Chiaro, all'inizio è l'affinità con un genere a farti avvicinare ad un interprete, poi c'è la fase del coinvolgimento totale, gli album mandati a ripetizione, i testi imparati a memoria, i passaggi delle liriche in cui più ti riconosci sottolineati in rosso e magari scritti sul diario di scuola o su qualche muro della stazione mentre aspetti il treno. Poi il tempo passa, i tuoi gusti si modificano, ma per qualche ragione quel riferimento è sempre lì, in agguato. Non c'è la frenesia di una volta nello scartare una sua nuova release, non c'è più la magia di un ascolto speciale, magari di notte con le cuffie, quando il resto della famiglia dorme, ma prima o dopo, all'uscita di un suo nuovo album, sai che gli dedicherai un pò più di attenzione di altri e che, siccome pensi di aver sviluppato un certo giudizio critico, come si fa con le persone a cui tieni, non lesinerai, se pensi sia il caso, critiche.
Il primo ellepì di Mellencamp che ho comprato è stato Scarecrow (1985), ottimo successo nelle charts americane (quattordici volte platino, che significava quattordici milioni di copie, con il fiocco rosso di tre singoli al numero uno) e fucina di brani che ancora oggi sono tra i più richiesti dai fan. Ci arrivai, ovviamente, sulla scia di Springsteen, cercando altri eroi del blue collar rock (anche se, nel caso dell'ex coguaro, sarebbe meglio parlare di farmer-rock). Ci misi un pò a metabolizzarlo, ricordo che mi entrò molto più sottopelle il successivo The lonesome jubilee, forse anche per il suo intrecciarsi con una fase felice (una delle prime della post-adolescenza e per questo più travolgenti) della mia allora giovane vita. Mellencamp cantava di gente che in periferia ci stava bene ma che non ce la faceva a tirare avanti, a cui la banca portava via la fattoria a causa dei debiti, che amava il rock and roll, il ballo, che subiva piccole grandi ingiustizie: di tutti quegli elementi insomma di cui la vita, tra tragedie e momenti di gioia, è fitta. Lo stile definitivo di Mellencamp (violini, fisarmoniche, banjio, steel guitar) comincia timidamente a delinearsi, derogando progressivamente al mainstream rock venato di Stones che caratterizza la sua produzione fino Uh-Huh (1983) proprio da Scarecrow. E' da qui che la strumentazione old-music si prenderà sempre più spazio fino a contenere la definitiva cifra stilistica del buon Little Bastard.
Sicuramente, al contrario di molti altri, Mellencamp ha dalla sua una grande, financo brutale chiarezza d'intenti. Il suo rifugio nel porto sicuro è nella musica che ama, nel folk rurale, nelle piccole storie, con qualche divagazione che rimanda ai tempi del vecchio coguaro, sapientemente compensata da pennellate jazz. Tutta questa autonomia artistica da sola non è garanzia di qualità, a volte anzi i suoi lavori scivolano nel ripetitivo, brani di un disco si confondono con quelli di un altro e le fotografie delle persone che vivono ai margini si sporcano di paternalismo, però questo ambito gli consente una dignità artistica propria di pochi altri coetanei (mi sovviene Neil Young, più vecchio e anarchico, ma insomma ci siamo capiti).
E dunque questa sommaria descrizione dell'artista si ritrova nell'ultima fatica (finalmente ci arrivo) Stricktly a one-eyed Jack, rilasciata nei primi giorni di quest'anno e figlia di sessioni necessariamente svolte durante i lockdown. Non che l'effetto delle limitazioni alla vita sociale causate dalla pandemia si avvertano particolarmente nel mood del disco, visto che John riprende perlopiù il solco crepuscolare emerso tra le note dell'ultimo lavoro di inediti, Sad clowns & hillbillies del 2018, e con esso una certa fascinazione per l'approccio al canto di Tom Waits che in occasione di quella recensione avevamo segnalato.
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