giovedì 30 maggio 2019

John Wick 3

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John Wick tre. 
Ovvero, come "l'obbligo" del franchise ti rovina un buon prodotto d'intrattenimento
Del terzo capitolo salvo solo le coreografie dei combattimenti, assoluto valore aggiunto del film, questa volta dotate anche di un certo humor nonostante il contesto noir serissimo (da questo punto di vista il regista Chad Stahelski, ex stuntman, è ormai una garanzia). 
Il resto è da buttare, con una sceneggiatura che vuole trasformare Wick in un incrocio tra l'agente 007 (per le location visitate) e Bruce Wayne di Batman Begin (per il percorso doloroso al quale è sottoposto), con il risultato di farlo diventare un supereroe praticamente immortale (che infatti gira con Halle Berry in versione Tempesta degli X-Men).
Il finale aperto poi casca come una grattugiata di parmigiano su un piatto di spaghetti alle vongole.

Fermatevi, vi prego.

lunedì 27 maggio 2019

Until the light takes us (2009)

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La recente uscita del film Lord of chaos ha acceso di nuovo i riflettori su un genere musicale, il black metal, che comunque proprio privo di attenzione mediatica non è mai stato.
Prima di Lord of chaos a tenere un riflettore acceso sui fatti, ormai noti, accaduti in Norvegia tra la fine degli ottanta e la prima metà dei novanta, nell'ambito del cosiddetto black metal inner circle, era stata la divulgazione di Until the light takes us (tradizione in inglese del titolo del seminale album di Burzum Hvis lyset tar oss), un documentario di Aaron Aites (nel frattempo purtroppo deceduto) e Audrey Ewell che, attraverso interviste ai principali attori del periodo, ricostruiva quegli avvenimenti musicalmente straordinari e umanamente tragici.

Protagonisti principali delle interviste sono Gylve "Fenriz" Nagell dei Darkthrone (vedendolo senza il caratteristico trucco facciale corpse painting si nota un'inquietante somiglianza con il calciatore tedesco Mesut Ozil) e il mefistolico Varg Vikernes aka Burzum aka Count Grishnackh, che stava finendo di scontare il periodo di detenzione per l'omicidio di Øystein Aarseth, aka Euronymous,anche lui come, se non più dei due altri intervistati, inventore del black metal norvegese.
Non sto qui a ripercorre i fatti nel dettaglio (l'incendio di chiese, l'omicidio di un presunto omosessuale, il suicidio di Dead, cantante di quei seminali Mayhem nei quali suonavano assieme Varg e Euronymous, fino al terribile omicidio dello stesso Aarseth da parte di Vikernes), il documentario a mio modo di giudicare va assolutamente visto, non solo per approfondire la personalità dei musicisti intervistati, ma anche per capire in quale contesto sociale nasce un genere così alienante (le immagini di città come Oslo o Bergen sempre cupe, nella penombra, lerce, non appaiono certo come un inno alla vita), disturbante, per molti molesto e quanto un modo di vivere la propria esistenza combaciasse, per qualcuno, fino alle estreme conseguenze con il genere musicale estremo inventato.

Dalle interviste traspaiono tratti caratteriali e personalità dei protagonisti del movimento. Così, per un Fenriz che appare molto low profile, sempre rilassato, quasi rassegnato al ruolo che i media gli hanno affibbiato, ecco il contraltare di Vikernes, sguardo orgoglioso e ghigno beffardo, che, dalla prigione dove sta scontando i suoi ventuno anni di carcere (massimo della pena in Norvegia) ricostruisce senza lesinare dovizie di particolari splatter l'omicidio di Euronymous. Ancora più agghiaccianti sono però le sue idee politiche reazionarie, purtroppo veicolate con una modalità comunicativa ed una capacità persuasiva che nell'attuale situazione socio politica potrebbero anche fare enorme presa, se Burzum "scendesse in campo".
Tralascio ogni commento su Abbath e Demonaz degli Immortal, tronfi e banali, e mi concentro invece sull'incredibile figura di Kjetil "Frost" Haraldstad dei Satyricon, altra band cardine del movimento black.
A Frost è dedicata la conclusione del documentario, con le immagini più sconvolgenti di tutto il girato. Il batterista dei Satyricon infatti, viene immortalato in una "performance artistica", tra l'altro eseguita a Roma, dove il musicista non suona alcuno strumento, ma si esibisce in una serie di azioni distruttive, in cui a farne le spese sono alcuni mobili, nonchè, ed è la parte più terribile, autolesioniste, nelle quali si provoca profondi tagli sul corpo per mezzo di un coltellaccio, per poi adagiarsi, esausto.

In qualche modo dentro questa performance c'è tanto dello spirito del movimento black norvegese, una malsana valvola di sfogo che si irradia in più direzioni: ambiente, politica, morte, dolore, violenza, e che poi ogni singolo individuo coinvolto nel suo sviluppo ha fatto propria, incanalandola secondo personalità ed orientamenti personali. 
Insomma, se esiste una modalità principale per suonare il black metal (o almeno, c'era all'epoca), ed è quella che Euronymous ha inventato, mutuandola dall'embrione sonoro creato dai Bathory, ci sono decine di modi diversi con cui diversi soggetti hanno vissuto sulla propria pelle quel canone.
Quei ragazzi (non dimentichiamo che erano tutti giovanissimi) sono stati tutti artisti innovatori.
Alcuni di essi erano anche dei criminali.

giovedì 23 maggio 2019

Fulci, Opening the hell gates (2015 - 2019)

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Lo ammetto: sono sempre stato prevenuto rispetto alla musica metal fatta in Italia. So che sbaglio e che ci sono e ci sono state tante, tantissime band nostrane (il metallo è uno dei generi più suonati, anche da noi) di valore, a volte persino superiore ai colleghi americani o europei. 
A volte per andare oltre questi preconcetti mi serve uno stimolo, una scintilla, una suggestione.
In questo caso la suggestione arriva dal monicker di questa band italiana, che ha scelto di chiamarsi come il regista italiano di culto Lucio Fulci, cineasta dalla produzione sterminata, ma di cui ovviamente tutti nel mondo ricordano e celebrano gli horror.
Per la formazione campana (di Caserta) il riferimento al regista è un'ispirazione a tutto tondo, se è vero che i temi sviluppati nei suoi dischi (un EP prima di questo full-lenght, aggiunto in coda alla title track dell'album) si ispirano alle pellicole più famose di Fulci.
Infatti, Opening the hell gates altro non è che un tributo musicale a Paura nella città dei morti viventi, film del 1980, primo titolo della Trilogia della morte, comprendente anche L'aldilà e Quella villa accanto al cimitero.

Vista l'ispirazione, lo stile musicale proposto non può che essere un death-metal con tendenze slam, dentro al quale confluiscono anche parti di dialoghi dai film fulciani, ben amalgamati con l'assalto brutale dei pezzi. Il disco, sebbene debitore dei nomi tutelari del settore, è ottimamente suonato e prodotto, l'impatto dei pezzi è inquietante e devastante esattamente come deve essere, ma il lavoro, probabilmente anche per la sua brevità (le tracce non superano mai i tre minuti, per un timing totale sotto i venticinque minuti di musica), coinvolge ed appassiona, spronandoci a rimetterlo ogni volta da capo per godere delle sue atmosfere malsane, i suoi riff, anche rallentati in odore di doom, i suoi midtempos, la sua autenticità artistica.
L'album è stato ultimato nel 2015 ma si è reso disponibile solo nelle scorse settimane, tant'è che i Fulci, nel frattempo cresciuti come impatto ed impegnati in un tour negli States, hanno già pronto un nuovo lavoro, Tropical sun, in uscita a giorni ed ispirato dal lavoro più fortunato del Maestro: Zombi 2.

Che dire? Ricredersi non è mai stato così divertente.

lunedì 20 maggio 2019

Cats in Space, Daytrip to Narnia

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Insistere a scrivere su uno strumento ormai vetusto come ormai è, a tutti gli effetti, un blog, a volte porta a postare un pò con inerzia o mestiere, dimenticando l'entusiasmo che ti aveva portato a cliccare "pubblica" sul primo post.
A volte però capita ancora di avvertire davvero l'urgenza comunicativa di parlare di una nuova band, un artista, un film, un libro, che "spinge" per venire fuori ed essere irradiato.
E' il caso dei Cats in Space, combo inglese di sette elementi, con una media di età sui cinquanta abbondanti, con esperienze in ambito rock hard-rock prog, in formazioni dalle quali spiccano Arena (il cantante Paul Manzi); T'Pau, Bad Company, Ian Gillan Band (il chitarrista Dean Howard) oltre a svariate altre di non primissima notorietà.
I CIS esordiscono discograficamente nel 2015 con Tooo many gods, e , nel giro di meno di quattro anni, rilasciano tre full lenght e un disco dal vivo, riscontrando un buon successo in patria.
L'ultima fatica è l'oggetto di questa recensione, Daytrip to Narnia viene pubblicato infatti lo scorso primo marzo.

In un'epoca nella quale il bacino di band che si buttano sul retro rock è sostanzialmente saturo, i Cats in Space scelgono di stare nella tazza di tè a loro più congeniale, un grande patchwork dentro il quale conflusicono pop-prog, AOR e FM rock.
Niente di trascendentale dunque, in termini di innovazione. 
Non fosse per un piccolo particolare: il combo, sia in termini di scrittura che di tecnica, caga sul petto a tutti.
Il disco, un concept suppongo basato sui romanzi di C.S. Lewis (ma questo per me conta davvero zero), muove, sin dall'apertura di Narnia, in piena sintonia con gruppi storici che rispondono alle ben note ragioni sociali di ELO, Supertramp, Yes, ma anche Journey, Foreigner, Boston, Survivor e Queen, ma non si ferma lì, sfidando l'apertura mentale dell'ascoltatore a spingersi oltre.
Grandissimi ganci melodici, ritornelli da sturbo, aperture di voce e tastiere da paradiso dell'AOR, canzoni con la cazzo di C maiuscola.
Il disco è suddiviso in due parti, come fossero i lati A e B del vecchio vinile: la prima, che suddivide le tracce dalla uno alla sette, con Hologram man, She talks too much e Unicorn sugli scudi. La seconda, se possibile ancora meglio, è una suite divisa in sette parti titolata The story of Johnny Rocket.

Ora, normalmente quando sento la parola suite collegata ad una tracklist mi viene subito la psoriasi, ma in questo caso l'elemento a fattore comune è rappresentato solo dalla storia narrata (di Johnny Rocket), per il resto i sette brani sono totalmente indipendenti uno dall'altro, sia come struttura che, elemento più importante, come stile.
Infatti, se la parte II della suite (Johnny Rocket) continua a battere in maniera deliziosa i terreni dell'AOR di classe, con la successiva parte III (Thunder in the night) ci si impomata i capelli e si raggiunge la pista, per un incredibile pezzo discomusic anni settanta. Il brano è senza dubbio uno degli highlights del disco, e infatti viene scelto, per il suo irresistibile ritornello, come singolo, ma che dire della parte IV (One small step), che parte con un delizioso doo wop, dell'orchestrazione della V (Twilight) della ballatona alla Boston della parte VI (Yesterday's news) o, per chiudere, del soave pop alla Michael McDonald della VII (Destination unknown), che chiude suggestivamente il viaggio? 
Per il sottoscritto assolutamente nulla, se non levarsi il cappello e fare un inchino a questi mostri, che da due mesi si sono presi il controllo di tutti i miei devices musicali e non hanno intenzione di mollarlo. 
Va da sè, che è già partita l'operazione di recupero del materiale precedente così come è perfettamente scontato indicare già da oggi Daytrip in Narnia nel gruppo dei migliori del 2019.

Chapeau! 

O se preferite: mecojoni!

giovedì 16 maggio 2019

Backyard Babies, Sliver and gold

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Pur essendo storicamente appassionato di quel genere debosciato di metal che attraversa varie definizioni, dallo sleaze al glam all'hair fino all'AOR, sono ancora tante le band che, pur bazzicando in giro da anni, non ho mai ascoltato.
Una di queste risponde sicuramente al monicker Backyard Babies, svedesi di Nässjö che debuttano nel mondo discografico nel 1994 e in venticinque anni licenziano otto lavori, ultimo dei quali è appunto Sliver and gold (laddove il termine "argento" è sostituito con "scheggia").

Il disco è indubbiamente energico e ben suonato, saldamente collocato dentro quell'ampio perimetro stilistico che descrivevo brevemente in premessa, ci si può divertire coi riferimenti, dai primi Bon Jovi ai Poison (Shovin' rocks) da semi plagi dei Blue Oyster Cult (quanto Yes to all no ricorda Don't fear the reaper?), nonchè coi richiami al punk californiano e ai Green Day di Dookie (Simple being sold).
La seconda parte dell'album prevale a mio avviso sulla prima, con un paio di poderose kickass (44 Undead e A day late in my dolla shorts).
Dieci canzoni, come ai vecchi tempi, la ballata inserita al termine della tracklist, come ai vecchi tempi, un buon, corroborante lavoro, come ai (vecchi) tempi che furono e che, grazie a band come i Backyard Babies ancora un pò sono.

lunedì 13 maggio 2019

Bokassa, Ghost e Metallica: Milano, 8 maggio 2019


Dopo la disastrosa esperienza del Sonisphere, mi ero ripromesso di non assistere più ad un concerto dei Metallica (e ad un qualunque altro concerto di massa ad eccezione di Springsteen) se ospitato da strutture inconciliabili con eventi di natura musicale.
Visto che la data italiana del nuovo tour dei Metallica avrebbe toccato l'ippodromo di Milano, ho tentato di tenere salda la mia decisione. 
A farmi capitolare è stata l'inclusione nel bill di due band che aspettavo alla prova del live: i Bokassa e i Ghost. Sono loro l'unica ragione per la quale ho speso la modica cifra di novanta euro per il mio posticino su un prato spelacchiato.

Un paio di considerazioni. La prima di natura metereologica: sebbene il tempo non fosse dei migliori, nella settimana del concerto non era prevista pioggia. Ad eccezione di un giorno, ovviamente proprio quello dello show, l'8 di maggio. 
Non il 7, ne il 9, e nemmeno il 6 o il 10. 
No. Solo l'8.
La seconda considerazione è di natura organizzativa, e mi viene dal cuore. Sta cosa del "pit" riservato ha stracciato i coglioni. Grazie al recinto limitato, venduto ovviamente a prezzo maggiorato, le due band di supporto hanno suonato con un antipatico spazio vuoto tra il pubblico del pit (mezzo vuoto fino all'arrivo degli headliner) e quello delle seconde transenne, e al tempo stesso il pubblico con biglietto normale (che comunque non era esattamente regalato) non ha potuto avvicinarsi maggiormente al palco.

Detto questo passiamo alla recensione del concerto.
Aprono i Bokassa, che confermano tutte le buone vibrazioni che emanano da disco, anche se è sembrato evidente a tutti come i tre norvegesi fossero un pò spaesati in quel palco enorme e come invece il loro stoner-hardcore-punk-metal avrebbe spaccato allegramente i culi in un locale di infime dimensioni. 
Sei i pezzi proposti in tutto, tra i quali Impending doom, Last night (was a real massacre), Walker Texas danger e l'inedita (sarà sul prossimo album in uscita a giugno) Mouthbreakers Inc. .
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Che dire dei Ghost? Assieme ai Cats on Space (ne parlerò), la mia band preferita al momento. 
Nonostante lo spettacolo degli svedesi necessiterebbe del favore delle tenebre, la formazione del leader/frontman/one man band Tobias Forge ha lasciato il segno, in virtù di un repertorio già solidissimo e di un gusto melodico unico, che li porta a spaziare in ogni ambito, come ampiamente dimostrato dall'ultimo lavoro, Prequelle
Spiace essermi trovato solo, nel mio spicchio di prato, a fare singalong sui cori (ma come si fa a non ululare su Rats???) o sui ritornelli (Dance macabre; From the pinnacle to the pit;Ritual; Faith), nella quasi totale indifferenza del resto dei presenti.
Il look della band, abbandonati i costumi ecclesiastici (Forge indossa l'abito papale esclusivamente durante il solo di sax, sulla conclusione di quella meraviglia strumentale che risponde al titolo di Miasma) vede i componenti vestiti completamente di nero, con maschere scintillanti color argento, raffiguranti demoni o fiere.
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Tobias Forge, col viso truccato di bianco e gli occhi cerchiati di nero, sembra invece lo zombie di un dandy, elegantissimo, con tanto di coccarda sul petto all'altezza del cuore, si muove da consumato e impeccabile maestro di cerimonie. 
Ironico, istrionico, in pieno controllo sulla situazione. Uno straripante talento inversamente proporzionale alla modesta altezza.
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La setlist dei Ghost sfiora l'ora di durata, e si chiude con Square hammer, altro gioiellino, incluso, quale unico inedito, sull'EP di cover Popestar del 2016.
Da rivedere in condizioni adeguate as soon as possible. 
Purtroppo, al momento, il loro tour non prevede date in Italia.

Alle 20:50 circa (unico ritardo nell'altrimenti precisissimo schedulato) parte il consueto filmato de Il buono il brutto e il cattivo di Sergio Leone, con le musiche (Ecstasy of gold) di Morricone, ed entrano in scena i Metallica
Hardwire apre la loro gig, in una modalità che non mi arriva con l'impeto della versione registrata, ma più compassata.
James, al solito, interagisce molto col pubblico tirando in ballo come da prassi la fidelizzazione dei fan con la Metallica family, ma ho l'impressione che la reazione dei presenti sia un pò freddina. 
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Purtroppo la sfiga che contraddistingue la mia partecipazione ai concerti dei Four Horsmen prosegue, perchè, a differenza delle date precedenti a questa, dove ad esempio avevano rispolverato la meravigliosa Disposable heroes, a Milano ci propinano due terzi di concerto (prima dei bis) con solo un brano estratto dai primi tre, seminali, dischi (trattasi di Ride the lightning), soffermandosi più sul recente Hardwired to self destruct e sui dischi post ...And justice for all.
Perciò mi sorbisco The memory remains, The unforgiven, Sad but true, e persino quella ciofeca di St. Anger.

Ora, è chiaro che la band si sia stufata del vecchio materiale e voglia suonare altro, infatti anche stavolta, come la precedente, James Hetfield, sollecita ripetutamente il pubblico a mostrare apprezzamento per le canzoni più recenti, ma così come per Salvini sarebbe contro natura partecipare al corteo del 25 aprile, alla stesso modo St. Anger (per dirne una) non diventa un classico solo perchè sono trascorsi sedici anni dalla sua release. 
Ma il problema più generale della serata è che i Metallica propongono i loro pezzi, anche quelli che nascono spinti, in una velocità midtempo che sa di stanco, fiacco, quasi annoiato.
Insomma, il concerto non decolla. 
E di certo non aiutano le tante pause tra un pezzo e l'altro, spudoratamente necessarie a James e Lars per riprendere fiato. 
Nella più lunga di queste prosegue la nuova, tristissima abitudine di far suonate a Trujillo e Hammett un pezzo della tradizione "rock" del Paese ospitante. Dopo la terrificante versione di C'è di chi dice no del Blasco, è toccato a El diablo dei Litfiba. 
Giuro, un'esibizione così raffazzonata da rappresentare una delle cose più brutte che abbia mai visto in un concerto di professionisti. Una sciatteria che equivale ad un autentico insulto al pubblico pagante. 

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Penso a quanto potrebbe aver avuto più senso, anche in termini di aiuto concreto e di riscoperta per un'audience enorme, realizzare un tributo alle tante band sconosciute ai più del punk-metal italiano degli ottanta. Quanto sarebbe  stato coerente suonare un pezzo dei Negazione, di Strana Officina, Sabotage, Steel Crown o RAF, solo per citarne qualcuno?
Purtroppo anche questo è il segnale incontrovertibile della vascorossizzazione di una band (che è stata) meravigliosa.

La pioggia, che contro ogni previsione, aveva dato fino a quel momento tregua, si scatena senza più ritegno durante gli assoli di basso successivi a El diablo (e non può essere un caso), esattamente prima del momento in cui arriva la parte più attesa dello show, quella coi classiconi. 
Acqua a secchiate dunque proprio durante One, Master of puppets, For whom the bell tolls, Creeping death e Seek & destroy. Tra l'altro il palco è completamente privo di copertura (ad eccezione della batteria) e i musicisti sono del tutto esposti all'acquazzone, che genera due dita d'acqua sulla pedana.
Io ne ho abbastanza. Mi perderò senza troppe menate dei bis irritanti (Lords of summer, Nothing else matters, Enter sandman), risparmiandomi una ventina di minuti di diluvio.
A mai più, cari James, Lars, Kirk e Robert. 

A prestissimo Bokassa e Ghost.




Non ho postato mie foto in quanto posizionato a distanza siderale, come si può vedere

Quindi:
Le foto dei Bokassa sono del sito metalhammer.it
Le foto dei Ghost, come indicato, sono del sito francesco-castaldo.it
Le foto dei Metallica sono del sito onstageweb.com

giovedì 9 maggio 2019

Motley Crue, The dirt Soundtrack

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In attesa di riuscire a vedere la trasposizione cinematografica (sarebbe forse più corretto chiamarla televisiva, visto che non è uscita in sala, ma su Netflix) dell'autobiografia The dirt, mi balocco con questa ennesima compilation dei Motley Crue, uscita in qualità di soundtrack, tralasciando ovviamente i brani storici e concentrandomi sui quattro inediti.

Non spreco nemmeno una riga per ricordare l'impegno siglato dai quattro debosciati con tanto di carte bollate di non fare più nulla assieme, saltato come un tappo di spumante a capodanno solo qualche anno dopo, piuttosto, molto sommessamente, rimarco un altro piccolo problema derivante dall'ascolto del disco: questi qua proprio non ne hanno più.
Dei tre brani  originali (il quarto è una cover) si salva solo il primo, quel The dirt posto in apertura, che si avvale del featuring del rapper Machine Gun Kelly (che nel biopic interpreta Tommy Lee) a conferire un pò di aggressività ad un pattern altrimenti scontato.
Gli altri due, che seguono un songwriting (se così vogliamo chiamarlo) sempre autobiografico, non solo, ed è banale sottolinearlo, sfigurerebbero con qualunque brano (anche minore) del passato dei Crue, ma escono con le ossa rotte persino se paragonati alle ultime cose incise dalla band, le tutto sommato dignitose Sex e All the bad things must end,  che accompagnavano il farewell tour del 2015.
Ma è la quarta traccia a confermare il vuoto cosmico d'ispirazione dei quattro debosciati, che hanno scelto di seguire la moda, già vecchia, di metallizzare brani pop. La vittima scelta è Like a virgin di Madonna, l'esito: pateticamente soporifero.

Quando si ha la spia del carburante in riserva fissa sparata sarebbe il caso di lasciare la gloriosa macchina chiusa in garage, o al museo dei reperti storici.

lunedì 6 maggio 2019

Avengers, Endgame CON SPOILER

Locandina italiana Avengers: Endgame

Avevo messo a nudo tutto il mio entusiasmo da nerd nel recensire Avengers Infinity War, la prima delle due parti di questa saga cinematografica (mutuata dal fumetto), nella quale i super eroi di terra e spazio cercavano, invano, di impedire al tiranno Thanos di avere il potere di mille dei attraverso il possesso delle sei gemme dell'infinito.
Successivamente ho letto in rete molte critiche al film, che potevano anche essere comprensibili, soprattutto se espresse da chi non ha mai letto un albo Marvel, ma che comunque, a mio avviso, non vedevano la maestosità del progetto degli studios, e soprattutto, non tenevano in alcun conto di un finale di pellicola straordinario, che lasciava letteralmente ammutoliti gli spettatori in sala.

Il difficile doveva venire. Perchè tutti sapevamo che gli eroi sarebbero tornati dalla morte, e la sfida del team creativo era proprio quella di rendere credibile, e non banale, questo comeback. 
Dico subito che la missione è compiuta appieno, anche oltre le più rosee previsioni, non tanto per l'espediente dei viaggi nel tempo, quello sì un pò scontato, ma per tutta la costruzione della storia che si dipana per tre ore piene di un film che bilancia magistralmente dramma, azione, commedia ed epicità.
La prima ora di narrazione scorre volutamente lenta, con l'unica eccezione del blitz attraverso il quale Thor prima amputa il braccio guantato di Thanos e poi lo decapita  (in implicita risposta a quanti sostenevano andasse fatto nel primo film: quei Vendicatori, pieni di virtù e dotati di un codice morale cavelleresco, non potevano macchiarsi di un gesto così brutale; questi Vendicatori invece, umiliati e divorati dai sensi di colpa per la morte dei compagni, non esitano un attimo a farlo). 
In ogni caso, l'atto è purtroppo inutile, in quanto Thanos, prima di morire, sostiene di aver distrutto le gemme per evitare che le stesse distruggessero lui. 
Salto temporale di cinque anni in avanti.
Ant-Man riesce a tornare dal regno quantico, dove era rimasto intrappolato nell'epilogo di Ant-Man and the wasp, e, appresi i fatti che hanno sconvolto la terra, propone agli Avengers superstiti di usare proprio quella dimensione sub atomica per viaggiare nel tempo e recuperare le gemme nelle epoche antecedenti all'arrivo di Thanos.

Gli autori si giocano bene questa carta, consapevoli della debolezza dello spunto, con una buona dose di ironia, laddove tutto quello che i protagonisti sanno dei viaggi nel tempo deriva dalla visione di una serie di film, a partire da Ritorno al futuro, che vengono snocciolati uno a uno per discutere degli effetti che viaggiare nel passato può avere sul presente.
A quel punto, con i protagonisti sul grande schermo che si pongono le medesime domande dello spettatore medio, la sospensione dell'incredulità è pienamente raggiunta.
Ma la parte centrale, quella del recupero delle gemme con relativi conflitti, che normalmente dovrebbe essere quella per cui lo spettatore paga il biglietto, passa quasi in secondo piano rispetto allo splendido lavoro di ricostruzione dei personaggi operata dagli sceneggiatori. 
Partendo da un assunto in cui i personaggi preposti al lato comedy della storia avrebbero dovuto essere Ant-Man (Paul Rudd) e il "procione" Rocket (doppiato da Bradley Cooper), gli screenplayers mettono in scena un vero colpo di genio, alternandoli ad un irresistibile Thor (Chris Hemsworth) ingrassato, depresso, alcolizzato ed incline alla lacrima facile e ad un Hulk verde pastello che, assieme alla forza bruta del mostro, conserva l'intelligenza e l'umorismo di Bruce Banner (Mark Ruffalo). Grazie a questa intuizione, i due personaggi, che rischiavano di inaridirsi dal punto di vista delle possibilità di sfruttamento, rinascono letteralmente.

Infine, le parti drammatiche. Sebbene un pò telefonato, il fato di Tony Stark/Iron Man (Robert Downey Junior) è comunque reso in maniera epica, come se si trattasse di un eroe da peplum anni cinquanta e lo stesso si può dire (in quanto a prevedibilità) del destino di Vedova Nera (Scarlett Johansson), accoppiata nella ricerca di una gemma, a Hawkeye (Jeremy Renner). E' viceversa meraviglioso l'epilogo pensato per Captain America (Chris Evans), il quale, a missione ultimata, sceglie di recuperare gli anni del suo tempo e l'amata perduta nel 1945. Un finale davvero dolcissimo e coinvolgente per un personaggio che ha sempre sofferto l'aver vissuto fuori dal suo tempo.

Con Endgame i Marvel Studios ribadiscono, attraverso una straordinaria, prepotente dimostrazione di forza, la propria leadership nel genere cinematografico. E lo fanno imponendo le nuove regole del gioco, riuscendo a conciliare in maniera armonica un numero impressionate di super eroi dentro la stessa storia, rinunciando in prospettiva ai suoi attori feticcio (Downey jr, Evans, Johansson), chiudendo un ciclo durato dieci anni e ventidue film con un epilogo maestoso, coinvolgente, divertente, commovente, bellissimo. 
Persino rinunciando ad un trend che non aveva inventato la Marvel, ma che certamente essa aveva consolidato, cioè quello delle sequenze "nascoste" dopo i titoli di coda, che in Endgame non ci sono.

Le ultime pellicole della Casa delle Idee mi avevano lasciato indifferente (Ant-Man and the Wasp, Black Panther, Venom), ma qui, dentro il genere supereroistico di massa e anche oltre, siamo a livelli difficilmente replicabili. 
E allora tocca ripetermi: davvero ci voleva la Marvel e un approccio alla storia che, raccordandosi con la complessa continuity dell'universo fumettistico, parla anche di letteratura epica, di cavalieri e di creature demoniache, dell'eterno scontro tra bene e male. 
Insomma di tutto quel mondo fantastico con il quale la nostra generazione ha avuto la fortuna di crescere.
Migliore modo di dire addio a Stan Lee, l'uomo che ha dato vita a questo incredibile universo (e che "compare" ancora una volta in un cameo) non ci poteva essere.

giovedì 2 maggio 2019

MFT, marzo aprile 2019

ASCOLTI

Rival Sons, Feral roots
Thunder, Please remain seated
Tyla's Dogs D'amour, In vino veritas
Tesla, Shock
LA Guns, The devil you know
Garth Brooks, The ultimate hits
John Mellencamp, Other people's stuff
Guy Clark, This land
Cats in space, Narnia
Morbid Angel, Altar of madness
Slayer, playlist 1983/1990
Devin Townsend, Empath
Backyard Babies, Sliver and gold
Steve Earle and the Dukes, Guy
Children of Bodom, Hexed
Adriano Celentano, La mezza luna (1958/1964)
Bus, Never decide
Battle Beast, No more Hollywood endings
Fulci, Opening the gates
Periphery IV, Hail Stan
Spidergawd, V
Reese Williams & Friends,Sweet release
Son Volt, Union
Hate Eternal, Upon desolate sands
Yola, Walks through fire
Hayes Carll, What it is
Molly Tuttle, When you're ready
Charlie Parker, with strings
Finntroll, Jaktens tid
Le Butcherettes, Bi Mental 
Motley Crue, The dirt soundtrack

VISIONI

Il cinico l'infame il violento
Una pura formalità
Chi più spende più guadagna
Nessuna verità
I segreti di wind river
Gomorra
Safe house
Tonya
Escobar, il fascino del male
Onora il padre e la madre
Jungle
Doppia personalità
Ammore e malavita
Blow out
Manhunter - frammenti di un omicidio
Until the light takes us
Moschettieri del re, la penultima missione
The devil's candy
Attenti al gorilla
Morte a 33 giri
Toro
Drug war
La polizia incrimina, la legge assolve
Le due verità
La conversazione

Gomorra, 4
Trono di Spade, final season

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