E' un pezzo che il nome degli Avett Brothers rimbalza tra i miei confusi appunti mentali. Non è un caso,visto che il gruppo della North Carolina è in giro da una dozzina d'anni e ha già inciso sette album e quattro EP, in un costante crescendo di riscontro commerciale (per i fan del serial Dexter, la band viene citata nel corso della quinta stagione, quando un paio di personaggi annunciano di avere i biglietti per un loro show). Arrivo solo oggi a concretizzarne la conoscenza perchè di gruppi giovani sotto l'etichetta pop-country ce ne sono a frotte (non dimentichiamo che il country è rimasto uno dei pochi generi che fa vendere dischi in America) e quasi mai intercettano i miei gusti e il mio modo di apprezzare quel genere.
Però. Però oggi posso affermare a ragion veduta che The Avett Brothers non rientrano in quella schiera. Se è per questo, a mio avviso, non rientrano appieno nemmeno nella categoria country.
Non posso sbilanciarmi sul passato, ma in The Carpenter la band si muove intrecciando mosaici che spaziano dal cantautorato folk mainstream dei settanta, attraverso coordinate che congiungono James Taylor ( February seven) a Simon and Garfunkel (Through my prayers) ma anche Guy Clark (The once and future carpenter) per poi aprirsi ad orizzonti pop che rieccheggiano Beatles e Beach Boys (Live and die;Pretty girl from Michigan;I never know you) , a ballate in stile Buddy Holly (Winter in my heart) a nervose ed elettriche asprezze indie-rock (Paul Newman vs the demons).
Va da sè che la mission aziendale della band è centrare sempre ganci melodici micidiali e fraseggi accattivanti, nella scia della tradizione pop (in senso allargato) anglosassone. Altrettanto evidente è che un disco di questa fattezze mi abbia letteralmente conquistato, sbalordendomi con la sua discrezione, la sua immediatezza che, per quelle magiche alchimie che a volte si verificano con la musica, non si traduce però in effimeratezza.
Incantevole.
Aspettatevi a breve una playlist di (doveroso) recupero.
8/10
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