lunedì 31 dicembre 2012

Meshell Ndegeocello, Pour Une Âme Souveraine: A Dedication to Nina Simone



Personaggino davvero particolare e unico Meshell Ndegeocello (all'anagrafe Michelle Lynn Johnson), artista che sfugge alle classificazioni e ai vincoli dell'industria discografica, muovendosi trasversalmente, ma sempre con grazia, tra un'infinità di generi che vanno dal jazz al soul, dalla dance al rock, dal funk all'errebì con un'angolazione che la vede a suo agio sia come leader che come session woman (al basso).
Se infatti è lunga un chilometro la lista di artisti con i quali ha collaborato (tra gli altri John Mellencamp, Madonna, Herbie Hancock, Rolling Stones, Basement Jaxx e Blind Boys of Alabama) è altrettanto corposa la sua discografia da solista, che conta, ad oggi, una dozzina di titoli in vent'anni.

Pour une ame souveraine è un progetto anch'esso molto particolare. Un tributo a Nina Simone, icona non solo della musica nera (dal jazz al soul passando per il blues) ma anche dei diritti civili della sua gente, nel quale la Ndegeoncello non si limita banalmente a reinterpretare un greatest hits della Simone, ma compie un approfondito lavoro di lettura dell'intera vita in musica dell'artista, tenendosi alla larga dalle hit più note (manca per esempio My baby just cares for me), ma andando in compenso a recuperare i brani di altri autori  che Nina aveva interpretato, reinventandoli.

Così l'album si apre con una Don't let me be misunderstood che mai avrei pensato di voler ulteriormente ascoltare, visto che il pezzo, riproposto in tutte le salse, mi ha veramente sfrangicato le palle. E invece...Invece questa versione   intima ed evocativa fa dimenticare all'istante tutte le altre. Stesso discorso per la travolgente rilettura di The house of the rising sun, traditional portato al successo degli Animals, qui proposto sotto forma di un funkettone scatenato, con il basso a slapparti via le budella. Felling good è invece un noto successo di Nina Simone, elaborato in maniera molto rispettosa ed evocativa, in un tripudio di good vibes che cresce dalla pancia ed arriva dritto al cuore.

Il disco è anche molto ricco di ospitate. Accanto a nomi meno noti, come la polistrumentista Tracy Wannomae (su See line women), il  il folk singer americano politicamente impegnato Toshi Reagon o la giovane cantante soul del Tennesse Valerie June (impiegati su ben quattro pezzi: Real real e House of the rising son il primo, Be my husband e Black is the colour of my true loves hair - splendido -  la seconda) si accompagnano quelli più pesanti di Cody ChesnuTT (To be young, gifted and black); Sinead O' Connor (Don't take all night) e Lizzy Wright (Nobody's fault but mine).

Percepisco Pour une ame souveraine come un disco fortemente voluto e frutto di un'ammirazione totale, sincera e non di maniera, per un'artista, Nina Simone, che, al pari di altre della sua generazione, ha usato il suo talento e la sua popolarità per La Causa. 
S'intende chiaramente che Meshell Ndegeocello viva la sua professione nel solco di quell'esperienza, nonostante i tempi portino sempre più a derive individualiste e di esclusione sociale. 
Per la parte prettamente musicale c'è poco da aggiungere. Disco meraviglioso.

8/10




domenica 30 dicembre 2012

Hacienda, Shakedown


Ormai è una sorta di monopolio. Dove c'è un suono rhythm and blues elegantemente vintage e opportunamente ruffiano, c'è Dan Auerbach. Così è anche per la produzione di Shakedown, terzo album dei dei texani Hacienda. I tre fratelli Villanueva  (che degli Hacienda costituiscono l'ossatura), da parte loro, aggiungono alla formula di Dan qualche spolverata di glam rock, chetelodicoaffà, rigorosamente seventies.

Però siamo seri, trovatemi un ascoltatore mediamente informato sulla musica pop (in senso allargato) che non ricolleghi il sound di questo album direttamente a El camino dei Black Keys e giuro che da oggi mi occuperò solo di canti gregoriani.

Una volta tolto dalle scarpe il sassolino dell'originalità (che ad ogni modo non è esclusiva neanche di Auerbach, abilissimo a ricreare, rielaborandolo, un sound del passato) posso comunque tranquillamente affermare che il disco è sicuramente divertente, efficacemente conciso (siamo sui dieci brani che superano di poco la mezzora di musica) e diretto.

Pur essendo orecchiabilità e gangi mnemonici caratteristica di tutte le tracce che compongono il full-lenght, Let me go, Savage, Don't keep me waiting e Doomsday sono probabilmente le tracce che più rimangono in testa, in un perpetuo effetto nostalgia.

6,5/10

sabato 29 dicembre 2012

MFT, dicembre 2012

A breve (salvo imprevisti lunedì 7 gennaio) posterò i miei dieci migliori album dell'anno. In attesa della lista definitiva, ecco quella con gli ultimi preferiti del mese del 2012. 

MUSICA
          Meshell NdegeocelloPour une àme souveraine:a dedication to Nina Simone 


Titus Andronicus, Local business
Metallica, Load
Francesco Guccini, L'ultima thule
Mumford & SonsBabel / The road to Red Rocks 
Francesco De Gregori, Sulla strada
Cheap WineBased on lies
Hacienda, Shakedown
Eric Dolphy, Out to lunch
Pete Seeger & Lorre WyattA more perfect union
The Pogues, In Paris
The Avett BrothersThe carpenter
Raul Malo, Around the world
Danko JonesRock and roll is black and blue


LETTURE

Steve EarleNon uscirò vivo da questo mondo
Giuseppe Genna, Teste


VISIONI

Breaking Badstagione 2
Dexterstagione 7
Tremestagione 1

venerdì 28 dicembre 2012

Francesco De Gregori, Sulla strada



A differenza di Guccini, De Gregori non si è mai concesso uno stacco troppo lungo tra un disco e l'altro. Anche dopo i fasti degli anni settanta/ottanta è rimasto prolifico al punto che il decennio che si è da poco concluso (non certo l'apice della sua carriera) ha visto l'uscita di quattro lavori a suo nome. Oggi, a quattro anni da Per brevità chiamato artista esce Sulla strada, che ci consegna un Francesco ispirato e bene sul pezzo.

Il disco è aperto dalla title track, una vivace traccia rock sulla falsariga di Vai in Africa, Celestino! (da Pezzi, 2005) che in maniera semplice ma efficace viaggia sulle liriche pastello del De Gregori moderno. Immagino funzioni ancora meglio dal vivo e prevedo possa beneficiare di una buona longevità. Fa da immediato contraltare la ballata Passo d'uomo, una delle canzoni più riuscite dell'album, che ha il classico marchio di fabbrica della ballata dell'autore di Alice non lo sa e Rimmel.

Il canone dell'album è senza dubbio quello dei pezzi più rilassati e intimi, con qualche accelerazione o strizzatina d'occhio a ritmi inconsueti (come il latinoamericano dello spensierato Ragazza del '95), ma quello che mi sembra emergere con forza dalle note sprigionate dal disco è un senso di serenità, di consapevolezza, di voglia di raccontare storie in musica senza assilli, pressioni o menate. 
Così vola leggera la composizione d'amore Showtime, ma anche La guerra, con il conflitto  visto attraverso gli occhi di un soldato, o la finalmente autobiografica Guarda che non sono io.

Un De Gregori leggero insomma, che sublima l'arte della semplicità e dell'immediatezza in maniera, verrebbe da dire, disimpegnata, se il termine non si prestasse ad interpretazioni negative, mentre qui la media risulta ampiamente positiva.

7/10


mercoledì 26 dicembre 2012

The Pogues in Paris, 30th Anniversary Concert at the Olympia


Non è la prima volta che i Pogues, in maniera spontanea o meno, si misurano con il disco dal vivo. La prima è stata nel 2002, con il semi bootleg Streams of whiskey, uscito per Castle Records "all'insaputa" della band, che infatti intraprese un'azione legale contro quella release, invitando i fan a non acquistarlo. L'album catturava la band dal vivo durante il tour di Hell's Ditch, nel momento più turbolento del gruppo, con Shane che da lì a poco sarebbe stato licenziato per manifesta incapacità di reggersi in piedi e con  Joe Strummer chiamato a sostituirlo (ecco un live che sarebbe interessante ascoltare, i Pogues con Joe alla voce). Il secondo tentativo fu molto meglio, ma uscì quasi in sordina. Allegato ad un ennesimo best of infatti, la Warner pubblicò un concerto pescato da una tradizione che i Pogues da allora riproposero con continuità: quella del tour natalizio in Irlanda e UK. Le registrazioni sono delle serate pre natalizie del 2001 alla Brixton Academy di Londra.

Questa volta, per festeggiare nel migliore dei modi il trentennale della band, Spider, Shane, Jem, James, Andrew, Philip, Terry e Darryl hanno fatto le cose più consapevolmente, creando un evento attraverso il loro sito dal quale informavano con largo anticipo i fans che a settembre di quest'anno le due date previste all'Olympia di Parigi sarebbero state registrate al fine di mettere su cd e dvd l'evento. 

E così, un paio di mesi dopo quei concerti che hanno visto convergere sulla capitale francese seguaci del gruppo da tutto il globo, ecco che il pacchetto del 30th anniversary in Paris è pronto. Non so come abbiano fatto a tirarlo così a lucido, ma devo dire che dopo aver visto di recente per due volte i Pogues dal vivo (qui e qui le recensioni)  mai avrei pensato di poter sentire ancora uno Shane così in forma stare dietro ai pezzi senza stonare, andare fuori tempo o dimenticarsi i testi. Per dire, seppur leggermente rallentato, interpreta alla grande anche lo scioglilingua al fulmicotone di Bottle of smoke!

La setlist invece non offre grandi sorprese, è più o meno lo stesso consolidato greatest hits che il gruppo porta in giro da una decina d'anni, senza particolari chicche per i fans che avrebbero sbavato per una Transmetropolitan, una Old main drag, una Streets of sorrow/Birmingham six o una Hell's ditch. Restano fuori anche pezzi come Sayonara, The auld triangle o  Turkish song of the damned, ma in compenso spuntano Poor Paddy on the railway, Greenland whale fisheries e il meraviglioso traditional Star of the County Down.

E quando alla fine si arriva a Fairytale of New York, con la figlia di Finer che si unisce a MacGowan, il tempo si ferma e torna indietro al 1988, quando il brano, contenuto nell'epocale If i should fall from grace with god, uscì. La voce del poeta maledetto è ferma ed evocativa come non mai, il pubblico è in religioso silenzio ed è come ascoltare il brano per la prima volta con la vista che si appanna per la commozione e le dita che cercano il cursore del volume impazienti di averne di più.

In attesa di vedere il dvd, dal disco grandi ed inaspettate emozioni.

Voto alla carriera.

10/10


lunedì 24 dicembre 2012

Francesco Guccini, L'ultima thule



Nelle ultime pagine di Portavo allora un eskimo innocente, volume del 2007 che ripercorre la vita di Francesco Guccini, attraverso una conversazione con lo stesso cantautore curata da Massimo Cotto, a precisa domanda sui progetti per un nuovo album, l'artista rispondeva che ormai faceva molta fatica a trovare l'ispirazione e che aveva pronti non più di un paio di brani. Due o tre anni dopo, intervistato in tv sui suoi progetti discografici rilasciava seraficamente la stessa identica risposta: "ho pronti due pezzi...".
Quindi se lo chiedete a me, no, non sono sorpreso dalla dichiarazione di ritiro dalle scene che ha accompagnato l'uscita de L'ultima thule. L'uomo dell'appennino tosco emiliano da tempo ha altre priorità. La lettura, lo studio, la scrittura di romanzi. Niente a che vedere con gli strombazzati annunci di addii dalle scene di gente che ha bisogno di grattare il fondo del barile di una carriera colata a picco, questo è certo.

Ecco che allora L'ultima thule prende tremendamente sul serio la vocazione testamentaria che l'autore gli ha conferito ed è aperta da due pezzi molto autobiografici costruiti sulla nostalgia struggente per l'infanzia, la giovinezza e i luoghi che l'hanno caratterizzata. Canzoni di notte n. 4 e sopratutto L'ultima volta sono, in alcuni passaggi, davvero toccanti. A seguire, curiosamente, di nuovo la scelta di presentare una stessa tematica attraverso una coppia di canzoni. Il perimetro è quello  della seconda guerra mondiale dei partigiani, dei soldati che non sono tornati dal fronte. I brani sono Su in collina (la paternità del brano è divisa tra un tradizionale emiliano e lo stesso Guccini, ma io tendo a preferire la versione rock dei Gang) e Quel giorno d'aprile. Il testamento di un pagliaccio mette invece alla berlina la società moderna, su un canone musicale che chiama in causa De Andrè e Capossela. Chiude l'opera (otto tracce in tutto, tre quarti d'ora di durata) la title track.

E' una grande passione quella che nutro per Guccini. Nonostante questo è la prima volta che ho l'occasione di parlare di un suo nuovo album, anche se due o tre suoi dischi finirebbero di sicuro nei più importanti della vita, semmai riuscissi a riprendere quella rubrica. Questo perchè l'ultimo suo lavoro che ho apprezzato è vecchio di oltre quindici anni (D'amore, di morte e di altre sciocchezze, 1996), e i successivi (Stagioni, 2000 e Ritratti 2004) li ho trovati un pò deboli. Quest'ultimo (in tutti i sensi) mi sembra invece centrato, coerente. Estremamente onesto. 
In linea dunque con la storia del maestro-insegnate.

7/10



domenica 23 dicembre 2012

80 minuti di Christmas tracks

Beh, che c'è da guardare? Anche Bottle of Smoke si piega alle spietate logiche consumistiche del Natale. Anche se poi, in fondo alla playlist, una zampata irriverente a beneficio di quanti detestano il clima delle feste l'ho anche piazzata... Buone feste a tutti!

1) Bob Dylan, Here comes Santa Claus
2) Bruce Springsteen and the E Street Band, Santa Claus in coming to town (live)
3) Elvis Presley, Blue Christmas
4) The Ramones, Merry Christmas (I don't wanna fight tonight)
5) The Pogues, Fairytale of New York
6) Mina, Mele Kalikimaka
7) Mariah Carey, All i want for Christmas is you
8) Boyz II Men, Silent night
9) Dean Martin, It's beginning to look a lot like Christmas
10) Rod Stewart, Let it snow, lei it snow, let it snow!
11) Blake Shelton, Jingle Bell rock
12) Alan Jackson, White Christmas
13) Twisted Sister, Heavy metal Christmas
14) The Baseballs, Rocking around the Christmas tree
15) Johnny Cash, Oh came all ye faithfull
16) Ozzy Osbourne, Suicide solution


venerdì 21 dicembre 2012

Contradictions

Per dire del mio mestiere. L'altro giorno, nel giro di pochi minuti, sono stato, prima minacciato in pugliese dal padre ottantenne di un operaio di anni trentacinque perchè non avrei difeso a dovere il suo figliolo e poi fatto oggetto di una richiesta per me del tutto inedita. 
Una ragazza alla quale in passato ho dato una mano, oggi in dolce attesa, mi ha detto che, siccome in ossequio ad una tradizione orientale sta cucendo una copertina patchwork (beneagurante per la nascitura) utilizzando lembi di stoffa appartenenti a persone importanti della sua vita, voleva qualcosa anche da me. Chiaramente, sperando che non le serva per farmi una qualche macumba voodoo, ho acconsentito, riflettendo poi sul fatto che le rogne sono quotidiane, ma a volte arrivano gratificazioni cosi forti e inaspettate da compensare qualunque proposito rinunciatario.

giovedì 20 dicembre 2012

RAUL MALO, AROUND THE WORLD



Normalmente sarei portato a pensare che Around the world sia un titolo fin troppo scontato per un disco dal vivo. Nel caso di Raul Malo però il giro in questione non è percorso solo sul tour bus, ma anche nella cultura e nella musica di buona parte del vecchio e del nuovo continente.
Il cantante di radici cubane (anche se è nato a Miami), accompagnato da una vera orchestra, propone infatti, lungo le quattordici tracce che compongono l'opera, diversi tributi a canzoni tradizionali latinomaericane ed europee, includendo a sorpresa anche l'Italia.

Raul Malo ha un talento vocale con pochi simili, nel panorama "leggero" della musica, è un tenore naturale che tocca picchi di tonalità non comuni. Partito misurandosi insieme ai leggendari Mavericks con il country, è con loro approdato al croonering (Music for all occasions, 1995) , in netto anticipo sui tempi e sulle mode degli ultimi anni che ci propongono languidi interpreti di pezzi d'altri tempi ad ogni piè sospinto. Ma avendo Malo anche la vocazione del loser, è rimasto chiaramente fuori dal successo del revival di questo genere, senza per questo smettere di interpretarlo, e anzi, allargandolo ulteriormente grazie alla contaminazione con  una più ampia tradizione chansonnier, senza il timore di rischiare il kitsch o di abusare del tasso glicemico di sentimentalismo. Il tutto senza rinunciare all'altra sua grande passione, la musica latinoamericana.

Ecco la materia che compone Around the world, che arriva dopo il lungo iato con i Mavericks (che sta per essere interrotto, ma ci tornerò sopra) e a coronamento di una discografia solista che conta sei album.
L'album si apre con Indian love call (che per i cinefili è il pezzo che sta ascoltando in cuffia la vecchina con l'alieno alle spalle in Mars Attack ) e a seguire, inaspettato, l'omaggio al nostro Belpaese, con l'esecuzione in italiano, de L'appuntamento, vecchio successo della Vanoni. Ascoltare attentamente questa canzone, che chiunque abbia la mia età ha sentito almeno una volta, mi ha provocato emozioni intense che hanno superato le mie ironie giovanili sulla composizione, legate sopratutto al modo di cantare dell'Ornella.

Le altre tappe di questo giro del mondo in musica prevedono fermate in Francia (La vie en rose, cantata però in inglese); Messico (Besame mucho) e Cuba (Guantanamera). Altro pezzo, stavolta indirettamente collegato all'Italia è A man without love (Quando m'innamoro), canzone dai natali americani, ma che la nostra  Anna Identici interpretò nel 1968 e che fa parte del repertorio storico dal vivo dei Mavericks (la suonarono anche al Rolling Stone di Milano nello storico concerto del 1998). 

L'unico pezzo che non fa parte del repertorio solista di Malo è l'inevitabile Dance the night away, isolato successo dei Mavericks. Chiude la tracklist una traccia inedita intitolata come l'album.

Tutta la musica è soggettiva, in fondo. Ma Around the world, più di altri dischi, è il classico caso per il quale la forchetta del giudizio potrebbe allargarsi ai due massimi estremi, a seconda della sensibilità dell'ascoltatore. A seconda cioè che si consideri Malo un Julio Iglesias fuori tempo massimo o un chansonnier di grande talento. Indovinate un pò per quale  parte della forchetta propenda io...

7,5/10


P.S. A distanza di dieci anni dall'unico album pubblicato negli anni zero e anticipato dall'EP Suited up and ready, il 29 gennaio uscirà In time, il nuovo, attesissimo, lavoro dei Mavericks.

martedì 18 dicembre 2012

Hotel Transylvania


I mostri, si sa, da sempre attraggono e respingono i bambini. Cosa di meglio quindi di realizzare un film d'animazione riunendoli tutti nello stesso posto, deve aver pensato la Sony Pictures?
Detto fatto. Infilandosi nell'enorme solco tracciato dalla Dreamworks con Shrek (che ribaltava i ruoli tra buoni e cattivi) e affidandosi ad una trama esile esile, ecco Hotel Transylvania, albergo creato dal conte Dracula in persona per dare rifugio sicuro a tutti i mostri perseguitati dall'uomo (Frankestein, la Mummia, il Lupo Mannaro, l'Uomo Invisibile, lo Yeti, il Mostro della Laguna etc.) e all'amata figlioletta Mavis, la cui madre è stata uccisa proprio dagli esseri umani.
Nonostante il buon successo al botteghino, il risultato è così così. I character non sono fenomenali (ed è un grosso limite, viste le potenzialità), manca un bel villain e in più ci si mette il doppiaggio che dona a Dracula la stessa identica voce di Sid il bradipo (L'Era Glaciale), cioè quella di prezzemolino Bisio (che sostituisce l'originale Adam Sandler).

Direi adatto ad un pubblico di età prescolare.

lunedì 17 dicembre 2012

Titus Andronicus, Local business


Cosa aspettarsi da una band che come ragione sociale usa il titolo di un'opera di William Shakespeare, che si serve di citazioni dotte e per i titoli delle canzoni ricorre al latino? Beh, come minimo che sia composta da irriducibili nerd e che suoni una qualche sorta di  insopportabile rock cerebrale, giusto? Sbagliato, se la band in questione risponde al nome di Titus Andronicus, visto che il gruppo del New Jersey si esprime prevalentemente assecondando i canoni del primo punk inglese. 

Il combo capitanato da Patrick Stickles arriva al terzo album in quattro anni e mostra il raggiungimento di una maggiore sicurezza nei propri mezzi, coniugando senza timore pezzi dall'impatto immediato, a brani saturati di testo, tracce brevi (anche brevissime) e pezzi che sfiorano i dieci minuti. Con l'arroganza di chi piazza un anthem da pogo selvaggio perfetto come opener solo alla posizione tre della tracklist (Upon Viewing Oregon’s Landscape with the Flood of Detritus e il primo singolo addirittura alla sette (In a big city). 
Stilisticamente, detto dei debiti nei confronti dei Clash pre-London Calling, dei Pistols e un pò anche di Richard Hell, dentro Local Business troviamo tributi sfacciatissimi ai Ramones (nella seriale Titus Andronicus vs The Absurde Universe [3rd round KO] ), strizzate d'occhio a Elvis Costello (In a small body) e meravigliosi eco del rhythm and blues bianco dei sessanta ( [I am the] Electric man ); il tutto dopo aver aperto l'album con la citazione dei Vangeli Ecce homo per raccontare l'umanità del terzo millennio.

Nome interessante e decisamente fuori dagli schemi, quello dei Titus Andronicus. Difficile immaginare per loro un futuro mainstream analogo a quello dei conterranei (e amici) Gaslight Anthem, ma certo la band è da tenere d'occhio. 

7,5/10

sabato 15 dicembre 2012

Album o' the week / Nick Cave, No more shall we part (2001)


Questo disco, oltre a trasmettere sconfinate suggestioni, si porta dietro tutta una serie di incastri mnemonici. Sono arrivato a comprarlo dopo averne ascoltato diverse tracce attraverso quella meravigliosa trasmissione di musica di Radio Popolare che rispondeva al nome di Patchanka. L'ho acquistato nel 2001 alla FNAC di Milano insieme al libro di Ellroy Sei pezzi da mille, in occasione di un incontro con il pubblico dell'autore stesso (nel caso ve lo chiediate, sì, possiedo una copia autografata da James), alla presenza di Marina Petrillo, conduttrice storica proprio di Patchanka.
E così, ogni volta che lo metto su, oltre a diverse reazioni epidermiche (brividi, pelle d'oca, peli che si rizzano) mi parte in automatico il film di quei giorni pre-undicisettembre. Sono proprio diventato vecchio.

venerdì 14 dicembre 2012

80 minuti di ¡UNO! ¡DOS! ¡TRE'! (Green day)

E' un pò particolare l'appuntamento odierno con la playlist monografica. Mi occupo infatti dei Green Day, ma non di tutto l'orizzonte temporale della loro carriera. Al contrario, prendo in considerazione l'ultimo miglio.Grazie alla preziosissima collaborazione di WVS infatti, vi propongo una selezione della recente trilogia del gruppo (¡UNO! ¡DOS! ¡TRE'!), per districarsi tra le trentanove tracce pubblicate e fare sintesi della monumentale opera. Buon divertimento.

01. Nuclear Family
02. Fuck Time
03. Brutal Love
04. Stay the Night
05. Stop When the Red Lights Flash
06. 8th Avenue Serenade
07. Let Your Self Go
08. Lazy Bones
09. Drama Queen
10. Kill the DJ
11. Makeout Party
12. X-Kid
13. Troublemaker
14. Stray Heart
15. Little Boy Named Train
16. Sweet 16
17. Lady Cobra
18. Walk Away
19. Rusty James
20. Wow! That's Loud
21. Dirty Rotten Bastards
22. Oh Love
23. 99 Revolution
24. Amy
25. The Forgotten





martedì 11 dicembre 2012

Breaking Bad, stagione 1



Ci sono modi migliori di festeggiare i cinquant'anni. Walter White arriva a quel traguardo con una vita che chiaramente ha deluso ferocemente tutte le sue aspettative. Da brillante chimico qual'era in giovane età, si trova ad insegnare in uno scalcinato liceo pieno di allievi totalmente disinteressati all'apprendimento, mentre il suo socio storico è diventato milionario. La retribuzione della scuola è quello che è, e perciò Walt è costretto ad arrotondare in un autolavaggio, alternandosi tra la cassa e la lucidatura manuale delle auto. Ha un figlio disabile e una moglie molto più giovane (sotto i quaranta) in dolce attesa. E' disincantato, disilluso, rassegnato. Anche quando gli diagnosticano un cancro ai polmoni che riduce la sua aspettativa di vita al massimo ai due anni sembra non reagire. La sua assicurazione medica non copre spese per cure troppo onerose e, conti alla mano, tra visite e terapie gli servirebbero all'incirca centomila dollari, che chiaramente non ha. Ma non è questo ad attanagliarlo, quanto la prospettiva di lasciare la famiglia senza un cent, dopo la sua dipartita. 
Decide allora di utilizzare le sue conoscenze in campo chimico e di associarsi ad un suo ex alunno ora spacciatore per cucinare anfetamine. Chiaramente tra il dire e il fare c'è di mezzo un mare (di sangue), e non aiuta certo avere in famiglia un cognato che fa l'agente della DEA (la struttura governativa dell'antidroga).

Dissacrante, ironico, irriverente, nerissimo. A tratti il mix di questi canoni fa venire in mente le cose migliori dei Cohen. Breaking Bad in soli sette episodi (tanto dura la prima stagione) convince appieno, lasciando il segno già dai primi fotogrammi di un paio di pantaloni che svolazzano nel deserto e di un camper in fuga su una strada di terra battuta del New Mexico. Ed è solo il preludio perchè poi si passa a scene di sesso coniugale consumato distrattamente, al modo tutto americano di affrontare temi pesanti nelle riunioni di famiglia, ai problemi della classe media USA, delimitata da un confine sottile tra ristrettezze economiche e povertà, che viene drammaticamente oltrepassato se si ha la sfortuna di incappare in un male incurabile

Ottimo il cast. Sugli scudi il protagonista interpretato da Bryan Cranston, bravissimo a rendere tutte le sfumature del suo personaggio, ma convincenti anche la moglie Skyler (Anna Gunn); il cognato Hank Schrader (il caratterista di lungo corso Dean Norris), ruolo in teoria comico che diventa però imprevedibile vista la professione di poliziotto antidroga, e il complice di Walter, Jesse Pinkman (Aaron Paul).

In USA sono alla pausa tra le due parti della quinta e conclusiva stagione, mentre io ho appena approcciato la seconda.


lunedì 10 dicembre 2012

The Avett Brothers, The Carpenter


E' un pezzo che il nome degli Avett Brothers rimbalza tra i miei confusi appunti mentali. Non è un caso,visto che il gruppo della North Carolina è in giro da una dozzina d'anni e ha già inciso sette album e quattro EP, in un costante crescendo di riscontro commerciale (per i fan del serial Dexter, la band viene citata nel corso della quinta stagione, quando un paio di personaggi annunciano di avere i biglietti per un loro show). Arrivo solo oggi a concretizzarne la conoscenza perchè di gruppi giovani sotto l'etichetta pop-country ce ne sono a frotte (non dimentichiamo che il country è rimasto uno dei pochi generi che fa vendere dischi in America) e quasi mai intercettano i miei gusti e il mio modo di apprezzare quel genere. 
Però. Però oggi posso affermare a ragion veduta che The Avett Brothers non rientrano in quella schiera. Se è per questo, a mio avviso, non rientrano appieno nemmeno nella categoria country.

Non posso sbilanciarmi sul passato, ma in The Carpenter la band si muove intrecciando mosaici che spaziano dal cantautorato folk mainstream dei settanta, attraverso coordinate che congiungono James Taylor ( February seven) a Simon and Garfunkel (Through my prayers)  ma anche Guy Clark (The once and future carpenter) per poi aprirsi ad orizzonti pop che rieccheggiano Beatles e Beach Boys (Live and die;Pretty girl from Michigan;I never know you) , a ballate in stile Buddy Holly (Winter in my heart) a nervose ed elettriche asprezze indie-rock (Paul Newman vs the demons).

Va da sè che la mission aziendale della band è centrare sempre ganci melodici micidiali e fraseggi accattivanti, nella scia della tradizione pop (in senso allargato) anglosassone. Altrettanto evidente è che un disco di questa fattezze mi abbia letteralmente conquistato, sbalordendomi con la sua discrezione, la sua immediatezza che, per quelle magiche alchimie che a volte si verificano con la musica, non si traduce però in effimeratezza.

Incantevole.
Aspettatevi a breve una playlist di (doveroso) recupero.

8/10

sabato 8 dicembre 2012

La neve e Sandy

A volte le giornate scelgono da sè la loro colonna sonora. Questa



Mi ha chiesto espressamente Sandy Denny:


giovedì 6 dicembre 2012

80 minuti di Metallica 1983/1989, parte uno

Non starò qui a perdere tempo per descrivere il ruolo epocale che hanno recitato i Metallica rispetto al metal e alla musica rock in generale, siamo mica un blog di Justin Bieber. E' però altresì evidente come, purtroppo, negli ultimi anni i four horsemen si siano avvitati su se stessi arrivando a grattare fondo del barile e terreno sottostante. Nonostante questo, incomprensibilmente dal punto di vista commerciale, non è mai stata pubblicata una loro antologia ufficiale. E qui entra in gioco il monty, che ne ha compilate ben due. 
Una con i pezzi più noti del periodo 83/89 e una, realizzata con la collaborazione di Ale, grande fan della prima ora del gruppo (imperdibile la sua saga Io e i Metallica), con il meglio dei pezzi minori, b-sides e cover. 
Ho escluso il black album non per una sorta di snobismo ma perchè, avendolo ascoltato fino allo sfinimento, non ne reggo più nemmeno una singola nota. 
Ok, si parte.

1) Seek and destroy
2) Harvester of sorrow
3) Creeping Death
4) Welcome home (Sanitarium)
5) Master of puppets
6) Jump in the fire
7) For whom the bell tolls
8) Eye of the beholder
9) Fade to black
10) Whiplash
11)Ride the lightning
12) One
13) Battery (live - from itunes version of Master of Puppets -)



- continua

martedì 4 dicembre 2012

Dexter, sesta stagione


Ho sempre esaltato la bravura degli autori di Dexter, un serial che mi ha appassionato, divertito e spaventato per cinque stagioni, ma ecco che nella sesta (conclusasi l'anno scorso, nel frattempo in USA è quasi ultimata la settima),  la macchina delle idee si è inceppata.
E' difficile in questi casi capire quanto ci sia di tuo (perdita di interesse nel soggetto) e quanto di oggettivo (calo di ispirazione degli autori), nel mancato raggiungimento della sospensione dell'incredulità, ma insomma quando ti accorgi che sei portato ad esaltare più i difetti che i pregi di un'opera, beh qualcosa non ha funzionato.
Il canovaccio del serial killer malvagio (a sto giro il killer dell'apocalisse, che uccide seguendo un modus operandi religioso) inseguito dal nostro, che cerca di accopparlo prima che lo arresti la polizia di Miami stavolta ha mostrato la corda. Non è che mi sia accorto della ripetitività di questa dinamica narrativa solo oggi, è che forse per la prima volta essa è sviluppata in maniera poco efficace.
Non a caso gli episodi che ho trovato più divertenti sono quelli che pongono la trama principale in secondo piano (La fatina dei denti e Nebraska) nella quale Dexter deve gestire un serial killer in pensione e nientedimenoche l'allucinazione del fratello (il killer del camion frigo), anche lui assassino seriale, ucciso da Dex nella prima stagione.

Interessanti viceversa le new entry nei personaggi. A partire da Mos Def che interpreta un ex criminale redento dalla religione (Fratello Sam); Jamie Batista, sorella del tenente Angel che entra come baby sitter e coinquilina di Dex, Louis Greene, subdolo stagista di Masuka e il detective nero Mike Anderson, da Chicago. Altra novità di rilievo introdotta è una nuova sfumatura del rapporto tra Dexter e la sorellastra Debra, che da fraterno sembra incanalarsi in qualcosa di più passionale.

Il livello mediocre della stagione è riscattato però (o proprio per questo) dall'episodio conclusivo, contenente il cliffhanger più mozzafiato dell'intera serie.

lunedì 3 dicembre 2012

Cody ChesnuTT, Landing on a hundred


In tutta onestà è difficile accumunare il Cody ChesnuTT che nel 2002 fece stropicciare le orecchie a tutta la critica con il suo debutto registrato a casa su un quattro piste  (The headphone masterpiece) e quello che torna, dopo un'attesa di dieci anni con Landing on a hundred.

Già perchè mentre nel primo lavoro Cody metteva in centrifuga hip-hop, r'n'b, skit, rdf e pop qui ci troviamo di fronte ad un clamoroso tributo ai classici black degli anni settanta, a personaggi che hanno contraddistinto un'epoca musicale e sociale, che rispondono ai nomi di Marvin Gaye, Bobby Womack, Stevie Wonder, Al Green e Curtis Mayfield. Operazione condotta di recente con ottimi risultati anche da Aloe Blacc ma che qui, se possibile, si riempie di ulteriore significato, di spiritualità e di richiami alla terra madre dell'Africa (I've been life), in un tripudio di cori, voci doppiate, tastiere e fiati.

Si ha dunque l'impressione che anche le canzoni d'amore (Love is more than a wedding day; Till i meet thee) siano intrise di un'ispirazione molto intima, quasi estranee a concetti terreni e più orientate a qualcosa di superiore. Mentre pezzi come Everybody's brother, dall'introduzione jazzata, fanno pensare ad una sorta di orgoglioso riscatto rispetto al ghetto, alla vita di strada.

Nonostante l'elmetto calato sulla testa di ChesnuTT, questo è un disco che ha spazio solo per d'amore per le good vibes.

7,5/10