lunedì 29 ottobre 2018

Nashville Pussy, Pleased to eat you

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I Nashville Pussy hanno imparato bene la lezione dell'immobilismo musicale. E' inutile affannarsi ad evolvere il proprio sound per soddisfare afflati artistici o, come più spesso accade, alla ricerca di maggiori fortune commerciali. Se si riesce ad essere credibili e coerenti e resistere nel tempo, prima o poi le gratificazioni, o perlomeno il rispetto incondizionato, arriveranno.
Ecco perchè questo Pleased to eat you, settimo full lenght di inediti in vent'anni di carriera discografica non contiene novità di rilievo rispetto alla consolidata cifra stilistica della band guidata dalla chitarrista Ruyter Suys e dal marito, il cantante/chitarrista Blaine Cartwright: punk-hard rock, con echi southern e blues.
Come sostengo sempre, a fare la differenza non è lo stile, ma la forza delle canzoni. E qui dentro, come tradizione, di forza ce n'è a pacchi, a partire dall'incipit in stile Motorhead dell'opener She keeps me coming and I keep going back, accompagnata da un video che ricalca quello realizzato dalla band di Lemmy per God save the queen.
Da qui un susseguirsi di tracce adrenaliniche intervallate da rivisitazioni blues (Woke up this morning) o la imprevedibile ma azzeccatissima cover di CCKMP (Cocaine Can I Kill My Pain) di Steve Earle (dall'album I feel alright), vero e proprio apice del disco.

Nessuna novità, nessun rilievo da muovere. Avanti così.

giovedì 25 ottobre 2018

John Corabi, Live 94 - One night in Nashville

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No, il blog non è diventato una fanzine di John Corabi. Tocca premetterlo visto le recenti recensioni dei Dead Daisies (qui, qui e qui) . D'altra parte, un pò la mia particolare vicinanza ai veri losers del rock, un pò un'insana vena compulsiva che ti spinge a non mollare un osso quando l'hai afferrato, mi hanno portato ancora una volta ad affondare il colpo con il cantante/chitarrista di Philadelphia.
L'ennesima occasione è questo disco dal vivo di recente uscita, ma inciso nel 2017 al The Basement di Nashville, nel quale l'ex Scream, per la prima volta, suona, insieme ad una band che nulla ha a che vedere coi Dead Deasies (e di cui fa parte anche il figlio Ian, batterista), l'intero album Motley Crue del 1994 che lo vedeva alla voce al posto dello storico frontman Vince Neil. 
Pare che il buon John covasse da tempo questa rivincita personale, visto che, nonostante le lodi di molta critica che ha considerato quel disco il migliore di sempre dei Crue, la reazione del pubblico fu invece disastrosa, con un tour cancellato dopo poche date per scarsissima prevendita. Corabi invece ha sempre dichiarato di amare quel lavoro, nonostante abbia rappresentato per lui solo un'illusoria occasione di successo.

E si capisce dalla grinta con la quale, quasi un quarto di secolo dopo, propone quell'intera tracklist (con l'aggiunta di 10.000 miles, presente come bonus track solo in alcune particolari edizioni del cd), riservandosi uno spazio (traccia #7) per raccontare il momento in cui ricevette quella telefonata da Tommy Lee che gli cambiò la vita.
Riascoltando si capisce benissimo come queste canzoni non potessero avere nessuna chance con una fanbase come quella dei Crue, allevata a testi misogini e melodie glam metal (io stesso adoro i Crue, ma probabilmente sono di vedute più ampie).
Qui si fa sul serio, hard-rock settantiano con radici blues e derive lisergiche. Peccato che all'epoca non abbiano apprezzato nemmeno i fan del grunge, che in questi elementi ci sguazzavano.
Qui sta tutta la sfiga di Corabi: proporre il genere giusto, al momento giusto ma dentro la band sbagliata. Un inciampo dal quale ha rischiato di non alzarsi più.

E questa, assieme alla sua coerenza artistica, è la ragione per la quale gli si continua a volere un gran bene.

lunedì 22 ottobre 2018

Get on up (2014)

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I feel good, l'autobiografia di James Brown, recensita qualche settimana fa, è un lettura obbligatoria non solo per ogni autentico appassionato di musica, ma anche per chiunque voglia approfondire storia un pezzo di storia americana. 
Dall'entusiasmo di quella lettura alla curiosità di vedere la sua trasposizione cinematografica, il passo, per me, è stato breve.

Get on up esce nelle sale cinque anni fa, con esiti non certo deflagranti (in pratica, alla fine, pareggia l'investimento dei produttori, tra i quali Mick Jagger) e sceglie di mettere in scena la vita di James Brown attraverso diverse linee temporali che si intrecciano intervallandosi, dal James bambino che vive in totale indigenza, abbandonato prima dalla madre (una viola Davis sempre come sempre estremamente convincente) e poi dal padre (Lennie James) ed accudito dalla zia, al primo periodo con la band soul dei The Famous Flames, al grande successo, al funk, al ruolo paterno del manager Ben Bart (Dan Akroyd) fino alla fase di calo che coincide anche con i suoi comportamenti più violenti e coi problemi con le forze dell'ordine.

Get on up non riesce ad evitare la trappola dell'agiografia, chi scrive ritiene che James Brown per la cultura nera abbia rappresentato, per almeno due-tre lustri,  un punto di riferimento assoluto che andava ben oltre l'aspetto artistico, e che la persona fosse dotata di una personalità, un temperamento, una vena artistica ed un'autostima sconfinate, ma con altrettanta onestà che avesse un lato oscuro, originato probabilmente dai drammi subiti durante l'infanzia, che non emerge a dovere, così come restano solo accennati i suoi terrificanti scoppi d'ira.
Come spesso succede è invece estremamente positiva la prova del protagonista Chadwick Boseman, che fa un lavoro strepitoso nell'impersonificazione di Mr Dynamite, dalla parlata (il film va visto in lingua originale!) alle caratteristiche movenze sul palco, al punto che si fa fatica a riconoscere lo stesso attore nel ruolo che lo ha visto protagonista del recente Pantera Nera
Ricorrente anche la dinamica narrativa del perdono. Esattamente come mostrato in Straight outta Compton, anche qui viene rievocata una pace postuma (anno 1991) tra Brown e il suo storico sodale di palco  e amico Bobby Byrd. Fa molto buoni sentimenti ma chissà quanto verosimiglianza.

In sintesi Get on up non è nulla per cui strapparsi i capelli, ma tra il vederlo e il lasciarlo andare io sono per la prima opzione.


lunedì 15 ottobre 2018

Venom

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I fan dei fumetti (io per primo) proprio non ne vogliono sapere di rassegnarsi e giudicare una trasposizione cinematografica sulla base del suo valore, slegando il giudizio dal confronto con le strips. Continuo a ripetermelo visto il trattamento riservato al film su Venom. Il famoso simbionte nasceva infatti a metà anni ottanta, in una saga Marvel chiamata Secret Wars, nel quale all'Uomo Ragno, ridotto a brandelli il canonico costume rosso e blu, veniva consegnata una tuta nera, di provenienza aliena. E' questa la ragione per la quale gli occhi di Venom ricordano così da vicino quelli della classica maschera di Spidey. Nel tempo il personaggio acquisisce una sua indipendenza e, con un alter ego diverso da Parker, (prima Eddie Brock, poi altri, tra i quali Flash Thompson) percorre la propria strada fumettistica.
La pellicola diretta da Ruben Fleischer (Benvenuti a zombiland; Gangster squad) traccia una linea e riparte da zero. L'azione si svolge a San Francisco, dove Eddie Brock (Tom Hardy) è un giornalista d'assalto che per sputtanare il losco di turno non esita a rovinare anche il rapporto con la fidanzata e, in un'azione sul campo, ad essere infettato dal simbionte che lo tramuterà in Venom.
La pellicola segue pedissequamente le liturgiche fasi del film supereroistico, senza trovare l'irriverenza di un Deadpool o i i dialoghi di un (inarrivabile) I guardiani della galassia, che sono riusciti ad innovare dentro dinamiche classiche.
Peccato perchè la particolare follia del personaggio (un alieno affamato di esseri viventi che dialoga con il suo involucro umano) poteva tradursi in uno splatter con venature comiche, sulla falsariga dei due cinecomics citati in precedenza. E invece neanche Tom Hardy (uno dei miei preferiti della seminuova generazione di attori) riesce più di tanto a nobilitare il character e, onestamente, assistere ancora oggi ad una lotta all'ultimo cazzotto scandita dallo scorrere di un conto alla rovescia (in questo caso per il lancio di un razzo) getta nel più profondo sconforto.
Nella sequenza post titoli di coda ci viene anticipato il prossimo villain, che sarà Carnage, interpretato - ottima notizia - da un Woody Harrelson, che indossa però - notizia nefasta- capelli rossi posticci al limite della denuncia penale. 
Ad ulteriore testimonianza che la lontananza dal fumetto originale è solo l'ultimo dei problemi di questo film.

lunedì 8 ottobre 2018

Saxon, con FM e Raven, al Live Club di Trezzo (5 ottobre 2018)

Per essere un concerto riservato a pochi attempati metallari, l'esterno del Live Club di Trezzo regala un colpo d'occhio mica male: lunghe file davanti all'ingresso e bagarini che comprano biglietti (chiaro segnale di sold-out).
Dunque si difendono ancora bene i Saxon, il cui debutto di trentanove anni fa contribuiva alla nascita della mitologica New Wave of British Heavy Metal, e che da allora, tra alti e bassi, non ne hanno mai voluto sapere di mollare.
Ma andiamo per gradi. Entro giusto in tempo per assistere all'esibizione dei Raven, che hanno appena attaccato Destroy all monsters, tratto dal loro ultimo, dodicesimo album, ExtermiNation (2016). 

Devo ammettere che per me è stata una grande opportunità vedere dal vivo questo trio di Newcaslte, da sempre a sgomitare nelle seconde linee del metal, con vendite inesistenti, ma sorretti dal grande affetto di un manipolo di fan e da una encomiabile resistenza. I due membri storici della band si presentano rigorosamente in nero, John Gallagher(basso e voce)  con la sua bella pancia da birra e Mark Gallagher (chitarre) con la sua stazza che sfiora i due metri per, ipotizzo, almeno centocinquanta chili di peso. Non fossero sopra un palco potreste tranquillamente incontrarli in qualunque pub della provincia inglese davanti a qualche dozzina di pinte vuote. Ma on stage si trasformano, soprattutto il chitarrista sfida la sua massa e la forza di gravità con un'insospettabile agilità, non sta fermo un momento, salta, fa il funambolo, si rivolge in continuazione al pubblico, durante i solos si produce nelle classiche smorfie facciali che tanto andavano di moda una vita fa. Alla fine del set (sei pezzi), durante il quale sono stati acclamati a gran voce e sostenuti da pubblico (Hell patrol e On and on sugli scudi), Mark e John salutano stremati, ma, sembrerebbe, anche emozionati e soddisfatti. Gran bella gig in onore di un periodo irrimediabilmente morto e sepolto.



In perfetto orario sulla tabella di marcia, e di questo bisogna complimentarsi, oltre che con la professionalità delle band, anche con la perfetta organizzazione del Live Club, salgono sul palco gli FM, probabilmente il gruppo inglese più americano nella loro proposta AOR. Dovevano esserci gli Y & T in quella posizione del bill, ma un non specificato problema ha provocato, a pochi giorni dal concerto, il cambio tra i due gruppi. Niente di male, gran bel combo anche questi FM, non fosse che vederli dopo i brutti, sporchi e proletari Raven fa un pò specie, con il loro look elegante, lo stile AOR da radio americane anni ottanta, i suoni puliti e gli strumenti che suonano come su disco. Il cantante Steve Overland (una vaga somiglianza con Enrico Bertolino) è a suo agio e rilassato, prende tutte le note con una naturalezza impressionante e la band sciorina i suoi pezzi più noti (That girl, All or nothing, Tough it out), racchiudendoli, all'inizio e alla fine, da due soli pezzi dall'ultimo, eccellente, Atomic generation (Black magic e Killed by love). 
Setlist da nove brani per oltre quarantacinque minuti, e adesso l'attesa per gli headliner si fa frenetica. 



Mi guardo un pò in giro realizzando che questo è probabilmente il concerto con il più bizzarro miscuglio di tipologie di pubblico a cui abbia mai partecipato. Oltre a numerosi coetanei, che si distinguono da lontano per via della zazzera bianca o la crapa pelata, magari bilanciata da sontuosi basettoni,  e che per l'occasione hanno ripescato dal fondo dei cassetti le loro t-shirt nere coi loghi delle più disparate bands, vedo anche numerosi giovani che, come ricorderà Biff, quando i Saxon hanno suonato nel 1980 per la prima volta a Milano non erano nemmeno nati, fino a personaggi fuori tempo massimo, come la coppia di settantenni davanti a me, a pochi metri dal palco, rimasta ferma ed impassibile per tutta la durata del concerto, ma senza cedere di un centimetro dalla posizione.


Alle 21:30 spaccate si spengono le luci e vengono diffuse le note di It's a long way to the top (if you wanna rock and roll) degli AC/DC, cantata a gran voce da un pubblico ormai carico a pallettoni, e poi ecco arrivare la band, con Biff Byford bardato nel suo ormai inconfondibile cappotto di tipo militare. Il pezzo che apre il concerto è Thunderbolt, deputato anche ad introdurre l'ultimo, omonimo, album
Caduto l'ultimo drappo che nascondeva una porzione di palco, fa bella mostra di sè l'immancabile "muro di Marshall" marchiato con l'aquila stilizzata, simbolo degli inglesi.
Si capisce subito che Byford non avrà alcun problema a comandare le operazioni, con una mobilità non certo dinamica, ma del tutto rispettabile, accompagnata da qualche headbanging e, soprattutto, da una voce che non ha perso un grammo della sua potenza e versalità. 
C'è spazio, com'è fisiologico che sia, per i pezzi più recenti (Sacrifice, Battering ram, Nosferatu, Sons of Odin, The secret of flight, Predator, con il bassista Nibbs Carter a fare il controcanto in growling che su disco era di Johan Hegg degli Amon Amarth), ma va da sè che sono le canzoni mitologiche a far tremare le fondamenta del locale: Strong arm of the law, Solid ball of rock, Power and the glory, 747 (Strangers in the night), Princess of the night, oltre alla nuova They played rock and roll, dedicata a Lemmy e ai Motorhead, suonata immediatamente prima di And the bands played on, che invece è l'autocelebrazione dei Saxon stessi. 
Dal vivo la band suona bella potente, con un tiro superiore a quello che emerge dai dischi, lo storico batterista Nigel Glocker spazza via ogni dubbio sulla compatibilità tra la sua età (65 anni) e il ruolo di heavy metal drummer, pestando come un fabbro ferraio, potente e preciso, infilato dentro una batteria enorme, a due casse. E' lui l'unico componente che Biff ogni tanto cerca, ignorando invece del tutto i restanti soci (tra i quali il co-fondatore Paul Quinn, che invece dimostra tutti i 67 anni con una prestazione pulita ma molto poco empatica).
Su Byford che dire? A quasi sessantotto anni sembra aver trovato una seconda giovinezza, la mobilità, come dicevo, è limitata, ma il suo è un modo di stare sul palco che è diventato molto più magnetico, autorevole, quasi sciamanico, il gesto più abusato è quello di allargare le braccia, come per esercitare un controllo totale sul pubblico, oltre a chiamarlo in continuazione al botta e risposta, con un portamento che si è fatto aristocraticamente britishResta il fatto che continui a non risparmiarsi, visto il timing del concerto, tendente alle due ore di esibizione.



Su Wheels of steel però anche il tradizionalista inglese si lascia prendere la mano dalla tecnologia, estraendo dalla tasca il proprio iphone per registrare un brevissimo video destinato al profilo Facebook della band.
Si chiude con Denim and leather, durante la quale i Saxon si fanno lanciare dalle prime file i classicissimi gilet di jeans con le toppe delle band (pare siano tornati di moda) e, una volta indossati, portano alla fine canzone e  show.

E' fatta, il cerchio è chiuso. Sono stato introdotto alla musica metal nei primi ottanta con tre dischi, tutti rigorosamente registrati da amici e compagni di classe su cassetta: Shout at the devil dei Crue, Stay hungry dei Twisted Sister e The eagle has landed, primo live dei Saxon.
Se per i Twisted Sister pare non ci siano più speranze di vederli dal vivo, visto il recente ritiro dalle scene (anche se... mai dire mai nel rock business), dopo i Crue, anche coi Saxon ho pagato il mio debito di riconoscenza per un modo di fare rock che, a quattordici anni, mi ha regalato emozioni talmente indescrivibili da lasciare una scia indelebile per oltre tre decenni.
L'anno prossimo i Saxon saranno di nuovo in Italia per la celebrazione dei loro primi quarant'anni di carriera e non è una previsione azzardata ipotizzare per loro il medesimo bagno di folla e di affetto che gli ha tributato qualche sera fa il Live Club.



giovedì 4 ottobre 2018

Lindi Ortega, Liberty

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Dopo una difficile fase della vita che probabilmente ha rappresentato una sorta di catarsi, Lindi Ortega, tornata nella natia Toronto, torna a fare quello che le riesce meglio, vale a dire esprimersi assecondando le sue influenze, etniche (essendo lei figlia di genitori messicano-irlandesi), e artistiche (l'amore per il country folk). 
E ben vengano allora tutti i peggiori struggimenti esistenziali, se, a dimostrazione della teoria che l'Artista crea le sue cose migliori nei periodi più bui, il risultato è un disco bellissimo, forse il migliore della sua carriera.
La ragazza dai piccoli stivali rossi (Little red boots, titolo del suo debutto su major) , dopo un EP che è servito a rimetterla splendidamente in pista, assembla un 15 tracks nel quale fa confluire, assieme al suo stile ormai consolidato, splendide e sognanti atmosfere western, prendendo in prestito melodie morriconiane (per Through the dust, strumentale diviso in tre parti, all'inizio, a metà e a fine disco) o la lingua spagnola (le struggenti Pablo e Gracias a la vida, classico cileno di Violeta Parra già ripreso da Joan Baez e molte altre, persino Gabriella Ferri).
Ovviamente il core business dell'album è un elegantissimo e delicato country folk, su musica e testi firmati dalla stessa Linda, che confermano i livelli di eccellenza raggiunti come musicista a tutto tondo. Canzoni evocative e profonde, come Afraid of the dark, Til my dyin day, Lovers in love non lascerebbero indifferente nemmeno un frigorifero, e il rock di frontiera Darkness be gone fa faville con il contrasto tra liriche western e musiche ariose sulla strada polverosa consumata prima di lei da Marty Stuart. Bene anche la liason con il pop folk dell'orgogliosa You ain't foolin' me.

Un ritorno che fa la felicità di quanti cercano l'autenticità da una musica tanto sputtanata quanto ancora viva e palpitante, se ad interpretarla c'è gente come Lindi Ortega.

lunedì 1 ottobre 2018

Roberto Saviano, Zero zero zero (2013)

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Nel 2013, sette anni dopo la pubblicazione di Gomorra, con tutto quello che il successo del libro ha comportato per il suo autore, Saviano tornava a riempire gli scaffali delle librerie con un volume inchiesta che aveva come protagonista assoluto il business della cocaina.
In largo anticipo su quella che sarebbe (tristemente) divenuta una tendenza di serie televisive e film che hanno celebrato i grandi narcotrafficanti della storia, Saviano puntava i riflettori su Colombia e Messico, patrie dei più importanti cartelli della droga, rimettendo in fila gli eventi storici che li hanno portati al centro della mappa del narcotraffico, ma anche sulle evoluzioni del mercato, che hanno allargato l'asse del business ad altri paesi del mondo (Italia, Russia, Nigeria).
Alcuni passaggi del libro riprendono vicende note in quanto entrate ormai nella storia recente e nella cultura popolare, ma molti altre sono vere e proprie scoperte, a volte sconvolgenti, come l'emersione di personaggi italiani totalmente sconosciuti alla massa, ma autentici deus ex machina del trasporto della droga, dalla produzione al consumatore.
E in un mercato nel quale i soldi sono così tanti dal dover essere "pesati e non contati", le nuove abilità richieste sono quelle logistiche, il come e dove far viaggiare la roba, per evitare controlli e sequestri. E' impressionante scoprire quanta coca viaggi da una parte all'altra del mondo e come una nuova modalità di spedizione, una volta scoperta, venga rimpiazzata da altre sempre più fantasiose. Di certo, la lettura di Zero zero zero fa nascere una nuova attenzione e sensibilità verso l'argomento, spesso ormai relegato, quasi con rassegnazione, in fondo alle notizie dei tiggì.

E' notizia recente che anche da questo libro di Saviano, dopo Gomorra e, pare, la Paranza dei bambini, sarà oggetto di una serie televisiva diretta dall'ormai lanciatissimo (anche a Hollywood) Sollima.