giovedì 28 febbraio 2019

More Free Tips, gennaio - febbraio 2019

ASCOLTI

Van Morrison, The prophet speak
Mark Lanegan and Duke Garwood, With animals
Satan, Cruel magic
Ghost, Prequelle
Whitey Morgan and the 78's, Hard times and white lines
Cody Jinks, Lifers
Tyla's Dogs D'Amour, In vino veritas
Thunder, Please remain seated
Arch Enemy, Covered in blood
Hayes Carll, What it is
Rival Sons, Feral roots
Robert Ellis, Texas piano man
Walter Trout, Survivor blues
Madrugada, The best of
Selvans, Faunalia
John Mellecamp, Other people's stuff
The Struts, Young and dangerous
Southside Johnny, Detour ahead the music of  Billie Holiday

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VISIONI

C'est la vie
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
La ruota delle meraviglie
Puoi baciare lo sposo
Non ci resta che il crimine
Noi e la Giulia
Suburbicon
Glass
Vizio di forma
Amnèsia
Blow up
Zombie (Dawn of the dead)
Tomb Raider
The Eichmann Show
Il corriere
Borg McEnroe
Free fire
L'altro volto della speranza
La la land
Her
Le belve
Under the skin

VISIONI SERIALI

Seven seconds
Narcos S2, S3
Escape from Dannemora
True detective S3

LETTURE

Paul Auster, 4 3 2 1


lunedì 25 febbraio 2019

Springsteen on Broadway (2018)

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Durante la sua più che cinquantennale carriera, Bruce Springsteen si è differenziato da molti dei suoi colleghi per la pervicace ricerca di una relazione col suo pubblico che andasse oltre una, seppur coinvolgente, esecuzione di brani dal vivo. 
Chi, in epoca analogica, si è consumato le orecchie su bootleg che fino alla metà degli ottanta erano l'unica testimonianza dell'attività live dell'artista del New Jersey, è ampiamente abituato ai lunghi spoken che facevano da prologo alle canzoni, o ne costituivano un propellente integrato alla composizione originaria. 
Più tardi se ne trova testimonianza anche sui live ufficiali, a partire dal mitologico Live 1975 - 1985, con l'introduzione a The river imperniata sull'adolescenza di Bruce, sul rapporto con la musica e con il padre.
Ma è stato, a mio avviso, con il tour del 1988, quello partito a seguito della pubblicazione di Tunnel of love, che un Bruce maturo, desideroso di affrancarsi dall'immagine preconfezionata di blu collar rocker, si spinge ancora più in là, cercando di trasmettere ai propri fans un messaggio di collettività, di famiglia, di crescita, attraverso un momento del concerto nel quale Bruce e Clarence Clemons, seduti su una panchina al centro del palco, discutevano del passato e del futuro, con un passaggio sui figli di Big Man (Springsteen sarebbe diventato padre da lì a poco).

Dal 1988 inizia per il boss una lunga iato dall'attività pubblica, nella quale, pur non smettendo mai di scrivere e registrare, si occupa della sua vita privata, e della nascita dei figli, concedendosi delle rare occasioni pubbliche usate come road test delle nuove composizioni.
In questo senso, la partecipazione allo show benefico Christic Institue Benefits è entrata nella memoria collettiva di tanti fan. Per la prima volta (ricordiamoci che Nebraska, disco in solitaria del 1980, non ebbe alcun tour a supporto) uno Springsteen dimesso e quasi introverso, si presenta da solo davanti ad un pubblico affamato della sua energia, chiedendo di non fare chiasso e di non accompagnare la sua esibizione con cori o urla, per poi mettere in fila una trentina di canzoni tra classici e (allora) inediti. 
Bruce voleva esprimere, senza giri di parole, un cambiamento nel suo modo di comunicare: dove c'era adrenalina, festa e sudore voleva ricreare empatia e profondità. Difficile, quando sei una rockstar planetaria, ma non impossibile se hai quel tipo di feroce determinazione.
Negli anni a venire questo desiderio di Springsteen si è riaffacciato ad intermittenza, penso ai tour di The ghost of Tom Joad o a quello, per me ancora più intenso, di Devils and dust, senza che i semi di questa urgenza smettessero di germogliare, accompagnando il trascorrere degli anni.

All'inizio del 2017 il Boss dà alle stampe la propria autobiografia (ne ho parlato qui), ma la sua urgenza comunicativa non è evidentemente soddisfatta, se qualche mese dopo, il 12 ottobre, Bruce si imbarca, per la prima volta, in uno spettacolo a Broadway, nel quale la parte dedicata allo storytelling ha lo stesso spazio, se non addirittura superiore, a quella dedicata alle canzoni. Per i più pignoli e completisti è bene ricordare che già nel 2005, nell'ambito di un programma della rete VH1, Springsteen fece un'operazione analoga, anche se più breve e meno intima e personale. Qui invece l'artista riprende i passi principali della sua autobiografia, partendo dalla sua infanzia e dal rapporto con le due comunità (irlandese e italiana) dei suoi genitori e toccando cronologicamente i punti seminali della sua vita e della sua carriera.
Nel piccolo Walter Kerr Theatre (meno di mille posti) il pubblico ci mette un pò ad entrare nel mood dello spettacolo, le variazioni di tono di Bruce non sempre vengono colte, ma quando l'esibizione entra nel vivo si crea anche la giusta sintonia, e con essa i momenti di ilarità e di commozione. 
Lo stesso Springsteen appare meno disinvolto di quando esegue i suoi canonici concerti, anche se, probabilmente, questa sorta di timidezza diventa un valore aggiunto, dovendo giudicare la sincerità dell'operazione.
Nelle oltre due ore di esibizione trovano spazio i ricordi di infanzia, i luoghi dell'anima, la moglie Patti, che lo accompagna per qualche brano. 
Bruce si accompagna alternando chitarra, armonica e pianoforte, riuscendo ogni volta a far vibrare le vecchie assi del palcoscenico.
La parte emotivamente più intensa è senza dubbio quella in cui Springsteen, rievocando uno degli ultimi momenti col padre, non riesce ad impedire agli occhi di riempirsi di lacrime.
La scaletta prettamente musicale ripercorre la carriera di Springsteen, ma per fortuna non è un greatest hits. Infatti, accanto a classiconi quali Thunder road, Born to run, The promise land, Dancing in the dark o Born in the USA, trovano spazio piccole gemme che rispondono ai titoli di My father's house, The wish oltre ad una canzone che considero tra le migliori  in assoluto di Bruce (pur appartenendo al repertorio dei novanta) e che ogni volta mi infonde dolcezza e malinconia: Long time comin'

Dentro questo spettacolo imperfetto vive la quintessenza della magia di Bruce Springsteen, un uomo e un artista che ha fatto di integrità e di onestà intellettuale le proprie bandiere. Che magari si è lasciato sedurre dal narcisismo tra un trapianto di capelli e un botulino, ma che non ha mai perso quello sguardo di entusiasmo infantile negli occhi, quel rapporto con i fans, quell'esigenza di trasmettere il vero. Sarà anche per questo che lo show, dal mese di programmazione inizialmente previsto, è andato avanti per oltre un anno e 236 repliche. 

Insomma, quest'uomo qui, che a settembre compirà settant'anni, sembra avere ancora molte cose da dire e diverse modalità comunicative per farlo.

lunedì 18 febbraio 2019

Il corriere (2019)

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Leo Sharp balzò agli onori delle cronache grazie ad un articolo del New York Times che rivelava al mondo il suo ruolo di corriere della droga per il famigerato Cartello di Sinaloa, comandato da El Chapo Guzman.
Cosa c'è di così strano? Beh, che Sharp, veterano della seconda guerra mondiale, è stato arrestato mentre trasportava oltre trecento chili di coca alla veneranda età di ottantasette anni.

E' del tutto evidente che Hollywood non poteva farsi sfuggire la trasposizione di questa storia, e per fortuna il progetto finisce nelle mani di Clint Eastwood, che per l'occasione, vista l'età del protagonista, riprende il doppio ruolo di regista e attore.
Il film racconta la vicenda di Earl Stone (alias Leo Sharp), presentato come persona piacevole, ma molto superficiale, al punto che, nonostante l'età, preferisce girare per gli States andando per convention della sua grande passione (i fiori) piuttosto che accompagnare la figlia all'altare nel giorno del suo matrimonio.
L'avvento di internet e dell'e-commerce porta alla chiusura della piccola impresa di Earl, che si trova improvvisamente privato del suo scopo di vita (n.d. ma andare in pensione, no?) fino a quando, casualmente, entra un contatto con un amico messicano della nipote, che gli propone di spostare "roba" per conto di alcuni suoi amici. Ovviamente gli amici sono del cartello messicano, ma nonostante questo Earl accetta e, prima con volumi irrisori, poi con spostamenti sempre più consistenti, diventa, con il soprannome di Tata (nonno), il migliore corriere del cartello, con tutti i benefits (soldi e trattamento da vip) del caso.

Anche se alla fine della proiezione ho pianto come un vitello,  Il corriere a mio avviso resta un film controverso. Potrebbe essere l'ultimo film con Clint Eastwood in un ruolo da protagonista e questo, di per sè, è già un valore importante. Il cast è di rilievo: Bradley Cooper, Diannie West, Andy Garcia, ognuno investito del giusto ruolo. La regia scorre, come da stile consolidato di Eastwood, sobria, pulita ma dannatamente efficace, così come la fotografia (non potrebbe essere altrimenti, in considerazione degli scenari che accompagnano i viaggi di Earl). 
La storia è americana fino al midollo, e qui cominciamo ad addentrarci negli aspetti negativi, laddove il crimine del traffico di droga, che causa migliaia di morti tra i tossici e fiumi di violenza, è banalizzato se a perpetrarlo è un innocuo vecchietto a cui semplicemente piace guidare per gli Stetes, nonchè quando si vogliono imporre i valori della famiglia con una modalità paternalistica che ho trovato insincera e fastidiosa. Per non parlare della caratterizzazione dei messicani, banalizzata come da prassi.

Insomma, Il corriere è un film che probabilmente non avrebbe lasciato traccia, non ci avesse messo mano (regia) e presenza (recitazione) quell'icona assoluta del cinema di ogni tempo che risponde al nome di Clint Eastwood.

giovedì 14 febbraio 2019

The Eichmann Show (Film Tv, 2015)

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Nel 1960, dopo una latitanza durata quindici anni, gli ultimi dei quali passati in Argentina, il criminale nazista Adolf Eichmann viene individuato e rapito dal servizio segreto israeliano (in Argentina non era prevista l'estradizione), e condotto in Israele per essere processato. Su intuizione del produttore britannico Milton Frutchman, l'intero processo viene trasmesso in diretta sostanzialmente nell'intero mondo civilizzato (30 paesi), per mostrare in maniera inequivocabile gli orrendi crimini commessi dai nazisti nei confronti degli ebrei. E per fare la storia della televisione.

Il film televisivo della BBC parte da qui, da un Frutchman estremamente preoccupato di non riuscire a fare la diretta in quanto i giudici della corte suprema sono restii a concedere l'autorizzazione per la presenza di grosse ed ingombranti telecamere nell'aula di giustizia che non sarebbe congrua all'importanza dell'atto. 
Frutchman (interpretato da Martin Freeman) ha contattato per dirigere le riprese Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia), regista americano la cui attività era interrotta da anni a causa della famigerata caccia alle streghe di McCarthy che l'aveva inserito nella lista nera di sospetti comunisti ai quali era inibita ogni attività lavorativa.
Hurwitz è una persona razionale e riflessiva, che cerca sempre di approfondire gli argomenti, non limitandosi alla facciata superficiale delle cose. Egli, per esempio, tra lo sconcerto della sua troupe israeliana, afferma che chiunque, in una particolare situazione, può comportarsi come i nazisti o diventare fascista.
Superato il problema dell'autorizzazione dei giudici, grazie ad uno stratagemma che permette di nascondere totalmente le telecamere dalla vista dei presenti in aula, il processo (e lo show) può cominciare.

The Eichmann show si è rivelato un film estremamente interessante per molteplici aspetti, che vanno anche oltre il normale sentimento di vicinanza verso il popolo ebraico, e che ne impreziosiscono la visione. 
Assieme all'alternanza tra girato e immagini storiche, passando alla caratterizzazione dei personaggi, estremamente efficace è ad esempio la raffigurazione dei dilemmi morali che dilaniano Leo Hurwitz, resi in maniera straordinaria dalla recitazione di un Anthony LaPaglia misurato, che lavora per sottrazione. Hurwitz, per tutto il tempo nel quale vengono testimoniate, anche con l'ausilio di immagini raccapriccianti, le atrocità commesse nei campi di sterminio, impone alla troupe di riprendere un pressochè inespressivo Eichmann, nella speranza di cogliere un cenno di reazione del nazista, che avvalori la sua tesi che in fondo, anch'egli, sia un essere umano.
Per questo si scontra con il produttore Frutchmann, che è sì interessato al valore storico della produzione, ma anche degli ascolti, molto bassi all'inizio del processo, anche a causa dell'interminabile requisitoria del Procuratore Generale Gideon Hausner che si protrae per tre giorni, nonchè per la contemporanea "concorrenza" delle dirette su Gagarin, primo uomo nello spazio, e la crisi della Baia dei Porci.

Oltre a questa non banale riflessione sul ruolo della televisione, il film tocca anche un aspetto che personalmente non conoscevo e che di certo non ha avuto moltissima esposizione, vale a dire la situazione nella quale si sono trovati i sopravvissuti ai campi di sterminio che si sono rifugiati in Israele. Viene infatti riportato che queste persone venivano trattate con fredda diffidenza e spesso i loro racconti non venivano creduti. 
La diretta televisiva del processo, con le testimonianze dei sopravvissuti e le atroci immagini di repertorio, raggiunge il risultato di dare veridicità ad un orrore infinito, squarciando ogni opacità percepita e creando le condizioni perchè un'intera comunità mondiale, prima fra tutti, paradossalmente, proprio quella ebraica, potesse interiorizzare il dramma del proprio popolo imprigionato e sterminato dai nazifascisti.

lunedì 11 febbraio 2019

Bob Batchelor, Stan Lee: il padre dell'universo Marvel

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Non c'è niente come la morte di un personaggio noto per far arrivare anche dalle nostre parti biografie che magari normalmente faticherebbero a raggiungere gli italici scaffali. 
Ed è così che mi sono trovato tra le mani questo libro di Bob Batchelor, che affronta la vita di Stan The Man, l'uomo che ha permesso ai fumetti di prendersi il posto di rilievo che hanno nella pop culture mondiale. 
Dall'infanzia in povertà come immigrato ebreo romeno fino ai celeberrimi cameo nei cine comics milionari, l'esistenza di Lee è raccontata attraverso i suoi snodi e i suoi rapporti principali, senza eccedere nell'agiografia, ma, devo dire, senza mai appassionare veramente alla lettura. Ci si sofferma legittimamente molto sul suo rapporto con la Marvel e sulle altre attività imprenditoriali aperte (e chiuse) sfruttando il brand Stan Lee, ma, per esempio, si glissa inspiegabilmente sull'acquisizione della Marvel da parte della Disney e, soprattutto, non si svela nessun aspetto inedito dietro i personaggi o le storie.
Emerge l'instancabile attivismo di Stan Lee, il suo entusiasmo contagioso che lo portava ancora a visitare le fiere del fumetto a novantasei anni suonati e a farsi sommergere dall'affetto di milioni di fan, così come la sua superficialità nel buttarsi da un impresa commerciale all'altra, spesso purtroppo con risultati fallimentari.
Insomma, una lettura tanto doverosa per un vecchio fan della Marvel quanto poco foriera di soddisfazione ed elementi di reale interesse.

lunedì 4 febbraio 2019

Arch Enemy, Covered in blood

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Inauguriamo le recensioni del nuovo anno musicale con il melodic death degli Arch Enemy, ormai assunti al ruolo di leader del genere e che, lo si evince chiaramente dal titolo Covered in blood, si trastullano con una serie (ben ventiquattro!) di interpretazioni di altrui brani.
Molti di essi sono recuperi di B-sides o bonus track disseminati nella carriera della band di Michael Ammott, con una prevalenza chiaramente per la matrice metal delle canzoni originali, ma senza farsi mancare qualche incursione nel pop e nel punk.
Si apre giustappunto con la celeberrima Shout dei Tears for fears, che inaugura il disco e l'ampia sezione che vede alla voce l'attuale cantante Alissa White-Gluz. Dopo qualche richiamo agli ottanta metal con Judas Priest (Breaking the law) e Pretty Maids (Back to black), di particolare interesse la parentesi, dalla traccia cinque alla undici, relativa al tributo alla scena hardcore svedese del passato, con reinterpretazioni dei misconosciuti Skitlickers, Moderat Likvidation e Anti-Cimex. A seguire lo spazio dedicato all'ex singer Angela Gossow (tra le altre The zoo degli Scorpions, The oath dei KISS, Wings of tomorrow degli Europe), ed infine il testimone passa al primissimo cantante (uomo) della band, Johan Liiva, che si distingue in particolare per due cover degli Iron Maiden (Aces High e la strumentale The ides of march).

Disco eccessivamente lungo e prescindibile, nel quale probabilmente vi troverete a skippare le tracce alla ricerca delle vostre ispirazioni preferite, ma che tuttavia può regalare qualche passaggio coinvolgente.