lunedì 25 maggio 2015

80 + 80 minuti di Motley Crue

Ci ho messo un pò ad arrivarci ma alla fine l'ho capito. Non amo incondizionatamente l'hair-metal, mi limito ad una manciata di artisti riconducibili a questo genere: Poison, Cinderella, i Bon Jovi del primo lustro di attività e, più di ogni altro, i Motley Crue. Sì, proprio loro, la band misogina e zozza per eccellenza. Quella che è riuscita ad incontrare i favori della critica solo quando ha rilasciato un disco con sonorità lontanissime dal proprio brand collaudato (il self titled del 1994) e con un vero cantante (John Corabi) al posto dello storico frontman Vince Neil. Disco per inciso andato malissimo a livello di vendite con conseguente precipitoso ritorno a formazione e sound classico. 
Per cui sì, sono consapevole di tutti i limiti artistici dei quattro debosciati, ma immancabilmente incrocio dei periodi nei quali rimetto su tutto il loro repertorio in heavy rotation e me la godo alla grande. A sto giro l'occasione è stata innescata dal farewell tour che porterà la band ad effettuare l'ultimo show prima di sciogliersi definitivamente il 31 dicembre 2015 a Los Angeles (con tanto di accordo legale che impedisce a chiunque dei componenti di usare in futuro il monicker). Spiace non riuscire a rivederli, mi resterà comunque il ricordo di quel concerto a Milano, a seguito del tour di Dr Feelgood, nel quale la band era al vertice della tensione interna ma anche della miglior combinazione possibile tra sudiciume e melodia.
L'ho fatta un pò lunga per giustificare la pubblicazione di una playlist doppia totalmente futile, visto che parliamo di un gruppo che nel tempo, tra raccolte e box, ha collezionato ben nove uscite ufficiali, e che pertanto non necessitava di ulteriori antologie. Nonostante ciò ci tenevo a postare le mie quaranta canzoni favorite dei Crue  (comprendenti gli ultimi due singoli che sembrano essere il lascito definitivo, le hits e pezzi minori), e a fare definitivamente outing a proposito della mia passione per questa formazione.

Disco uno

1. All bad things must come to an end (singolo 2014)
2. Live wire
3. Shout at the devil
4. Use it or lose it
5. You're all I need
6. Dr Feelgood
7. Hooligan's holiday
8. Dancing on glass
9. Treat me like the dog I am
10. Motherfucker of the year
11. If I die tomorrow
12. Piece of your action
13. Looks that kill
14. New tattoo
15. City boy blues
16. All in the name of rock 'n' roll
17. Afraid
18. Same all situation
19. Knock 'em dead (live)
20. Home sweet home

Disco due

1. Sex (singolo 2012)
2. The saints of Los Angeles
3. Smoking in the boys room
4. Kickstart my heart
5. Sick love song
6. Too young to fall in love
7. White trash circus
8. Girls girls girls
9. Generation swine
10. Helter skelter
11. Anarchy in the UK
12. Animal in me
13. Hell on high heels
14. Wild side
15. Don't go away mad
16. Ten seconds to love
17. Without you
18. Smoke the sky
19. Punched in teeth by love
20. Take me to the top



Respira Vince, respira...

sabato 23 maggio 2015

Avengers, Age of Ultron


Mi sono rassegnato ad aver perso senso critico e ogni giusta distanza dall'analisi dei film Marvel di ultima generazione. La verità è che mi diverto come un bambino, anzi sicuramente di più, visto il personale background fumettistico che viene vigliaccamente riesumato ad ogni pellicola, nonostante il costante revisionismo storico dei personaggi. Molto sinteticamente nel secondo capitolo della saga Avengers sono tre gli elementi vincenti: 1) meno parole e più azione, a partire dalla sequenza iniziale 2) L'introduzione di Visione, così simile nel look a quella dei comics dei settanta da spezzare il cuore 3) La fine di questa formazione di Vendicatori e una finestra su di un nuovo inizio (con Thanos ad incombere). 
L'avessi visto in originale ne avrei aggiunta una quarta: lo scecspiriano automa Ultron doppiato da James Spader. Ahimè, dovrò recuperare in video.

P.S. Per l'estate sono previsti Ant-Man (trailer) e il reboot dei Fantastici 4 (trailer). Come diceva l'uomo che ha creato tutto questo: Excelsior!

lunedì 11 maggio 2015

Whitesnake, The purple album

 
Il trappolone dell’auto citazione, soprattutto per artisti che hanno raggiunto il loro picco creativo più di un quarto di secolo fa e oggi annaspano attaccati a quel poco di notorietà che gli resta,  più che un rischio artistico è diventato con il tempo rifugio sicuro per conservare la propria nicchia di fedeli. Bene, tra i molti che negano piccati questa evidente dinamica, David Coverdale (a sto giro) almeno scopre le carte, andando a riproporre con i suoi Whitesnake, una sorta di greatest hits del periodo in cui il biondo singer ha esordito nel rock biz dalla porta principale, cioè con le formazioni passate alla storia attraverso le denominazioni di mark III e mark IV dei Deep Purple.
E per uno come me, fanatico integralista del periodo artistico della band che va dal 1969 al 1973, quando la cosiddetta mark II impresse il marchio porpora a fuoco nella memoria collettiva di ciascuno di noi, la scelta del frontman è quantomai stimolante. Già, perché mi porta a riscoprire album sottovalutati (Burn, Stormbringer, Come taste the band) che all’epoca spinsero verso territori musicali meno praticati il consolidato brand DP e che avevano l’unica colpa di essere arrivati dopo i capolavori storici della band.

Il trattamento a cui Coverdale sottopone quel repertorio equivale ad una robusta cura ricostituente che sposta in alcuni passaggi il mood della produzione oltre l’hard rock,  verso lidi più propriamente metal (un esempio su tutti: You fool no one che ha un tempo alla Metallica), grazie soprattutto al notevole lavoro dell'axeman Joel Hoekstra, ex Night Ranger. Ne consegue che il contributo delle tastiere, originariamente onnipresenti vista la centralità dello strumento nel sound  e l’autorevolezza del compianto Jon Lord, è pertanto marginalizzato in nome di un risultato finale magari meno di personalità ma maggiormente sferzante. Risultato di cui beneficia alla grande l’open track Burn, che celebra uno dei riff assassini più incisivi e meno celebrati del genere. Sugli scudi anche Love child; Sail away; Mistreated; Might just take your life e Soldier of fortune, che vanno a comporre un’encomiabile bilanciamento tra ballate folk blues e solidi rifferama.
Dopodichè lascio ad altri il giudizio su quale sia la migliore prestazione vocale tra il David Coverdale ventenne e quello sessantaquattrenne. Anche perché, in questo lavoro mi sembra che l’ugola del biondocrinito passi quasi in secondo piano in relazione alla prova estremamente convincente fornita dal resto della band (oltre al già citato Hoekstra, Tommy Aldrige alle pelli, Michael Devin al basso e Reb beach alla ritmica): musicisti che di norma passano in secondo piano rispetto all’esposizione mediatica e all’allure di David, ma che qui si prendono una grandiosa rivincita.
 
P.S. Nel caso qualcuno se lo chieda: sì, dopo l’ascolto intensivo di The purple album ho provveduto ad ordinare su amazon i tre dischi dei Deep Purple richiamati in servizio dall’operazione.

lunedì 4 maggio 2015

Aaron Watson, The underdog


Stetson calato in testa, bandiera americana dipinta sul volto: dovessimo giudicare dalla copertina, il contenuto di The underdog, ultimo album di Aaron Watson, sembrerebbe l'ennesimo, ampiamente scontato, lavoro di mainstream country. E invece basta lo struggente violino che regge la delicata melodia di The prayer, l'introspettiva traccia l'apertura, per capire che Watson non è un prodotto preconfezionato dell'industria di Nashville. Inoltrandosi nella tracklist e ritrovandosi ad ascoltare piacevolmente più volte l'album, si evidenzia meglio l'identità del lavoro, che è sì capace di offrire pezzi che hanno trainato il disco ai vertici delle classifiche di genere, ma anche una coerenza di fondo che conferisce una luce diversa, del tutto particolare, a questo album rispetto ai tanti prodotti per il mercato country USA. 
Watson deve a mio avviso molto a Garth Brooks, sia nei pezzi movimentati  (Freight train, Getaway truck, Family tree; The underdog) che in quelli lenti (That look; Bluebonnets; One of your nights), mentre Rodeo queen è inaspettatamente cantata con un piglio da Billy Joel periodo 52nd Street
Ma il vero capolavoro del disco è piazzato in coda di questo riuscito bigino di redneck music. Fence post è infatti l'autobiografica storia di Aaron, raccontata come se fosse suonata dal vivo, e delle difficoltà dell'artista, originario del Texas, a trovare un contratto discografico in Tennessee a causa dello scarso appeal commerciale dei suoi pezzi. Una canzone insieme divertente e orgogliosa che potrebbe essere stata scritta indifferentemente da Cash, Haggard, Kristofferson o Coe, ma che rimanda anche ad uno storyteller irlandese che risponde al nome di Christy Moore.
Migliore riconoscimento che l'essere paragonato a tali mostri sacri, per un artista che ha cominciato ad assaporare il successo dopo una lunga e faticosa gavetta, penso non possa esserci.