 29 agosto 2022

Amyl and the sniffers, Comfort to me (2021)

Tra tutti gli svariati generi musicali, il punk è l'unico ad aver l'onore di essere periodicamente dato per morto (e peraltro di fottersene). In pochi, nel corso del tempo, si sono sognati di dire che il blues fosse morto, o che lo fossero il jazz o il metal. Vero è che la perentoria affermazione sul punk allude più al "movimento", allo spirito anarchico e ribelle di questa musica, che per i suoi sostenitori più radicali è addirittura durato pochi mesi, nel corso del 1977, piuttosto che alla musica in sè stessa. Tuttavia, anche su questo aspetto la leggenda supera la realtà, visto che molti critici sono piuttosto unanimi nel confutare la tesi della spontaneità scevra da strategie commerciali dei manager musicali delle band. E' noto che anche i gruppi che hanno scatenato conflitti più violenti con lo status quo sociale (e i Sex Pistols lo fecero, oh se lo fecero), avevano comunque dietro un progetto manageriale. Nessun problema per il sottoscritto. Le aziende discografiche lanciavano quello che chiedeva il mercato, ciò non leva un grammo dall'onestà intellettuale e dall'urgenza comunicativa delle prime formazioni.

E, a mio avviso, Amyl and The Sniffers, qui al secondo lavoro, dell'urgenza comunicativa, della spontaneità, del livore necessari al punk ne hanno a pacchi. Sporchi, anarchici, indipendenti, coi testi giusti, questi australiani capitanati da Amy Taylor vanno dritto per dritto, senza pose o particolari sovrastrutture. La strumentazione è quella tipica del genere, basso-chitarra-batteria, con in aggiunta l'abrasiva prestazione vocale della Taylor che deflagra su ogni pezzo, a partire dall'iniziale Guided by angels. E' inutile che io mi soffermi sul fatto che le tredici tracce (per trentacinque minuti di durata) che compongono il lavoro siano tutte frustate che solo sporadicamente superano i tre minuti e che i testi siano coerenti con la filosofia straightahead, che raggiunge l'apice con il fenomenale dichiarazione d'intenti di Don't need a cunt (Like you to love me)

In uno scenario dentro il quale, dal be-bop jazz al black metal, l'industria globale ha saputo, nel tempo, trasformare ogni movimento musicale di rottura in una moda, un disco sudore, vomito, fango e ruggine come questo è una boccata di ossigeno.

lunedì 22 agosto 2022

James Cain, La falena (1948)

La vita, o meglio, le tante vite dalla fanciullezza all'età adulta, di Jack Dillon, americano del Maryland cui le circostanze imporranno di usare i suoi molteplici talenti per sopravvivere ad un periodo tra i più complicati della storia americana: quello a cavallo delle due guerre mondiali.


Da sempre appassionato di letteratura noir classica, quella cioè che copre l'orizzonte temporale tra gli anni trenta e la fine dei cinquanta, non ho mai avuto dubbi su quale fosse il mio scrittore americano preferito. Non il più celebrato, Chandler, e nemmeno Spillane o Hammett, bensì James Cain, i cui romanzi ho sempre trovato più disperati, realistici, e i personaggi senza speranza alcuna di redenzione, rispetto a quelli degli altri. Molti dei suoi titoli sono diventati anche altrettanto imperdibili film noir, tra i più famosi Il postino suona sempre due volte e La morte paga doppio. Ma che Cain fosse uno scrittore ed un intellettuale più profondo, che non si accontentava dello stretto perimetro di un genere l'avevo intuito già con Serenata (1937), dove tratta il tema dell'omosessualità con inaspettato rispetto e modernità. 

In questo La falena, per come Cain fotografa in maniera convincente un periodo, quello successivo alla crisi economica del 1929 e alla successiva great depression che ha rovinato la vita a milioni di famiglie americane, ci sono, almeno in parte, gli stessi semi che germogliarono in Furore, capolavoro di John Steinbeck
Dentro la minuziosa descrizione della vita da homeless di Jack  c'è probabilmente la parte più cruda del libro, quella che maggiormente si allontana dalla definizione di noir. La spiegazione di come persone comuni discendano sempre più nella spirale della povertà, della fame e quindi della disperazione che li conduce prima ad accettare qualunque impiego e poi a delinquere è al tempo stesso sconvolgente ed estremamente naturale, realistica. Anche perchè quando dipinge uno scenario, Cain non si limita ad abbozzarlo, ma a documentarlo fino al più oscuro tecnicismo, come nel caso della parte sull'estrazione petrolifera, il funzionamento dei pozzi e le annesse speculazioni delle banche e delle società finanziarie.

Jack Dillon, come detto nella sinossi, vive molte vite dentro questo romanzo: cantante, atleta di football americano, petroliere, imprenditore alimentare. In quasi ognuna di queste la sua irrequietudine, il suo disagio, la sua costante insoddisfazione lo spingono a rovinare tutto e ripartire da capo e anche quando non lo vorrebbe, chi gli sta vicino intuisce la sua infelicità e decide per lui. 

Ai miei occhi, Jack Dillon è dunque la metafora dell'America, the land of plenty, al tempo stesso vittima e carnefice, che promette tanto ma mantiene poco, e quando lo fa chiede un prezzo non sempre sostenibile. Tuttavia Dillon è anche la falena del titolo, sia dal punto di vista metaforico, il raggiungimento di una posizione sociale rispettabile, agiata, che sembra leggere ogni volta il bluff del protagonista e respingerlo come la lampadina incandescente fa con gli insetti, che da quello reale, con Jack che a un certo punto va a tanto così da un fuoco indomabile, un calore infernale che potrebbe incenerirlo, solo per riprendersi onore, dignità e posto nel mondo.

Per questa ragione, da un romanzo da amare incondizionatamente, in irripetibile equilibrio tra storia, analisi sociale ed avventura, e da un autore che non ha mai avuto timore di scontentare i lettori con finali terribili, non mi aspettavo una conclusione (spoilero, ma è un libro del '48!) happy ending e cuoricini (e anche un pò telefonata) come quella delle ultime dieci-dodici pagine del libro.
Chissà se Cain non avesse in mente altro e invece si sia dovuto piegare alle logiche commerciali imposte degli editori. 
Dopotutto anche i geni devono pagare l'affitto.

lunedì 15 agosto 2022

Top Gun Maverick

 


Oltre trent'anni dopo gli eventi narrati in Top Gun, tornano (quasi) tutti i personaggi della saga, con Maverick che nel frattempo diventa un discolo istruttore e, tra una sessione formativa impossibile e l'altra, trova anche il tempo di salvare il mondo.

Diciamo pure che, da ragazzo, mi sono tranquillamente perso molti degli ipertrofici film-generazionali degli anni ottanta. Uno di essi è stato Top Gun, recentemente recuperato, probabilmente fuori tempo massimo, e alquanto disprezzato. Quindi perchè spendere soldi per vedere al cinema il suo sequel? La risposta è semplice, mi andava di vedere un film "da grande schermo" ed era un pò che non andavo in sala. 

Purtroppo la mia reazione è stata la medesima post visione del titolo originale, a partire dall'incipit carta carbone sulla portaerei, comprensivo di Danger zone di Kenny Loggins, accompagnamento musicale del 1986. Top Gun Mavericks è altro film che celebra l'americanismo più becero, la competitività più sfrenata quale unica via per il successo, la celebrazione del mito militare a stelle e strisce che abbisogna sempre di un nemico tanto potente quanto subdolo e pericoloso per la pace mondiale (quello del film ha armi all'avanguardia e una base militare nei ghiacci...Ma chi sarà? Emoticon pensierosa), ragion per cui "i buoni americani" sono autorizzati ad invadere il suo spazio aereo e distruggerlo. Mamma mia quanti danni sulle giovani menti.

Tom Cruise (deus ex machina del progetto, di cui è anche produttore) è imbarazzante, nel senso che si sforza di apparire più giovane di quando lo era veramente, giovane. La sceneggiatura è originale quanto le campagne elettorali di Berlusconi e quando si arriva alla sequenza gay-friendly con l'inverosimile partita di football americano sul bagnasciuga, quasi quasi ti prende la nostalgia per l'allenamento sulla spiaggia di Rocky con Apollo Creed in Rocky III, che all'epoca faceva ridere, ma al confronto con sta roba è Il settimo sigillo di Bergman. 

Tuttavia gli aspetti che mi sembrano più sconcertanti sono il riscontro al botteghino, il film è stracampione d'incassi all over the world (in Italia, uscito a fine maggio, è ancora nelle sale), e il generalmente favorevole riscontro di critica. 
Mi consolo con il fatto che, grazie a questo successo, le sale cinematografiche abbiano ricevuto un pò di ossigeno, soffocate come sono dalle piattaforme di streaming. 
Io invece, uscito dalla sala avevo solo voglia di invadere la Polonia.

lunedì 8 agosto 2022

Una squadra (docuserie, 2022)



Le gesta sportive della squadra azzurra di tennis composta da Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Antonio Zugarelli che ha raggiunto, negli anni settanta, i migliori risultati sportivi di sempre nell'ambito della coppa Davis.

Nell'anno in cui le celebrazioni della vittoria al Mundial 82 hanno sfrangicato le palle perfino a me, che sono emotivamente legatissimo a quell'evento, esce per Sky questa serie che racconta un'altra storia, per certi versi dimenticata. Attraverso le interviste ai quattro tennisti e ad altri importanti comprimari di quell'epoca, Domenico Procacci, qui regista oltre che produttore, riesce a ricostruire un'intera epoca, un'Italia che non c'è più, riuscendo a bilanciare come raramente mi è capitato di vedere, emozioni e leggerezza. 
Il centro del racconto dovrebbe essere la vittoria dell'unica coppa Davis in bacheca azzurra, conquistata nel 1973 sul suolo cileno brutalizzato dalla dittatura di Pinochet, tuttavia, mano a mano che ci si inoltra nella visione, ci si appassiona in misura superiore all'intera carriera dei quattro, la cui importanza nel tennis tricolore è tutta nei numeri, con quattro finali conquistate sulle sette complessivamente disputate in tutta la storia del torneo (1973,1977, 1979  e 1980), senza contare quelle del capitano non giocatore Nicola Pietrangeli (1960 e 1961) con le quali arriveremmo a sei su sette. 

Ma, come accennavo, la carta vincente della docuserie è rappresentata dalla personalità dei quattro tennisti, che emerge tra ironia, commozione, amarezza, ma anche vanità, indomito spirito di competitività, e financo con qualche battuta feroce nei confronti degli amici/rivali di quel periodo. La star è il romano Panatta, che, tra ammiccamenti, battute e tanto understatement, è perfettamente a suo agio davanti alla camera così come il suo concittadino Bertolucci. Anche il piemontese Barazzutti se la cava senza timidezze, ma la vera sorpresa è Zugarelli, riserva della squadra che raramente assaggia le luci della ribalta e che ha un background molto meno mondano dei due romani. Tonino è quello che più si commuove ricordando l'infanzia in estrema povertà, la via d'uscita dal tennis che però era anche l'unica forma di guadagno, con tutta l'enorme pressione che ne conseguiva, per lui che già da giovanissimo si fece una famiglia. Forse la testimonianza più genuina ed empatica di tutti i protagonisti.

La serie, come da regola, si muove tra interviste registrate per l'occasione ed immagini di repertorio di partite, servizi dell'epoca e pagine dei quotidiani, lasciando anche qui, attraverso la riproposizione di contesti e personaggi di una RAI che fu (Galeazzi, quando faceva il giornalista), un'intensa traccia emotiva in quanti erano bambini negli anni settanta.

Concludo il post tornando alla partita cilena, con tutto quanto la accompagnò, tra chi sosteneva che non si dovesse andare per protestare contro Pinochet (il P.C.I., ovviamente) e chi invece era dell'idea opposta (più o meno tutti gli altri). Nel ricostruire quello scenario, Procacci intervista un giornalista scrittore cileno che, tra i tanti purtroppo avvenuti, racconta un episodio terrificante: la visita della FIFA (l'organo mondiale del calcio) allo stadio di Santiago per verificare che non ci fossero detenuti al suo interno, come la stampa aveva riportato. Ebbene, questi buffoni al soldo del business fecero solo il giro del campo, mentre negli spogliatoi e negli spazi interni migliaia di oppositori politici imprigionati e costretti al silenzio dalla minaccia delle armi vedevano passare codesti alti papaveri sorridenti e compiaciuti che tutto fosse perfettamente in ordine. Alla fine anche il P.C.I. si convinse dell'opportunità di giocare la finale di Davis. A persuaderlo furono proprio gli esuli e gli oppositori cileni, che pensarono di avere così una finestra di visibilità del loro martirio verso il mondo esterno.

In programmazione e on demand su Sky.

lunedì 1 agosto 2022

John Mellencamp, Stricktly a one-eyed jack


Che tipo di rapporto si crea con un artista, quando ascolti le sue composizioni  per qualcosa come più di trentacinque anni, vale a dire, nel mio caso, due terzi della tua vita? 
Chiaro, all'inizio è l'affinità con un genere a farti avvicinare ad un interprete, poi c'è la fase del coinvolgimento totale, gli album mandati a ripetizione, i testi imparati a memoria, i passaggi delle liriche in cui più ti riconosci sottolineati in rosso e magari scritti sul diario di scuola o su qualche muro della stazione mentre aspetti il treno. Poi il tempo passa, i tuoi gusti si modificano, ma per qualche ragione quel riferimento è sempre lì, in agguato. Non c'è la frenesia di una volta nello scartare una sua nuova release, non c'è più la magia di un ascolto speciale, magari di notte con le cuffie, quando il resto della famiglia dorme, ma prima o dopo, all'uscita di un suo nuovo album, sai che gli dedicherai un pò più di attenzione di altri e che, siccome pensi di aver sviluppato un certo giudizio critico, come si fa con le persone a cui tieni, non lesinerai, se pensi sia il caso, critiche. 

Il primo ellepì di Mellencamp che ho comprato è stato Scarecrow (1985), ottimo successo nelle charts americane (quattordici volte platino, che significava quattordici milioni di copie, con il fiocco rosso di tre singoli al numero uno) e fucina di brani che ancora oggi sono tra i più richiesti dai fan. Ci arrivai, ovviamente, sulla scia di Springsteen, cercando altri eroi del blue collar rock (anche se, nel caso dell'ex coguaro, sarebbe meglio parlare di farmer-rock). Ci misi un pò a metabolizzarlo, ricordo che mi entrò molto più sottopelle il successivo The lonesome jubilee, forse anche per il suo intrecciarsi con una fase felice (una delle prime della post-adolescenza e per questo più travolgenti) della mia allora giovane vita. Mellencamp cantava di gente che in periferia ci stava bene ma che non ce la faceva a tirare avanti, a cui la banca portava via la fattoria a causa dei debiti, che amava il rock and roll, il ballo, che subiva piccole grandi ingiustizie: di tutti quegli elementi insomma di cui la vita, tra tragedie e momenti di gioia, è fitta.  Lo stile definitivo di Mellencamp (violini, fisarmoniche, banjio, steel guitar) comincia timidamente a delinearsi, derogando progressivamente al mainstream rock venato di Stones che caratterizza la sua produzione fino Uh-Huh (1983) proprio da Scarecrow. E' da qui che la strumentazione old-music si prenderà sempre più spazio fino a contenere la definitiva cifra stilistica del buon Little Bastard. 

Difficile dire cosa mi aspetti oggi da un nuovo lavoro di JM, dopo che le mie orecchie hanno attraversato in questi anni sostanzialmente tutti i generi musicali, senza badare se fossero considerati alti o bassi, succhiandone avidamente la linfa vitale, nel tentativo di ritrovare le emozioni delle prime volte che sono, per antonomasia, irripetibili. Forse è solo una incapacità mia di affrancarmi dagli artisti che mi hanno formato, oppure abitudinarietà, comfort zone, nostalgia, una voce e un sound che per il cuore assolvono la stessa funzione del detto "sight for sore eyes" per gli occhi. Altro non saprei ipotizzare, ma insomma, non è che ci debba necessariamente essere una spiegazione razionale. L'amore per la musica non lo è.

Sicuramente, al contrario di molti altri, Mellencamp ha dalla sua una grande, financo brutale chiarezza d'intenti. Il suo rifugio nel porto sicuro è nella musica che ama, nel folk rurale, nelle piccole storie, con qualche divagazione che rimanda ai tempi del vecchio coguaro, sapientemente compensata da pennellate jazz. Tutta questa autonomia artistica da sola non è garanzia di qualità, a volte anzi i suoi lavori scivolano nel ripetitivo, brani di un disco si confondono con quelli di un altro e le fotografie delle persone che vivono ai margini si sporcano di paternalismo, però questo ambito gli consente una dignità artistica propria di pochi altri coetanei (mi sovviene Neil Young, più vecchio e anarchico, ma insomma ci siamo capiti). 

E dunque questa sommaria descrizione dell'artista si ritrova nell'ultima fatica (finalmente ci arrivo) Stricktly a one-eyed Jack, rilasciata nei primi giorni di quest'anno e figlia di sessioni necessariamente svolte durante i lockdown. Non che l'effetto delle limitazioni alla vita sociale causate dalla pandemia si avvertano particolarmente nel mood del disco, visto che John riprende perlopiù il solco crepuscolare emerso tra le note dell'ultimo lavoro di inediti, Sad clowns & hillbillies del 2018, e con esso una certa fascinazione per l'approccio al canto di Tom Waits che in  occasione di quella recensione avevamo segnalato.

L'album regala in questo senso piccole grandi suggestioni, raggiungendo a mio parere lo scopo che si prefigge, con alcuni apici davvero emozionanti (la tromba che irrompe malinconica in Gone too soon, l'andamento swing di Driving in the rain, l'atipica - per Mellencamp -  conclusione pianistica di A life full of rain), qualche ruvida, riuscita toccata-e-fuga in ambito rock mellecampiano (Did you say such a thing e Lie to me) e un bell'aggancio allo stile folk di fine ottanta (Sweet honey brown avrebbe potuto tranquillamente stare su Big Daddy). Tutto bene dunque? Non proprio. La tanto attesa collaborazione con Springsteen è arrivata forse fuori tempo massimo, con il Boss che è presente in tre canzoni, in due di esse come corista e chitarrista (le già citate Did you say such a thing e A life full of rain) ed in una, Wasted days, in duetto vocale (con tanto di video). Spiace affermare che il pezzo, assieme a Chasing raimbow, è brutto a livelli di inascoltabilità, fa proprio crollare ogni sospensione dell'incredulità lasciandoti improvvisamente davanti a due vecchi (benestanti) immalinconiti per il tempo che passa che non trovano di meglio da fare che mettere assieme una manciata di concetti retorici e banali. Due pezzi che zavorrano quello che resta comunque un ottimo disco, che ha avuto la forza, ancora una volta, di distogliermi dal monopolio dell'ascolto di benaltri generi musicali.
E forse la ragione della mia lunga storia con John "Cougar" Mellencamp sta tutta qui.