I feel good di James Brown consta di poco più di duecento
pagine (220 per la precisione), di cui quasi quaranta occupate da una corposa
introduzione di Marc Eliot. Ne consegue che il Padrino del soul riesce nell’impresa di
raccontare se stesso, la sua vita personale e artistica oltre ad uno spaccato
incredibilmente emozionante che copre mezzo secolo di società americana, in qualcosa di più di centosessanta paginette.
Probabilmente, se fossi un die hard fan del maestro, potrei
lamentarmi per l’assenza di questo o quell’evento, questo o quel richiamo ad un
particolare album, ma anche in quei panni credo faticherei a trovare vere e
proprie critiche ad un modo di comunicare diretto e appassionato, come quello espresso da Mr Dynamite.
James Joseph Brown nasce vicino ad Atlanta nel 1933, la sua
infanzia è segnata dall’abbandono della madre e dalla povertà (vivrà da solo
col padre in una baracca sperduta in un bosco, prima di essere affidato alla zia)
e impara in fretta le regole di sopravvivenza della strada, la prima e più importante delle quali è che i bianchi hanno
potere assoluto di vita e di morte sui negri. Il riferimento non è solo ai brutali atti di violenza di quei tagliagole del
KKK, ma alla polizia stessa e all’intero sistema giudiziario del sud: sei alla mercè del potere bianco, se decidono ti sbatterti in cella, lo fanno senza preoccuparsi del sistema
accusatorio, delle prove o dei tuoi (presunti) diritti.
Ma il giovane James è scaltro e, a parte qualche scivolone,
si tiene lontano dalle giacche blu e dai cappucci bianchi, diversamente a
quanto avviene a molte persone a lui vicine. Poi, gradualmente, comincia la sua
ascesa nel mondo della musica, con il primo successo Please please please del
1956, seguito da Try me nel 1958, e grazie soprattutto alle sue performance dal
vivo, in cui introduce movenze ed elementi scenografici che
costituiranno la base per intere generazioni di rockstar future (da Mick Jagger
a Springsteen, per citarne solo due). La sua ambizione è pari alla sua tenacia.
Analogamente a quanto fatto da Johnny Cash per il suo Live at Folsom Prison,
Brown elude il rifiuto della sua casa discografica di pubblicare un disco dal
vivo contenente le esibizioni all’Apollo Theatre di New York, investendo da
solo nel progetto e riscuotendo un successo fragoroso con un disco (Live at
Apollo) tra i più seminali di tutti i tempi.
Insieme alla fama, crescono anche impegno sociale, con i progetti che aiutano l’istruzione dei bambini neri più
poveri, e attivismo politico, con le amicizie “bipartizan” con il presidente
democratico Johnson prima e Nixon poi. Nel mezzo anche un avventurosa “tournee”
in Vietnam, fortemente voluta e ottenuta nonostante l'ostracismo di molti.
Insomma fino alla prima metà dei settanta, James Brown non è solo uno
degli artisti black più influenti, l’inventore del funk e lo scatenato
performer che calca incessantemente i palchi americani. E’ anche un opinion
leader indiscusso, che viene chiamato da diversi esponenti politici, manco fosse Mr Wolf, quando si tratta di gestire delicati problemi razziali (rivolte incluse).
Arriveranno poi declino artistico e umano, il carcere, i
matrimoni e i divorzi, le denunce, ma anche la riscoperta dei suoi ritmi (su
tutti il mitologico "One") da parte dei rappers che, tra la fine dei settanta e i
primi ottanta, cominciano a prendersi la scena.
C’è tutto questo, contaminato da tanta umanità e orgoglio,
dentro questa breve ma essenziale autobiografia, che esula dall’opera
rigorosamente riservata ai fan musicali aprendosi invece ad ogni appassionato di società e costume USA, dal dopoguerra alle soglie degli anni zero.
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