lunedì 30 dicembre 2019

Bruce Springsteen, Western stars



E' mia ferma convinzione che lo Springsteen degli ultimi scarsi quindici anni abbia musicalmente vivacchiato, con l'ispirazione che si accendeva ad intermittenza come una vecchia lampadina della cantina che per pigrizia non ti decidi a sostituire. 
Credo altresì che dischi davvero brutti non ne abbia mai fatti (se volete, qui trovate le recensioni di Magic; Working on a dream; Wrecking ball; High hopes), ma, dopo il riuscitissimo esperimento irish-folk di We shall overcome (forse il migliore Bruce degli anni zero assieme a The rising), l'impressione forte è sempre stata quella di album raccogliticci, senza un preciso filo conduttore, con pezzi più che dignitosi (qui ho provato a mettere insieme il meglio del periodo 2007-2014abbinati a tracce che in passato avrebbero rappresentato oneste B-sides.

Paradossalmente, il succitato periodo è stato anche quello più ingolfato di uscite, quattro in sette anni, come non accadeva dagli esordi dei settanta, senza contare le  riedizioni espanso-celebrative di Born to run, Darkness on the edge of town e The river, i tour con annesse copiose pubblicazioni di dischi dal vivo, l'autobiografia e un anno di repliche a Broadway del suo spettacolo più intimo. Insomma, l'uomo non è rimasto mai troppo fermo, eccezion fatta per la pubblicazione di inediti, rispetto ai quali Springsteen ha fatto passare cinque anni per decidersi a sfornare il successore di High hopes (2014).

Successore che s'intitola Western stars ed esce a metà giugno e, sì,  io ne sto parlando negli ultimissimi giorni dell'anno, oltre sei mesi dopo.
La ragione va oltre l'attenzione speciale che ancora oggi metto nel recensire i lavori di Bruce, ed attiene invece alla lenta sedimentazione dell'opera, partita piano, in maniera quasi respingente e poi letteralmente esplosa a livelli e frequenze d'ascolto mai più raggiunte dai tempi del tributo a Pete Seeger.

Si, perchè con questo disco improvvisamente Springsteen ritrova sè stesso, un credibile storytelling e quel fil rouge che lega assieme le composizioni, rappresentando l'unicità dell'opera-album, a differenza delle raccolte di pezzi coagulati artificialmente, senza la necessaria alchimia. 
Tornano le storie dello Springsteen che abbiamo imparato ad amare, i suoi personaggi, i meravigliosi losers impigliati nella fitta ragnatela che permette di intravvedere da lontano il Sogno Americano, ma che, è certo, impedisce ai più di toccarlo, di raggiungerlo (Drive fast (The stuntman); Hitch hiker; The wayfarer ).

Del mood musicale ne sono state scritte davvero di tutti i colori, a me sembra molto semplice, e cioè che Western stars sia essenzialmente costruito in buona parte sul classico ed inconfondibile folk springstiniano, con il valore aggiunto di qualche riuscito innesto di orchestrazioni più sinfoniche e "cinematiche" nelle quali rieccheggia Roy Orbison (There goes my miracle), e forse Marty Stuart, ed altre dove emerge il tipico timbro dell'ormai fido produttore Ron Aiello (Tucson train).

Di certo a me sembra che mai (negli ultimi anni) come in questo caso si torni ai massimi livelli in quanto a liriche, con capolavori nascosti come Stones, grandi pezzi come Hello sunshine (difficile non ritrovarci il rapporto con la sua depressione); Drive fast, Somewhere out of Nashville, che svettano dentro una media complessiva comunque d'eccellenza.
A tutto ciò si aggiunga l'incredibile maturazione raggiunta dalla voce di quest'uomo, elemento che molti danno per scontato ma che scontato non è, per capire che siamo davvero in presenza di un disco speciale.

Tutt'altro discorso è la parte definiamola commerciale dell'operazione nuovodiscodispringsteen, a partire dalla decisione, tristemente ricorrente, di ristampare il cd a pochi mesi dall'uscita, con la scusa dell'integrazione con un disco dal vivo (in questo caso soundtrack del film documentario) nel tentativo di "imporre" ai fans completisti il doppio acquisto.  Non esente da critiche anche il look posticcio di un "Boss" fotografato nel deserto, agghindato da cowboy in pose molto, troppo, perentorie, per finire con l'ennesima scelta poco convincente e a tratti inspiegabile dell'immagine per la copertina del disco. Quanto sarebbe stata più efficace, psichedelica e misteriosa la foto del sole che deforma i contorni dei joushua tree presente sulla quarta di copertina del booklet del cd (la posto qui sotto)? D'altro canto per quanto concerne questi aspetti (immagine e copertine dei dischi) davvero il buon Bruce non ne azzecca una da tempo immemore. 
Ce ne faremo una ragione, soprattutto in questo caso, si tratta di elementi del tutto marginali.

Ciò che davvero, davvero, conta è che Western stars rappresenta, finalmente, il gran bel disco che aspettavi da tempo. L'album del ritorno di un artista che quest'anno ha compiuto settanta anni e, se vogliamo essere onesti, non ci sono molti altri (quasi) coetanei, dall'inarrivabile Dylan a Neil Young, che a quest'età abbiano rilasciato dischi così intensi, credibili ed ispirati (forse giusto l'ultimo Bowie).

Insomma, credeteci o no, Springsteen nel 2019 ci ha regalato un album da ricordare.



lunedì 23 dicembre 2019

Who, The Who

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Ogni giorno il ventre gravido di quel che resta dell'industria musicale partorisce band che continuano a clonare Beatles, Black Sabbath, Stones o Led Zeppelin. Per qualche ragione non c'è traccia di giovani virgulti che si vogliano caricare sulle spalle il mito degli Who. Probabilmente perchè questa band è la meno incasellabile nell'ambito di quelle che hanno fatto la storia della nostra musica. Certo, alcuni elementi del suo brand sono immediatamente riconoscibili: i power chords, i tappeti di keyboards, gli irresistibili refrain. Tuttavia gli Who sono anche molto altro, ed è forse questa difficoltà ad allontanare ipotetici emuli.
Di certo la band non è mai stata prolifica, se le uscite totali contano dodici lavori, di cui dieci tra il 1965 e il 1981 e due negli ultimi trentotto anni.

Basterebbe questo a segnare con un cerchietto rosso sul calendario ogni release date, ma in realtà l'evento non è caratterizzato solo dall'uscita del disco ma dalla sua (sorprendente?) qualità.
Della formazione che conoscevamo sono rimasti i due leader storici, Townshend e Daltrey, giacchè il mitologico batterista Keith Moon ci lasciò nel lontano 1978 e il bassista John Entwistle nel più recente 2012, ma l'impatto che i due sanno ricreare riporta comunque l'orologio indietro nel tempo, e i sodali lo sanno, se è vero che l'opener All this music must fade è one hundred per cent Who, con le inconfondibili schitarrate di Pete e le sue implacabili lyrics nelle quali, il settantaquattrenne del Middlesex riesce ancora ad irradiare strafottenza come solo lui può fare ("I don't care / I know you're gonna hate this song").

Dal canto suo Roger Daltrey, che probabilmente dal vivo qualche difficoltà ha cominciato a palesarla, in studio fa ancora la sua porca figura, voce formidabile, classe e autorevolezza a vagonate.

Tornando alla tracklist, sorprendente è il taglio radicalmente politico di Ball and chain, classico blues in Who style, che punta il dito sulle fragorose ingiustizie dei prigionieri detenuti dagli americani a Guantanamo ("Still guilty with no charge", recita il testo). 
Seguono una coppia di grandi inediti che nascono con le stimmate del classicone, I don't wanna get wise e Detour.
Il disco poi cala forse un pò, ma contrariamente saremmo stati davanti ad un capolavoro fuori tempo massimo, con una prevalenza di midtempos dai quali comunque si fanno valere Break the news e la conclusiva (per l'edizione standard dell'album) She rocked my world.

Gli Who sono ancora tra noi. Unici e inimitati.

lunedì 16 dicembre 2019

Iggy Pop, Free

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Quando mi trovo davanti all'opera di un icona come Iggy Pop (mi rifiuto con sdegno di richiamare il suo curriculum) che rilascia un disco oscuro, crepuscolare, suggestivo come non mai, dove un sax o una tromba fragili e sofferti si dividono equamente i riflettori con la la voce segnata da mille battaglie del sacro Iguana, non posso che arrendermi già dopo pochi secondi di ascolto.

A tre anni dal successo di critica e pubblico (e non accadeva da tempo) di Post pop depression, album creato in coabitazione con Josh Homme, il settantaduenne nato James Newell Osterberg jr si concede un disco da lui stesso definito come "una riflessione sull'estenuante vita post tour" nel quale imbarca atmosfere che richiamano Nick Cave, Leonard Cohen, Johnny Cash (periodo Unearthed), ma anche suggestioni dell'amico di sempre David Bowie, in versione ultimi anni, sfornando un lavoro che è limitativo definire notturno. In realtà Free è la materia stessa di cui è composta la notte.

Dopo una manciata di pezzi (Loves missing; Sonali; James Bond) posti nella prima parte, che utilizzano una struttura canzone canonica, la tracklist si avventura in territori jazzati davvero più "free", nei quali trovano spazio prima brani sperimentali come Glow in the dark o Page ai quali seguono una composizione che Lou Reed scrisse nel 1970 (We are the people) e che Iggy non canta, ma declama, così come fa per la traccia successiva, Do not go gentle into that good night, da un testo di Dylan Thomas e per la conclusiva The dawn, straniante e suggestiva, che della traccia precedente appare come la naturale prosecuzione.

Poco più di mezzora di musica magnetica e ammaliante, che andrebbe rigorosamente sentita attraverso le cuffie, per non perdere nemmeno una nota o un passaggio, oppure, va da sè, in auto, quando fuori è calato il buio e il più rispettoso dei silenzi. 
Brividi.

giovedì 12 dicembre 2019

L'immortale

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SPOILERO, MA TANTO SAPETE GIA'

Bastano i primi minuti de L'immortale per cancellare in un attimo tutta la credibilità di un prodotto televisivo, stiamo parlando ovviamente di Gomorra, di cui il film è uno spin-off, faticosamente costruita e rivendicata dagli autori nel corso degli anni ("Ciro non può resuscitare perchè noi mostriamo la realtà, e nella realtà della camorra si muore") e tramutarla in un Dallas qualunque (la serie tv americana protagonista di un grottesco come back).
E comunque, se non bastasse doversi bere un sopravvissuto prima ad un colpo di pistola al cuore sparato con l'arma appoggiata al petto e poi ad una discreta permanenza sott'acqua, ci si deve sorbire quasi due ore di film imbarazzanti, quasi una parodia della serie madre.
Plot prevedibile dalla prima all'ultima sequenza, recitazioni al minimo sindacale (nel caso dei russi e dei lettoni anche sotto), regia (dello stesso D'amore) che scimmiotta, senza prenderlo quasi mai, lo stile di Sollima. 
Si salva giusto la fotografia, anche se i quartieri poveri della Napoli anni ottanta e la desolazione di Riga facilitano il lavoro.

Per un attimo ho davvero sperato che al termine del film ci rivelassero che si trattava solo di un sogno fatto da Cirù in punto di morte. 
E invece è tutto vero: L'immortale è il peggiore episodio di Gomorra mai trasmesso. 

P.S. Se, cercando questo film vi doveste imbattere nell'omonimo gangster movie francese del 2010, il mio consiglio è di non andare oltre e guardarvi quello, di ben altra pasta. 

lunedì 9 dicembre 2019

Cena con delitto - Knives out

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Una vecchia e nobile magione in periferia. L'anziano capofamiglia, scrittore di enorme successo, trovato sgozzato nel suo studio con modalità che fanno pensare al suicidio. Una famiglia allargata di viziati e sanguisughe della fortuna creata dal padre che viene interrogata dalla polizia e da un famoso detective privato.
Cena con delitto (banalissima traduzione dell'originale, centrato titolo, Knives out) riprende e aggiorna la classicissima tradizione del whodunit (chi l'ha fatto?) letterario e cinematografico, e lo fa con un cast strepitoso che comprende Cristopher Plummer (il morto, cioè Harlan Thrombey); Jamie Lee Curtis e Michael Shannon (i figli); Chris Evans (il nipote); Don Johnson (un genero), ma soprattutto la protagonista Ana De Armas (la giovane infermiera privata del vecchio, immigrata) e il fantastico Daniel Craig, l'investigatore privato, ingaggiato da uno dei componenti della famiglia.

Knives out, nonostante nei trailer si dia molto spazio al lato comico della pellicola, non è una parodia, piuttosto un riuscitissimo tributo al genere classico, che viene richiamato in continuazione e in ogni sua applicazione: dalla televisione che trasmette La signora in giallo, alle citazioni del gioco da tavolo Cluedo, ai meccanismi narrativi classici di Agatha Christie, fino ad una citazione apparentemente fuori luogo de Il trono di spade (una sedia con alle spalle dei coltelli ornamentali disposti a cerchio, come nel trono del famoso serial).
Il film funziona nelle sue parti leggere, nel meccanismo giallo (a metà sembra tutto perfettamente spiegato e invece...) e, ovviamente, nelle parti attoriali con i protagonisti che fanno a gara di bravura, senza disdegnare addirittura di avventurarsi nella critica alla politica anti immigrati di Trump, attraverso un dialogo dannatamente verosimile di una famiglia borghese americana che si divide tra radical chic e repubblicani.

Insomma, una bella e inaspettata sorpresa sotto l'albero di celluloide.

mercoledì 4 dicembre 2019

I migliori della vita: Francesco Guccini, Quello che non...(1990)

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So già cosa potrebbe pensare il fan medio di Francesco Guccini: "ma con tutti i capolavori incisi nei settanta, come può essere "migliore della vita" un disco onestissimo, ma non seminale, che salutava i novanta?"
E' molto semplice, cari amici. Provate voi a crescere, sin dalla tenera età di quattro-cinque anni con componenti della famiglia che fanno girare senza soluzione di continuità canzoni terribili su fatali incidenti in autostrada (Canzone per un'amica); macchinisti ferrovieri che si schiantano (La locomotiva, ca va sans dire), che descrivono interventi di aborto (Piccola storia ignobile), morti per parto (Venezia), o irradiano malinconie struggenti di vecchi soli (Il pensionato, Amerigo) ed appassionarvi a questo cantautore.
E allora Quello che non... arriva per me al momento giusto, all'età giusta, dopo un girovagare musicale vario (e in qualche caso avariato), grazie ad un impatto stilistico importante, pieno, lontano da quello scarno, folk, degli esordi e ricco di sonorità anche country rock, blues o cadenzate.
Quello che non... vive per me in particolare su due momenti scolpiti nella roccia del tempo, uno è rappresentato dalla prima canzone in scaletta, che riprende il titolo mentre l'altro è Canzone delle domande consuete.
Un passo indietro. Guccini arriva ad incidere questo disco a tre anni dall'ottimo (ma è difficile individuare un disco oggettivamente brutto, nella sua discografia) Signora Bovary (Scirocco è qualcosa di incantevole) ad aprire una decade (imprevedibilmente?) ricchissima di soddisfazioni, che regalerà al suo fedele pubblico una manciata di nuovi classiconi (Don Chisciotte; Canzone per Silvia; Cirano; Quattro stracci; Vorrei). 
La squadra di musicisti è quella storica (Tavolazzi; Bandini; Tempera; Biondini) che qui viene lasciata ulteriormente libera di spaziare (anche col tango, nel pezzo Tango per due) a tutto vantaggio della cifra stilistica e della godibilità complessiva dell'opera.
A livello compositivo da segnalare il ritorno della collaborazione con Lolli su Ballando con una sconosciuta e con Lucio Dalla, con il quale aveva scritto Emilia, inizialmente pubblicata sull'album Dalla/Morandi dell'88 e qui recuperata da Guccini.
Il disco si mantiene sul solito invidiabile livello compositivo, con alcuni picchi che ancora oggi danno i brividi. Mi riferisco, tornandoci su, alla title-track, cadenzata da un ritmo che ci porta dalle parti del west americano: armonica che soffia come il vento del deserto, chitarra leggera e batteria che non si risparmia, adagiate su un testo esistenziale che viaggia al tempo stesso leggero e profondissimo. 
Ma mi riferisco anche a Canzone delle domande consuete, che è l'ennesimo trattato sui rapporti uomo-donna e sulla vita di coppia, decantato al tempo stesso con realismo, poesia e senza infingimenti o ipocrisie. 
Ci sarebbero poi Cencio, che va ad aggiungersi alla folta schiera di personaggi creati dalla penna del Maestro e Le ragazze della notte, malinconica fotografia di una giovinezza squallidamente offerta ad un potere che, forse, è anche malaffare.
Insomma, l'ennesimo disco imperdibile di Guccini, con un quid in più, rappresentato da un valore sentimentale e "storiografico" che appartiene solo a me.

Senza considerare infine che, grazie a questo passepartout musicale, ho potuto andare a ritroso, superando i "traumi infantili" e riappropriandomi dell'opera omnia gucciniana, che ancora oggi è mia fedele e costante compagna nel faticoso viaggio della vita.