venerdì 28 febbraio 2014

Steve Turner, Johnny Cash: La vita l'amore e la fede di una leggenda americana


Considerata tutta la letteratura prodotta da terzi,nonchè dallo stesso Johnny Cash, c'era davvero bisogno di un'altra biografia su questo artista?
Proverò a rispondere a questa domanda con alcune considerazioni sul libro di Steve Turner, giornalista, scrittore e poeta inglese già autore di volumi su Beatles, Van Morrison, Cliff Richards e Jac Kerouak.
Innanzitutto l'approccio con il quale Turner si misura con l'epopea di Cash cerca di essere il più accademico possibile, si intuisce lo sforzo di tenersi alla larga da qualunque tipo di resoconto agiografico, trappolona nella quale in molti sono caduti con il countryman ancora in vita e che è ha assunto proporzioni imbarazzanti dopo la sua morte.
Altro elemento distintivo di Johnny Cash, La vita, l'amore e la fede di una leggenda americana è che il libro nasce come collaborazione tra l'artista americano e lo scrittore inglese, scelto dallo stesso Cash per raccogliere le proprie memorie prima che le sue precarie condizioni di salute si aggravassero ulteriormente, portandolo alla tomba. Questo embrionale rapporto di fiducia, pur non potendo essere sviluppato, ha comunque permesso a Turner di avere libero accesso ad un'enorme mole di informazioni da parte di famiglia, entourage, amici e conoscenti del cantante.

Il risultato è un'opera che fa da consuntivo a quelle che l'hanno preceduta, puntualizzando o rivedendo alcuni episodi della vita di Cash altrove narrati e mettendo in contraddizione le versioni di alcuni aneddoti acquisiti dalle precedenti bio e autobio. Il punto di debolezza dell'opera, ma solo per quelli che, come me, vorrebbero conoscere nel dettaglio la genesi di ogni canzone, è il poco spazio lasciato all'aspetto di concepimento e creazione dell'arte di Johnny Cash. Solo per alcune canzoni e pochi album infatti l'autore indugia in spiegazioni e retroscena sul processo creativo.
In compenso l'uomo Johnny Cash viene ben sviscerato nei suoi slanci, nelle sue debolezze, nella sua fede e nelle sue tante contraddizioni. Si parte dall'infanzia, segnata dallo scarso affetto paterno, alla tragica perdita del fratello, alle prime canzoni, i tour con Perkins, Lewis e Presley e via via tutti i picchi artistici e le rovinose cadute umane che Cash ha attraversato.
Sì perché per un johnnycash devoto che arriva a scrivere un saggio sull'apostolo Paolo e a produrre film religiosi, ce n'è un altro che assume anfetamine in quantità industriale e che trascura per anni  prima moglie e relativa prole, per un johnycash artisticamente integralista che vuole immedesimarsi nelle sue opere (Sings the ballad of the true west e Bitter tears, dedicate ai pionieri del west e ai nativi americani) al punto di passare diversi giorni e diverse notti in solitudine e all'addiaccio nel deserto nutrendosi di ciò che la natura offre, ce n'è un altro, distratto da show televisivi a proprio nome e una marginale carriera cinematografica, che pubblica tutta una serie dischi indecorosi nei quali non crede minimamente.

Questo travaglio, ben riportato da Turner, non è solo spirituale ma anche e soprattutto fisico, in considerazione degli ultimi anni di vita di Cash, costretto a convivere con il dolore provocato da numerosi traumi e malattie invalidanti, che proiettano sulla sua cover di Hurt dei Nine Inch Nails ("I focus on the pain / The only thing that's real") una luce completamente diversa da quella (tossica) postulata da Raznor, autore del pezzo.

Per rispondere alla domanda in premessa: personalmente non sono in grado di fare paragoni con le altre biografie pubblicate su questo enorme personaggio della musica americana, ma credo di poter comunque affermare che Johnny Cash, La vita, l'amore e la fede di una leggenda americana rappresenti una componente essenziale alla comprensione dell'arte di questo tormentato cantore vestito di nero.


mercoledì 26 febbraio 2014

MFT, febbraio 2014



ASCOLTI

Eric Church, The outsiders
Beck, Morning phase
Level 42, Sirens
Tom Keifer, The way life goes
Chris Forsyth, Solar motel
Johnny Cash, Unearthed
Clutch, Earth rocker
Liars, They were wrong so we drowned
Black Flag, Damaged
Junkyard, self titled
Joan Armatrading, Love and affection: classics 1975/1983
Hard Working Americans, self titled
LevellersMouth to mouth





LETTURE

Jo Nesbo, Pettirosso

VISIONI

House of cards, stagione uno
The Walking Dead, stagione quattro
True Detective, stagione uno
Orange is the new black, stagione uno





lunedì 24 febbraio 2014

Tom Keifer, The way life goes (2013)


Tiene la posizione e non arretra di un metro, Tom Keifer. Il frontman dei Cinderella ne ha passate troppe per accettare,  alla veneranda età di cinquantadue anni, compromessi sulla direzione stilistica del suo esordio solista.  La sua band d'origine è costantemente citate tra quelle protagoniste della scena del glam o hair metal anni ottanta subito dopo Motley Crue e Bon Jovi, ma a differenza di questi due monicker è stata anche la più parca in fatto di releseas (solo quattro  album dall'ottantasei al novantaquattro) e la meno scaltra a muoversi nel music biz. Le vicissitudini di cui accennavo all'inizio riguardano seri problemi alle corde vocali che hanno a più ripreso funestato la carriera di Keifer e dei Cinderella, oltre a diverse incomprensioni con le major, i cui manager hanno rifiutato nuovi lavori che la band aveva prodotto spingendola così al declino discografico. Insomma, tra una menata e l'altra sono passati diciannove anni tra l'ultima pubblicazione a nome Cinderella (Still climbing) e  The way life goes, il debutto solista di Tom dell'anno scorso.

In questo orizzonte temporale l'artista della Pennsylvania ha probabilmente ingoiato rospi belli grossi, continuando a scrivere musica, mantenendosi con i diritti dei dischi dei Cinderella (Night songs e Long cold winter sono due long sellers) e partecipando a quei malinconici festival americani, sorta di habitat artificiale dove, per la gioia di nostalgici cinquantenni fermi agli anni delle high school,  sopravvivono combo come Ratt, Winger e Warrant . Ma a differenza di queste band di seconda fascia che vivono sostanzialmente di rendita, Keifer ha ancora molto da dire, e lo dimostra con questa raccolta di quattordici canzoni inedite che ci dimostra come sarebbe potuto essere lo sleaze-rock negli anni dieci se il grunge non lo avesse brutalmente assassinato vent'anni fa.

L'urlo glam fuori tempo massimo che introduce Solid ground è da questo punto di vista il grido d'orgoglio del soldato al quale non hanno spiegato che la guerra è finita e che si ostina, non solo a combattere da solo, ma a cercare proseliti. Azzardo, ma nemmeno troppo, un'origine autobiografica per questo pezzo che riassume in due righe di testo, come solo i grandi autori sanno fare, tutti i troubles attraversati in una vita artisticamente complicata (I gotta keep moving / When the world starts to crumbling down / I gotta keep moving / Looking for solid ground ).
Tom flirta con il blues senza però arrivare a concedersi alla musica del diavolo: a prevalere è infatti l'inconfondibile marchio di fabbrica Cinderella e per gli amanti dei dischi della band è una vera festa poter ascoltare pezzi nuovi che si raccordano in maniera più asciutta ed essenziale con la miglior tradizione glam-metal degli ottanta, attraverso la già citata opener, Welcome to my mind e Cold day in hell o per mezzo di ballate che avrebbero fatto sobbalzare gli ammortizzatori di molte auto parcheggiate nei lovers lane delle periferie americane (Thick and thin; Ask me yesterday; The flower song;You showed me), mentre l'epilogo dell'album apre spiragli di un possibile futuro più classic rock, con ammiccamenti agli Stones (Ain't that a bitch) e agli Aerosmith dei begli anni che furono (The way life goes). 
Ma tranquilli, con la conclusiva Babylon Tom Keifer puntualizza definitivamente la sua posizione di portabandiera di un genere che sarà anche adolescenziale ed effimero ma che non vuole saperne di diventare storia.

giovedì 20 febbraio 2014

80 minuti di Lucinda Williams

A vederla non si direbbe, ma Lucinda Williams (anche se è sempre antipatico mettere in piazza l'età delle donne) ha da poco superato la boa dei sessanta: traguardo che solitamente viene gestito bene dagli artisti maschili, mentre, sia nel cinema che nella musica rock, è sempre stato insidioso per il genere femminile. Non abbiamo la percezione dell'età della Williams non solo per il suo ottimo stato di forma, ma probabilmente anche per il tardivo avvio della storia discografica dell'artista della Louisiana (aveva 35 anni quando la sua carriera è ingranata davvero, con la pubblicazione nel 1988 di un self titled recentemente ristampato).
Una carriera all'insegna di un genere americana molto personale, impregnato di suoni, odori, tempi e sapori del sud degli states, contraddistinto da un'andatura pigra ma audace, sempre dotato di un forte appeal e di una bellezza genuina, non costruita a tavolino. Esattamente come quella della sua autrice.
Siccome a tutt'oggi manca un'antologia ufficiale del lavoro di Lucinda, ho cercato di estrarre dai suoi album più rappresentativi (ho dunque escluso il solo Ramblin' del 1980, composto esclusivamente da cover) quasi una ventina di pezzi, nel tentativo di rendere al meglio la straordinaria carriera di questa artista.


1. Are you alright?
2. It's a long way to the top (if you wanna rock and roll)
3. Car wheels on a gravel road
4. Righteously
5. Drunken angel
6. Born to be loved
7. Real live bleeding fingers on a broken guitar strings
8. Honey bee
9. Out of touch
10. Changed the locks
11.Can't let go
12. Come on
13. Passionate kisses
14. I lost it
15. Crescent City
16. Get right with god
17. Pineola
18. Blessed
19. Joy (from Live @ Fillmore)

lunedì 17 febbraio 2014

Maurizio Blatto, L'ultimo disco dei Mohicani


Un vero caso editoriale, quello de L'ultimo disco dei Mohicani di Maurizio Blatto, un libro molto atteso da tutta una popolazione di appassionati italiani di musica rock che aveva eletto a proprio culto Alta fedeltà di Nick Hornby e che voleva ritrovare quei temi nell'ambito della propria realtà provinciale italiana.
Detto questo c'è una certa pigrizia mentale nel limitarsi ad associare il libro del torinese Blatto a quello dell'inglese tifoso dell'Arsenal: i campi da gioco sono infatti i medesimi (un negozio di dischi; il fanatismo per i vinili), ma lo sviluppo delle opere totalmente diverse. Laddove il lavoro di Hornby utilizzava la forma romanzo, quello di Blatto è a suo agio nei racconti (molto simili a post) brevi/brevissimi (da cinque/quindici pagine), che muovono dal palco principale di Backdoor, negozio di dischi di Torino (tutt'ora esistente) per poi uscire dalle quinte e allargarsi alla microcosmo della piazza, al degrado umano e culturale del quartiere, alle varie forme umanonidi che transitano dal record store.

Partendo dal punto di vista di un profondo conoscitore di qualunque argomento specifico che abbia a che fare con l'arte, in possesso quindi di requisiti di conoscenza superiori alla media, da un certo punto di vista può risultare facile prendersi gioco della massa ignorante che entra nel tuo negozio e ti chiede l'intera discografia di Alberto Lupo o si informa se Che Guevara ha fatto uscire qualcosa di nuovo, ma in questo caso l'autore, attraverso cartoline che fanno dell'ironia, a volte leggera (ad esempio nel caso del racconto tusoffrlamarcatura) a volte greve (Sborrovich), la propria chiave di lettura, riesce ad evitare ogni atteggiamento di supponenza, gettando invece un fascio di luce su un piccolo mondo che viene così accostato ai melting pot delle metropoli occidentali, riferimento obbligato per la cultura rock .
 
Le vicende dei collezionisti di dischi rari non rivelano necessariamente le traiettorie dei sinceri appassionati di musica. Io, ad esempio, che compro cd sui negozi on line per pagarli meno e che se dovessi entrare a Backdoor mi butterei nel cesto dei vinili a cinque euro, tenendomi a debita distanza dai dischi rari appesi dietro il bancone, credo di amare questa arte in misura infinitamente più grande dei tizi che nel libro si sono svenati per l'hi-fi perfetto o per collezionare ogni singolo pezzo di vinile pubblicato da Franco Simone. 
Ma lo stesso, anche se l'universo messo al centro del telescopio da Blatto mi appartiene solo in parte, mi riconosco nella stessa comunità sempre più simile ad una riserva indiana (e pertanto destinata all'estinzione) descritta dall'autore.
Per tutte queste persone che ancora acquistano dischi e riviste musicali, l'opera di Blatto è probabilmente come un'adunanza, un richiamo a serrare le fila, uno specchio infranto che rimanda un'immagine di sé frammentata ma efficace.
Non un merito da poco, in un Paese per il quale spazi,risorse e considerazione per la musica pop sono, da sempre, una questione irrilevante.

venerdì 14 febbraio 2014

Johnny Cash 1994/2003: un tributo

Ho sentito parlare spesso dalla critica e da molti artisti (ad esempio Manu Chao) di Bob Marley come un medico dell'anima, uno che attraverso la propria musica lenisce le sofferenze dello spirito. Pur apprezzando il famoso rastaman, non sono mai riuscito ad entrare dentro la sua arte così a fondo per arrivare a percepirne i miracolosi effetti. Questa meravigliosa metafora veste però a pennello il mio rapporto con molta della musica di  Johnny Cash , soprattutto quella del suo ultimo periodo artistico, segnato dalla collaborazione con il produttore Rick Rubin. Vale a dire dunque i quattro American Recordings registrati in vita, lo splendido cofanetto Unearthed, A hundred highways e Ain't no grave, usciti postumi: tutti lavori che mi sanno riappacificare con me stesso come poca altra musica esistente. Tutti album che avevo ascoltato molto al momento della loro uscita, ma dai quali, si sa come vanno queste cose, solo oggi riesco a succhiare fino al midollo la vera essenza.

Unearthed è composto da quattro cd (più uno che raccoglie il meglio della precedente produzione rubiniana) e raccoglie la parte più significativa delle takes accumulate durante le registrazioni dei quattro volumi di American Recordings. Ma guai a chi parla di scarti, basta leggere la tracklist dei singoli dischi per rendersi conto dell'assoluta bontà del materiale. 
Si parte con una manciata di nuove versioni di canzoni immortali dell'artista, come Long Black Veil, Understand your man (composto da Cash sulla melodia di Don't think twice it's alright di Dylan), Waitin' for a train, I'm going to Memphis, Dark as a dungeon, per passare poi alle cover, punto di forza consolidato della produzione storica dell'uomo in nero, ulteriormente rafforzato dagli orientamenti di Rubin (un esempio su tutti Hurt dei NIN). Qui la scelta è più prosaica e meno avventurosa: in linea di massima viene rispettato il background storico di Cash e manca dunque l'intuizione che sbalordisce, ma lo stesso quanta meraviglia nell'ascoltare pezzi come Pochaontas (che si raccorda magicamente con il legame tra i nativi americani e Johnny) e Heart of gold, entrambe di Neil Young; il rockabilly Down the line e Everybody's tryin to be my baby, rispettivamente degli amici di gioventù Roy Orbison e Carl Perkins; T for Texas di Jimmy Rodgers, standard ripreso da decine di gruppi southern (leggendaria la versione dal vivo dei Lynyrd Skynyrd), attraverso la quale Cash chiude i conti con l'ispirazione originaria della più controversa strofa di Folsom Prison Blues ("I shot a man in Reno / Just to watch him die"), proveniente da questo vecchio blues ("I'm gonna shut poor Thelma / Just to see her jump and fall"). 
Per The devil's right hand il percorso va al contrario. Quanto Johnny Cash c'è dentro questa canzone di Steve Earle? Parecchio a giudicare dal testo e dalla naturalezza con cui l'anziano artista se ne appropria.
Il punto più alto del terzo cd è senza dubbio il duetto con Joe Strummer su Redemption song di Bob Marley (ecco che ritorna The Soul Doctor). Un'interpretazione toccante, una struggente fotografia color seppia scattata da due autentici outlaw della musica, un salmo da impostare con la funzione repeat del lettore per permettergli di impregnare le mura di casa, indifferenti al trascorrere del tempo.
Siamo in una sorta di irraggiungibile stratosfera delle emozioni, ma Father and son di Cat Stevens, interpretata insieme a Fiona Apple e Cindy, cantata con Nick Cave riescono ancora a volare altissimo. L'ultimo cd del cofanetto, l'unico del lotto ad essere pubblicato anche autonomamente, raccoglie quindici canzoni a sfondo religioso, insegnate al giovane Cash dalla madre, da qui il titolo My mother's hymn book. La magnifica I shall not be moved (che con il testo modificato diventerà una celebre protest song durante le manifestazioni degli anni sessanta/settanta) e I'll fly away rappresentano bene lo spirito del disco, cantato da John con il solo accompagnamento della chitarra. 

A hundred highways e Ain't no grave, rispettivamente capitolo cinque (2006) e sei (2010) degli American Recordings, contengono materiale registrato durante le ultime settimane di vita dell'artista, quando Cash era gravemente malato e distrutto dalla perdita della moglie June, elementi questi che riverberano in modo evidente sulla voce di John, mai così debole e sofferente, ma forse proprio per questo ancora più empatica e capace , grazie a pezzi come Help me, God's gonna cut you down, Ain't no grave, di riscaldare il cuore dell'ascoltatore.

Tra circa un mese uscirà l'album inedito Out among the stars, registrato nei primi ottanta, in un periodo tra i meno ispirati nella carriera dell'uomo in nero e con la fiducia (e di conseguenza il supporto) dell'etichetta Columbia ai minimi termini. Potrebbe dunque, nonostante le collaborazioni con Dylan, June Carter e Waylon Jennings, non essere esattamente un capolavoro. Ma è mia ferma convinzione che il disco conterrà sicuramente qualcosa: una canzone, un testo, una strofa, un'interpretazione in particolare che lo renderà speciale, unico. 
Perchè chi ha la capacità innata di guarire l'anima delle persone riesce sempre a farla venir fuori, anche nelle circostanze più sfavorevoli.

mercoledì 12 febbraio 2014

Ill chronicles

E così alla terza influenza - con il suo bel rimorchio di febbre alta e tosse sconquassante - nell'arco degli ultimi due mesi, anche la mia dottoressa, un tipo di norma pacato e imperturbabile, ha sbottato. Se non si fa almeno una settimana a casa sotto profilassi di antibiotici è perfettamente inutile che venga qui. Messaggio ricevuto doc. Contrariamente a quanto pensavo il lavoro va avanti anche senza il sottoscritto (beh, a parte la toccata e fuga di ieri per un caso umano che non mi sentivo di appioppare a nessun collega) e oggi, che ancora non sono guarito ma comincio a sentirmi un pò meglio, capisco l'importanza di dare a queste stanche membra un pò di riposo. Anche perchè stanotte Stefano ci ha svegliato alle tre per un atroce mal d'orecchi che ci ha portato al pronto soccorso (sospetta otite). E giusto per essere certi di non farsi mancare niente il mio notebook Toshiba ha smesso di funzionare: in attesa di ripararlo (è ancora in garanzia) sto usando il vecchio e glorioso (ma quasi del tutto dismesso) HP che ha una peculiarità: funziona solo se e quando gli pare. A quanto pare come il mio organismo degli ultimi tempi.

mercoledì 5 febbraio 2014

Movielist #4 (1998/2007)

Il decennio che scavalla il novecento inizia come si era concluso il precedente (cioè con una frequentazione assiduo-compulsiva delle sale cinematografiche) concludendosi però con una flessione determinata dal nuovo status di genitore (luglio 2004) e dal conseguente venir meno del tempo da dedicare alle sale cinematografiche. Compenserò in seguito, parzialmente, grazie a dvd e programmazione Sky Cinema. A dicembre 2006 inoltre, inauguro codesto blog e quindi, rispetto alle decadi prese precedentemente in esame, in qualche occasione, mi sono allargato linkando ai titoli dei film citati le mie recensioni di repertorio.



1998
In un'ipotetica semifinale tra American Hystory X, Il grande Lebowski, The Truman Show e l'outsider Cose molto cattive (pellicola nerissima, rigorosamente da recuperare), i primi due titoli vanno in finale e lo psichedelico (è proprio il caso di dirlo!) film dei fratelli Coen, con un leggendario Jeff Bridges, prevale di misura sull'interpretazione più oscura e poliedrica di Edward Norton.

1999
Anche qui è dura scegliere. In lizza per la zona champions ci sono Essere John Malkovich; Fight Club e Il Sesto senso. Tra i "minori" Ghost Dog; L'estate di Kikujiro; Magnolia e Pane e tulipani. Ma ora con ancora più convinzione di allora (sarà l'età...) la mia scelta cade su American beauty.

2000
E' l'anno in cui Aldo Giovanni e Giacomo sfornano la loro pellicola migliore. E, in considerazione della mia passione per il trio, non posso che assegnare al loro Chiedimi se sono felice la palma di film dell'anno. A ruota Alta fedeltà, che riesce a trasportare a Boston e su grande schermo il capolavoro di Hornby senza snaturarne il senso; Quasi famosi di Cameron Crown, che è insieme film di formazione ed epopea di un'ipotetica band rock anni settanta (Led Zeppelin? Creedence?) e, tra i piccoli, menzione d'onore per Denti di Salvatores e Sexy Beast di Jonathan Glazer.

2001
Non so se si tratti di una casuale coincidenza, ma nell'anno che resterà famoso nei secoli a venire per l'11 settembre, i miei film migliori sono quasi esclusivamente di tono leggero. Due film d'animazione strepitosi: Monster and co della Disney/Pixar e Shrek della Dreamworks. L'eccezione è costituita da L'uomo in più, esordio alla regia di Paolo Sorrentino che, con un Toni Servillo non ancora divo, tratteggia in maniera straordinaria due storie parallele ispirate ad Ago Di Bartolomei e Franco Califano. Il prescelto è però una commedia americana: I perfetti innamorati, scoppiettante lezione di metacinema con interpreti (Julia Roberts, Billy Crystal, John Cusak, Catherine Zeta Jones, Stanley Tucci e Christopher Walken) in stato di grazia assoluta.

2002
E' l'anno dello Spider-Man di Sam Raimi. Vi sembrerà ridicolo ma vedere svolazzare in maniera (sufficientemente) realistica il protagonista di fumetti sui quali ho passato una vita mi ha fatto scendere i lucciconi. Ma, detto che esce anche Merry Christmas, il miglior cinepanettone della ditta Boldi/De Sica, mio guilty pleasure per eccellenza, per una volta non ho dubbio alcuno sull'assegnazione dell'onoreficenza: La 25a ora. Visto e rivisto (la prossima visione la dedicherò a Philip Seymore Hoffman, riposi in pace) non perde un'oncia della sua bellezza: probabilmente la mia pellicola preferita dell'intero decennio. Per la serie "e sti gran cazzi", il mio nick arriva proprio da Monty Brogan, il personaggio interpretato da Edward Norton.


2003
La casa dei 1000 corpi di Rob Zombie, horror terrificante (che vedrò in realtà solo nell'estate del 2004) al quale ho assistito con la mia sweet half all'ottavo mese di gravidanza con il risultato che quasi mi sgrava lì, sulle poltrone di un multisala della bassa bergamasca. Citazioni anche per Le invasioni barbariche; Kill Bill 1 (che resiste bene all'usura del tempo); School of rock; Open water e Il posto dell'anima.

2004
La coppia Sorrentino/Servillo fa fragorosamente centro: Le conseguenze dell'amore e non c'è partita. L'onore delle armi a Spider-Man 2 (per me il titolo migliore della trilogia di Raimi); Kill Bill 2; Ladykillers; Spongebob the movie e gli italiani indipendenti Volevo solo dormirle addosso e A/R Andata e ritorno.

2005
Scelgo il Woodie Allen in versione noir di Match Point, anche se la sequenza finale de La casa del diavolo, sequel de La casa dei 1000 corpi, sempre di Rob Zombie, è qualcosa di memorabile. Hanno lasciato il segno anche History of violence; Romanzo criminale e il film d'animazione Dreamworks Madagascar.

2006
Non un'annata da ricordare, almeno per quanto mi riguarda. La sorpresa Slevin, patto criminale; il Bruce Willis disilluso e alcolizzato di Solo due ore e, seppur con tutte le sue imperfezioni, Il caimano di Moretti. Il mio film dell'anno è però This is England.

2007 
L'ho scritto in premessa: dopo la nascita di Stefano ho perso molto terreno rispetto alle uscite dei film. Faccio fatica, in questo senso, a trovare, nel 2007, una pellicola che mi abbia realmente entusiasmato. Mi sono segnato Gone baby gone; Nella valle di Elah; Non è un paese per vecchi (non avessi letto il libro di McCarthy l'avrei anche premiato); La ragazza del lago e il cartoon Disney/Pixar Ratatouille, che alla fine emerge dalla massa per la sua originalità ma anche (e soprattutto) in quanto primissimo film visto al cinema con Stefano.

lunedì 3 febbraio 2014

Bruce Springsteen, High hopes


Denominatore comune a tutte le recensioni di questo disco scritte da appassionati storici di Springsteen, è l'incredulità. Ancora un album raccogliticcio, un opera che mette insieme, faticosamente, una manciata di titoli per arrivare al minimo sindacale di canzoni necessarie a rilasciare un ciddì. Ma stiamo parlando dello stesso artista che per un lungo periodo era noto per la sua maniacale pignoleria che lo portava a scartare pezzi meravigliosi dalle tracklist finali dei suoi lavori? Pezzi che avrebbero potuto costituire l'ossatura di almeno altri tre - quattro dischi di eccezionale livello?

Sì, è lui, è lo stesso artista. Bisogna farsene una ragione. Il tempo passa, l'ispirazione cala e se dal vivo sembra che Bruce abbia ingannato lancette e calendari, in studio si avverte chiaramente che siamo nel 2014 e non nel 1979. Detto questo e fatta dunque la tara con l'artista che fu, trovo che molte delle critiche mosse a High Hopes siano prevenute e pretestuose. Non ho letto da nessuna parte, ad esempio, elogi sulla voce del boss, che migliora disco dopo disco e che, da sola, nobilita pezzi per altri versi mediocri. 
Macchè! Niente di tutto questo. Un secondo dopo che sono stati rilasciati, con un mese d'anticipo, "per errore" della casa discografica, gli mp3 dell'album, la rete già pullulava di recensioni e stroncature: il disco fa dunque così cagare che basta un frettoloso ascolto di un file compresso per stroncarlo?

Secondo me no.

Partiamo dall'inizio. A sto giro sale sulla giostra E Street anche Tom Morello, che ha sostituito Little Steven per parte del tour 2013 e che, pare, abbia profondamente ispirato e condizionato Springsteen. E' lui che consiglia al Jersey Devil di rimettere nelle setlist High hopes, brano poco noto degli Havalinas, che Bruce aveva già inciso per l'EP allegato a Blood brothers (il documentario che testimoniava la reunion del 1996 con la E Street Band). 
Dal riproporla in concerto a dargli un posto d'onore nel nuovo album il passo non deve essere stato lungo. Questa versione si differenzia da quella precedente proprio per l'apporto di Morello e del suo tipico stile chitarristico con un esito finale a mio avviso molto buono, sia per il sound tosto che per il tema a sfondo sociale, quanto mai attuale in questi periodi di crisi infinite, del testo. Il successivo Harry's place è il primo inedito del disco e anche qui vado controcorrente perchè trovo il pezzo ottimo, un quasi spoken con una base di fiati più attinente al jazz che al soul (è l'ultima traccia registrata da Clarence Clemons) per un risultato molto suggestivo e notturno. Con American skin (41 shots) si torna invece in modalità recupero. Del pezzo esistevano (ufficialmente) solo versioni live, qui lo si propone in studio. E per quanto il brano abbia goduto di enorme visibilità (si parla della famigerata vicenda dell'omicidio di Amadou Diallo da parte della NYPD) e mi abbia in qualche misura saturato, quando il testo arriva a questo punto:"Lena prepara il suo figlio per la scuola / Gli dice: "su queste strade Charles, devi imparare le regole. / Se un poliziotto ti ferma promettimi che sarai gentile / Che non scapperai via / Prometti alla mamma che terrai sempre le mani in vista" "onestamente, in considerazione del mio essere genitore, non riesco mai  a fare a meno di commuovermi.
Con Just like fire would (altra cover, del gruppo australiano The saints) cominciano le note dolenti. Il pezzo è davvero troppo prevedibile nel suo sviluppo e nel suo essere autoreferenziale. Lo stesso dicasi per Heaven's wall, altro titolo francamente imbarazzante.

Down in the hole fa invece incazzare a morte per motivazioni diverse: il pezzo avrebbe potuto essere uno dei migliori dell'opera, non fosse per il riciclaggio della base ritmica di I'm on fire, riproposta paro paro all'originale. Per la serie: scelte inspiegabili dell'entourage del rocker del New Jersey.
Da Frankie fell in love (divertente errebì nel classico stile E Street), l'album si compatta, trova una sua omogeneità. Le atmosfere irish di This is your sword, il delicato valzer di Hunter of invisible game (uno degli highlight del lavoro), la ballata folk The wall che, non fosse per il lavoro di tromba e organo in conclusione, ci rimanderebbe all'album The ghost of Tom Joad e Dream baby dream dei Suicide, che non fa rizzare i peli delle braccia come quando chiudeva i concerti del tour di Devils and dust (per inciso il migliore che Bruce abbia mai fatto senza E Street Band) ma che ci sta dentro alla grande. C'entra come i cavoli a merenda invece la riproposizione elettrica di The ghost of Tom Joad, a mio avviso nettamente inferiore non solo all'originale, ma anche alla cover dei RATM di Morello.

In ultima analisi High hopes non è certo un disco irrinunciabile, al contrario si può parlare di opera elegantemente superflua, ma nemmeno siamo di fronte ad una schifezza inascoltabile, perchè alla fine Bruce Springsteen non ha avuto sulla cultura del novecento l'impatto devastante di un Bob Dylan e nemmeno rappresenta pietra di paragone per ogni sfigato che prende in mano una chitarra come Neil Young, ma a differenza di questi due maestri non ha mai nemmeno dato in pasto ai suoi fans roba come Shout of love!, Saved, Trans o Landing on water, mantenendo la sua musica, se non a livelli di eccellenza, sempre sopra la soglia della dignità. Ecco, in attesa della migliore ispirazione, High hopes non modifica questa onesta consuetudine.

6,5/10

sabato 1 febbraio 2014

80 minuti degli Aerosmith dei settanta

Dal 1973 al 1979 gli Aerosmith hanno rilasciato sei album in studio e uno dal vivo (lo strepitoso Live! Bootleg) lasciando un'impronta indelebile nell'hard rock americano di matrice blues. Poi i gravi problemi di droga hanno portato la band ad un periodo di inattività, qualche disco indecoroso, fino al ritorno, più commerciale e pertanto coronato da un grande riscontro di vendite, di Permanent Vacation (1987), Pump (1989) e Get a grip (1993). Di antologie del gruppo di Steven Tyler e Joe Perry in commercio ce ne sono quante ne volete e per tutte le tasche, ma questa, nel suo piccolo è unica. Prende in considerazione infatti i primi anni di attività del combo: un periodo nel quale sono racchiuse perle come Get your wings,Toys in the attics e Rocks. Un periodo di pochi lustrini e tanta sostanza.

1. Make it
2. Mama kin
3. Dream on
4. Same old song and dance
5. S.O.S. (Too bad)
6. Train kept a rollin'
7. Sweet emotion
8. Walk this way
9. You see me crying
10. Toys in the attic
11. Last child
12. Rats in the cellar
13. Home tonight
14. Back in the saddle
15. Draw the line
16. Kings and queens
17. Get it up
18. Come together
19. Remember (Walking in the sand)
20. Chip away the stone (live)