lunedì 30 dicembre 2013

Bill Callahan, Dream river


Metto subito le mani avanti: non ho mai ascoltato una singola canzone degli Smog e nemmeno ero a conoscenza del fatto che il monicker fosse in realtà l'alter ego di un solo artista, Bill Callahan. Altrettanto candidamente ammetto di essere venuto a conoscenza di questo Dream river solo per l'ottima stampa, trasversale ai generi delle varie riviste (cartacee o on line) musicali, che ha ricevuto.
Ormai dovreste averlo capito, non sono uno che ascolta musica complicata, indie o di nicchia. Che si tratti di hard rock, pop, folk o country, mi piacciono le melodie semplici, le aperture vocali, perché no: la cantabilità dei pezzi, gli intrecci armonici e le voci con personalità. Dopo diverse sòle prese nei periodi di acquisti a scatola chiusa, con gli anni e l'esperienza ho capito che mi dovevo tenere alla larga dai titoli pompati all'inverosimile dalla critica più elitaria perché quasi mai facevano scopa con i miei gusti. Ora, per le ragioni di cui sopra, Bill Callahan rispondeva a tutti i criteri per rientrare nel novero dei musicisti che non considero, e invece il suo è l'album che più sto ascoltando in questi giorni freddi e piovosi. 
Perchè la musica è così: per quanto tu ti possa impegnare a stabilire delle regole, lei si diverte a mandarle a fanculo.

Dream river è, da un certo punto di vista, esattamente come te lo aspetti: un lavoro malinconico, autunnale, evocativo. Ma è anche qualcosa di più. "L'artista precedentemente conosciuto come Smog", infatti, pur mantenendo il santino di Nick Drake ben visibile sul cruscotto dell'auto, approccia alla composizione in maniera personale e libera. 
Innanzitutto ha dalla sua una voce che, a differenza del tormentato artista di Bryter Layter, possiede tonalità molto profonde, dalle parti della musica nera (rischio di farla fuori dalla tazza, ma butto lì un Isaac Hayes) o più prosaicamente di Leonard Cohen. L'accompagnamento che fa da cornice ai testi, appena intonati, quasi parlati, è minimale: percussioni, flauto, tastiere, e qualche secchiata di vernice con una chitarra elettrica slabbrata, quasi psichedelica. 
Il risultato è una fotografia a tinte pastello, onirica e cangiante, che scherza con strutture jazz (Seagull) e regala notevoli vette cantautorali (Small plane).

A tratti incantevole. Da ascoltare.

7,5/10

sabato 28 dicembre 2013

MFT, dicembre 2013

ASCOLTI

In questi scampoli di fine anno la mia attenzione è quasi esclusivamente rivolta al riascolto dei dischi che andranno a riempire la tradizionale classifica consuntiva. In linea di massimo i titoli per la top ten sono già assestati (restano da sciogliere giusto un paio di dubbi) ma c'è grande incertezza per le posizioni, data l'eccellente media qualitativa che questo 2013 (mi) ci ha regalato. L'ultima playlist dell'anno registra la presenza di due artisti emergenti in ambito country indipendente (Lindi Ortega e Sturgill Simpson), più l'interessante ritorno di Trent Raznor coi suoi NIN e il suggestivo Dream River di Bill Callahan (Smog). Chiude il cerchio Decade, raccolta di Neil Young che copre il suo primo periodo solista (1968/77), che, per la sfilza di capolavori che mette in fila e per come si raccorda con tutto il nuovo (ennesimo) movimento folk americano, merita l'acquisto anche se si è in possesso dell'opera (quasi) omnia dello Zio Nello. 

Hank III, Brothers of the 4x4
Hank III, A fiendish threat
Caitlin Rose, The stand-in
Nine Inch Nails, Hesitation marks
Austin Lucas, Stay reckless
Pearl Jam, Lightning bolt
Lindi Ortega, Tin star
Sturgill Simpson, High top mountain
Bill Callahan, Dream river
The Temperance Movement, omonimo
Neil Young, Decade



VISIONI


Terminate con la scatola di kleenex a portata di mano le ultimi stagioni di Sons of Anarchy (sesta) e Homeland (terza); quasi finita la prima di The Newsroom e in procinto di iniziare la conclusiva di Dexter.


giovedì 26 dicembre 2013

Xmas Chronicles

Da bambino, benchè volessi solo divertirti in un'atmosfera festosa, lo sentivi a pelle che quando la famiglia tutta si riuniva per gli interminabili pranzi o cenoni delle feste, c'era qualcosa nell'aria pronta a guastare il tuo patinato idillio da pubblicità del Mulino Bianco. 
Da adulto sei parte di questo agente contaminante, perchè non c'è niente da fare, è stato oggetto di studi, libri e film: quando metti intorno ad un tavolo persone unite da legami di sangue ma divise da differenti scelte di vita, personalità e vecchie fratture mal ricomposte, serve giusto un pretesto per far riaffiorare rancori e conti aperti e innestare una lenta ma inarrestabile deflagrazione. 
Attorno alla tavola tutti lavorano per la pace ma sono pronti alla guerra. Lo capisci dagli sguardi, dagli argomenti toccati e in quelli evitati, dalle espressioni dei visi, dal linguaggio non verbale. Come nei momenti che precedono i duelli dentro i film di Sergio Leone ognuno è preparato per il peggio e così quando non succede niente e si arriva alla fine senza morti e feriti, coi figli e i nipoti che, ignari, si coccolano i propri regali, dici a te stesso che è andata, che hai attraversato un campo minato uscendone incolume. 
Ma il compiacimento che ti concedi mentre, in pigiama e pantofole, osservi la Citrosodina sciogliersi nel bicchiere d'acqua s'infrange subito contro la dura realtà. 
Domani, dopodomani e il giorno dopo ancora si torna in scena. 
Non ce la puoi fare.

lunedì 23 dicembre 2013

Saxon, Unplugged and strung up

Dopo aver virato la boa dei trent'anni di carriera e dei venti album pubblicati, l'ultimo dei quali, Sacrifice, uscito ad inizio 2013, i Saxon: "defender of the metal faith"e primi alfieri della nwobhm, si concedono un cadeau, un piccolo lusso superfluo per celebrare la propria storia.
Spesso è stato chiesto alla band di tentare la strada della riproposizione del repertorio insieme ad un orchestra o, al contrario, ma sempre assecondando dinamiche ormai acquisite in ambito rock, quella delle rivisitazioni acustiche dei propri titoli. Ebbene, Byford e Quinn (unici superstiti della formazione originale), in un unico colpo esaudiscono le richieste per entrambi i canoni. E non si limitano a quello.
Unplugged and strung up infatti si divide tra brani riarrangiati con'orchestra, pezzi acustici, ma anche tracce remixate o risuonate (in versione elettrica) per l'occasione.
Il risultato è sicuramente degno d'attenzione, anche per la scelta, azzeccata a mio modo di vedere, di selezionare, tra le quattordici canzoni che compongono la tracklist, molto materiale fuori dalla golden age del gruppo: pezzi molto amati dai fans ma considerati minori dal resto del pubblico. Per fare un esempio, dagli album che formano l'epica trilogia 1980/1981 (Wheels of steel; Strong arm of the law; Denim and leather ) non è estratta traccia alcuna.
L'album è aperto da una versione  remixata di Stallions of the highway, anno domini 1979, proveniente dall'esordio dei Sassoni, tipico sound dell'epoca che per l'occasione indossa il vestito buono facendo un figurone. A seguire una manciata di (cinque) pezzi in versione orchestrale, dai quali emergono una straripante versione di The eagle has landed e un'intensa Call to arms (dal disco omonimo di due anni fa), forse l'interpretazione in cui l'innesto degli archi è più efficace. Nel complesso, la strumentazione aggiuntiva viene usata forse con troppa parsimonia: avendo a disposizione un'intera orchestra, per una volta, avrei osato di più.  Forever free (dall'album omonimo) e Just let me rock (da Crusaders),appositamente  ri-registrate, fanno da cuscinetto al successivo lotto di canzoni acustiche senza regalare particolari emozioni rispetto alle versioni originali.
La conclusiva sezione unplugged comprende invece quattro pezzi: Iron wheels (canzone da centauri che fungerebbe da perfetto commento alle immagini di Sons of Anarchy); Requiem; Frozen Raimbow e l'intensa Coming home.



L'impressione finale è che la band si sia voluta togliere in un colpo solo lo sfizio di rivisitare il proprio sound, ma che l'abbia fatto con poco coraggio e investendoci poca passione. Ognuno dei due lotti principali che compongono Unplugged and strung up avrebbe potuto essere dilatato e approfondito meglio. Così invece abbiamo tra le mani un dischetto divertente ma che nulla aggiunge (ne toglie) all'epopea del combo inglese.



Per i completisti dell'album esiste anche una versione con un cd in più, contenente i maggiori successi dei primi anni dei Saxon.

6,5



sabato 21 dicembre 2013

Chronicles 38

Febbre, influenza, ritorno al lavoro, ricaduta e persistenza di sintomi influenzali. Questa in sommi capi la mia situazione delle ultime due settimane. Ancora oggi il mal di gola si è talmente affezionato a me da non voler lasciarmi. 
Oltre al pessimo bollettino medico, l'altra consuetudine stagionale è la sindrome della tredicesima. Di cosa si tratta? E' presto detto. In corrispondenza dell'unica occasione dell'anno in cui la busta paga è un pò più pesante (nemmeno tantissimo, alla fine) mi capita la spesa imprevista che azzera l'aumento della retribuzione mensile. La ruota della sfiga, a sto giro, si è fermata sull'auto, manifestandosi sotto forma di un guasto all'alimentazione e di un finestrino elettrico che si è bloccato (ovviamente in posizione di aperto). Il preventivo totale si aggira sui cinquecento. 
Ma potrebbe andare peggio. 
Potrebbe piovere. 
Infatti piove, anche dentro la mia macchina.

venerdì 20 dicembre 2013

The Temperance Movement, omonimo


L'unico dubbio riguarda la sincerità dell'operazione. Già perché gli scozzesi The Themperance Movement (ragione sociale presa in prestito da un'associazione di morigerati precursori del proibizionismo vissuti nell'800) presi così sono un'ottima, a tratti esaltante, band di rock anni settanta con decise influenze di musica nera ed efficaicissime divagazioni southern, rhythm and blues, swamp.
Se vi vengono in mente i Black Crowes direi che ci siamo, quella dei fratelli Robinson è sicuramente l'influenza primaria del combo: il tris iniziale di pezzi è in questo senso inequivocabile e nonostante lo stile derivativo non vi è dubbio che Only friend, Ain't no telling e Pride siano tre brani estremamente validi, che non sfigurerebbero affatto  nella magnifica trilogia iniziale di album dei Corvi Neri.
Ma ai ragazzi (o ai loro pigmalioni, chi lo sa...) piacciono anche i Creedence Clerarwater Revival e lo si capisce in maniera evidente da interpretazioni quali Be lucky e Midnight black, che esaltano ancora una volta la voce, perfetta per il genere,ma anche sufficientemente versatile, del cantante Phil Campbell.
Tra incursioni nell'errebì bianco (Take it back) e lunghe ballate elettriche (la conclusiva Serenity) l'album non mostra momenti di cedimento,anzi, tiene botta bene e ci illude che una nuova stella possa essere nata. 
Il dilemma resta, e per un appassionato rock che si sforza di rimanere un pò ingenuo non è elemento da poco: quanta urgenza artistica e quanta programmazione a tavolino ci sono in operazioni come queste? Solo il tempo saprà dirci se i Temperance Momement finiranno nel grosso calderone delle giovani band revivaliste che si afflosciano dopo un paio di dischi o se gli scozzesi raccoglieranno l'eredità dei grandi gruppi dei novanta, oggi un pò col fiatone. 
Solo per questa ragione mi tengo basso con la valutazione, perché per quanto concerne l'assiduità degli ascolti, l'album è invece in altissima rotazione.

7/10

mercoledì 18 dicembre 2013

Mad Men, season 1


Con Mad Men aggiungo un altro tassello a completamento di quel mosaico di grandi serie tv e grandi personaggi che non possono mancare nella videoteca di un serial-alcoholic. Videoteca nella quale Don Draper, interpretato da Jon Hamm,  deve avere un posto di primissimo piano. Bello, affascinante, di successo. Don vive il posto, il tempo e il lavoro tra i più cool del secolo: New York, 1960, pubblicitario per la Sterling Cooper (una delle maggiori agenzie americane).
I neonati anni sessanta rappresenteranno per gli USA  il decennio che probabilmente più di ogni altro stravolgerà costume, politica, arte, cultura, nonchè consumi di massa e  il gruppo di creativi alla SC quest'atmosfera la respira a pieni polmoni senza curarsi di nascondere al mondo la propria posizione di privilegio, anzi sbandierando con orgoglio il proprio ruolo centrale sugli enormi cambiamenti in arrivo.
Il primo episodio è spettacolare. Lo smalto che ricopre la vita e l'attività di Don è qui espresso al massimo del suo accattivante colore, ma già nelle puntate successive, mano a mano che la storia dipanerà le sue matasse, penetreremo, grattandola via un po' per volta, quella superfice di apparente benessere, per scoprire sotto di essa fitti strati di infelicità, turbamenti ed insoddisfazioni radicate praticamente in ogni singolo protagonista di questo spicchio di commedia della vita.
Devo dire che non tutta la stagione (tredici episodi) si mantiene a livelli di eccellenza, in particolare ho notato qualche caduta di tono in alcuni dialoghi e alcune situazioni, ma accantonando per un attimo il protagonista assoluto (Draper) e focalizzandoci ad esempio sull'inquietudine che attanaglia la moglie (Betty / January Jones) o la brama di emergere tipica delle classi più povere, incarnata magistralmente da Peggy Olson/Elizabeth Moss  o anche, e scusate se lascio emergere la parte maschile del recensore, sulla bellezza giunonica di Joan Holloway/Christina Hendricks, direi che il saldo è ampiamente in attivo.
Con tempo e pazienza darò la scalata alle (molte) stagioni successive.

lunedì 16 dicembre 2013

Austin Lucas, Stay Reckless


In Austin Lucas sono riposte molte delle speranze del country indipendente americano. Curioso, vista la storia e l'immagine del ragazzo (in parte riassunte nella mia recensione al suo album precedente), che non essendosi formato a Nashville o a San Antonio ma nell'Europa dell'est e che presentandosi sovrappeso e con lo sguardo smarrito, non potrebbe essere più lontano dall'iconografia classica del country hero. Poco male, anzi, per il sottoscritto, che fugge dai Big Jim con Stetson preconfezionati dell'industria U.S.A., queste anomalie rappresentano valori aggiunti.
Così come è un'anomalia (ed un valore) il fatto che Lucas risponda alle enormi aspettative dell'ambiente country con il suo disco che meno rispetta gli steccati della redneck music. Stay reckless è infatti decisamente più rock-folk oriented di quanto fosse lecito aspettarsi, mentre non ci sono sorprese di sorta in merito alla bravura di Austin come songwriter, che qui viene confermata in tutta la sua versatilità.

L'album è aperto Let me in, un folk-rock arioso che con qualcosina di meno saprebbe di Byrds e con qualcosina di più potrebbe oscillare tra REM e Heartbreakers. Il country elettrico fa capolino nel successivo Alone in Memphis, brano dalle potenzialità commerciali esplosive che purtroppo non delfagreranno appieno fino a quando, ahimè, della canzone non sarà proposta una versione patinata dalla Taylor Swift di turno. Four wheels è una love songs con tutte le parole al posto giusto e un bel violino a fare da fiocco rosso, mentre Small town heart recupera l'energia del classico midtempo rock, con tanto di tastiere a sostenere l'intreccio melodico.
L'album si muove per tutta la sua durata all'interno di una delicata commistione tra i generi da highways americane, mostrando la capacità del musicista nel passare da un canone all'altro, come ben dimostrano il rock di Save it for yourself, Stay reckless e So much more than lonely e l'intimismo di Gift and gamblers e della conclusiva Splinters.

In conclusione una prova che, pur non riuscendo nell'obiettivo di sfondare definitivamente nell'olimpo del real country, conferma il talento di un'artista che, evidentemente, non ha tra le sue priorità quella di essere accondiscendente o prevedibile rispetto alle proprie scelte musicali.
 
7,5/10

giovedì 12 dicembre 2013

Il rosso e il blu


Stavo elaborando questa recensione partendo da una sinossi del film, poi mi sono accorto che di questa pellicola, che mostra in modo (forse un pò troppo) diligente gli esseri umani ai due lati opposti della cattedra, mostrandone limiti, aspettative, ambizioni e delusioni, l'aspetto che alla fine mi ha colpito in maniera fulminante è stato l'interpretazione di Roberto Herlitzka. 
Intendiamoci, il film nel complesso non è sgradevole:  personalmente non ho gradito l'approfondimento di un paio di storylines degli alunni tra il drammatico e il patetico, ma, insomma, la fotografia che viene fuori della scuola pubblica italiana, tra mancanza di strumenti didattici, corpo insegnanti abbandonato a se stesso e svagatezza degli studenti è abbastanza a fuoco, anche se non nuovissima. 
Però, ogni qual volta appare Herlitzka, nei panni di un vecchio professore di storia dell'arte stanco, annoiato, acido, sarcastico e intrattabile, il film svolta. Si sale di livello. Il suo contributo alla pellicola è qualcosa di talmente incantevole e sublime, che ti fa vergognare profondamente di non ricordare il suo viso o il suo nome in produzioni cinematografiche passate e che ti impone l'impegno morale di un recupero.

lunedì 9 dicembre 2013

Hank III, Brothers of the 4 x 4

Sono passati sessantacinque giorni dal primo ottobre, data di pubblicazione di Brothers of the 4x4. In questi tempi di continuo e frenetico turnover di ascolti due mesi abbondanti  di ascolto assiduo rappresentano un lasso di tempo enorme, ma io non ne avrei disdegnato ancora un pò, prima di cimentarmi in questa recensione. Perché Hank Shelton Williams in questi anni è diventato IL mio eroe musicale e il trattamento che riservo ai miei eroi musicali è, storicamente, un approfondimento maniacale, quasi compulsivo, di ogni lavoro che sfornano, a maggior ragione se la loro ultima fatica era stata una mezza delusione.

Da cosa inizio? Beh, innanzitutto questa release va presa come un'arrogante dimostrazione di forza, attraverso la quale il suo autore mette in chiaro la sua capacità di spaziare su ogni singola sfumatura dell'universo country, interpretandola sempre in modo eccellente. Per fare un parallelo, se James Newsted si è sentito in diritto di pubblicare un album dal titolo Heavy Metal Music, H3 avrebbe potuto tranquillamente chiamare questo lavoro Redneck Music, visto che i sedici pezzi (per novanta minuti di durata, distribuiti su due compact disc) che compongono l'opera non si pongono, nel contesto musicale dato, nessun recinto di sottogenere.
Un altro aspetto, ben evidenziato dall'accurata review di Saving country music, è dato da come Williams 3rd abbia orientato i suoi sforzi più sull'aspetto prettamente musicale del progetto piuttosto che sulle liriche. Questa lettura balza all'orecchio già dalla traccia d'apertura Nearly gone, che tende ai nove minuti di durata e che fa della parte strumentale il suo punto di forza, con violino e accordion a trainare un'interminabile giga western che reitera quell' "I don't know", già tormentone del pezzo omonimo, sul debutto Rasin' outlaw del 1999.

Un altro elemento che risulta evidente dall'ascolto dell'opening track e confermata dalle note a corredo del disco, è come Hank continui ad affidarsi a registrazioni domestiche (presso l'Haunted Ranch) che conferiscono una (non esasperata) patina lo-fi al suono dei pezzi, patina che avvolge come una foschia anche tracce dall'altrimenti elevato potenziale commerciale, come l'honky tonk di Hurtin' for certin o il vorticoso country grass della title track. Quello che emerge invece in modo cristallino,  a prescindere dalla qualità delle registrazioni, è invece la bellezza abbagliante di un pezzo come Farthest away, primo lento del disco e prima eccezione alla regola sopra descritta sull'egemonia della parte strumentale rispetto al songwriting. Il tema è quello ampiamente abusato della fine di una relazione, ma proprio per questo è incredibile come l'autore riesca comunque a colpire al cuore l'ascoltatore attraverso l'utilizzo di immagini mai così intime.

Conoscendo l'artista non vi è da sorprendersi se a Farthest away fa seguito il pezzo invece più volgare e greve (ma anche, vivaddio, divertente) dell'album. Parlo di Held up, il cui ritornello ha scandalizzato molti non adepti al culto di Hank 3. E' vero, un passaggio come: "and I love that sweet southern smell of Virginia's vagina" (non credo necessiti di traduzione...) non è il massimo del bon ton, ma voi benpensanti che fate quelle smorfie disgustate con chi pensavate di avere a che fare, Keith Urban?!?

Dal punto di vista delle tematiche, posto che l'argomento principe resta quello dell'insofferenza rispetto a leggi e governi nonchè della vita spericolata, c'è da rilevare più di un'incursione in una sorta di ecologia in salsa western, rappresentato dall'allontanamento da civiltà e tecnologia e dall'avvicinamento a esistenze spartane a stretto contatto con la natura più incontaminata. Vanno in questa direzione due splendide composizioni che arricchiscono lo spettro musicale del disco: Outdoor plan (composta insieme a Eddie Pleasant), introdotta da una tromba che ne impreziosisce la tessitura (e peccato che Hank si sia lasciato sfuggire l'opportunità di un'improvvisazione di questo strumento sulla coda del pezzo, che a mio avviso sarebbe caduta a fagiolo) e, soprattutto, Possum in a tree, la dimostrazione più efficace di quanto questo Williams sappia riproporre magistralmente il canone che ha reso il nonno l'icona country che tuttora continua ad essere.

Tra le altre cose, non ho controllato nel dettaglio, ma sono abbastanza certo del fatto che questo disco contenga anche i pezzi mediamente più lunghi della produzione williamsiana: otto su sedici superano i sei minuti e solo tre restano sotto la soglia dei quattro. Anche questo, al di là di ogni critica (anche giusta) e di ogni polemica, dà la misura dell'incontenibile urgenza espressiva che continua a scuotere Hank: un'urgenza che rappresenta probabilmente l'elemento di maggior fidelizzazione con i suoi fans.

Concludo l'analisi di alcune delle tracce segnalando Ain't broken down, altro lento irresistibile che ha il suo alter ego in Broken boogie, pezzo che ne riprende il tema in salsa veloce, con una coda strumentale sorprendentemente direstraitsiana, e un'irresistibile Toothpickin' (ravanando con lo stuzzicadenti? WTF Hank?!?), che si candida autorevolmente ad essere la Throwing out of the bar degli anni dieci.

In conclusione tiro un sospiro di sollievo per come la carriera dell'outlaw si sia rimessa in carreggiata dopo il mezzo passo falso di Ghost to a ghost (anche se già il suo doppelganger cajun/psichedelico Guttertown lasciava ben sperare) e arrivo a dire che probabilmente Brothers of the 4x4 qualitativamente se la gioca ad armi pari con Damn right rebel proud, album del 2008 di poco inferiore all'epocale Straight to hell. Di più rispetto a quella release ha una migliore media d'eccellenza dei pezzi, in meno i picchi qualitativi che in quel disco erano contenuti, visto che qui manca una Candidate for suicide, una 3 shades of black, una Long hauls & close calls o una P.F.F. (beh, in realtà una P.F.F. c'è: si tratta di Lookey yonder commin', evidente caso di autoplagio, visto l'impiego della stessa struttura musicale e della medesima metrica di quel brano). Si può affermare che Brothers of the 4x4 sia un pò il disco della maturità musicale di Hank, con l'avvertenza che in questo caso non necessariamente maturità coincide con massima espressione artistica. Di certo parliamo di un lavoro nel quale le diverse anime country dell'artista trovano un loro felice equilibrio

Il voto finale è dunque alto, condizionato però da un punto di non irrilevante critica. In questi tempi di downloading selvaggio e illegale non è più accettabile acquistare un prodotto originale dal packaging spartano come quello di BOT4X4, privo com'è di libretto allegato, testi e con le note ridotte al minimo indispensabile. Questo non è spirito punk, mr Williams, ma imperdonabile sciatteria e di certo si sposa male con l'attenzione che normalmente dimostra verso i fans.

8 -




P.S. Non finisce qui. A presto, per la recensione di A fiendish threat, capitolo cowpunk/psychobilly delle nuove avventure di Hank III.


venerdì 6 dicembre 2013

80 minuti di Those Poor Bastards

Sono estremamente orgoglioso di presentare la playlist monografica odierna. Già, perché i Those Poor Bastards non sono esattamente una band facile da riassumere in una manciata di canzoni. Non sono una band facile da nessun punto di vista, per la verità. Capitanati dal prolifico Lonesome Wyatt (protagonista parallelamente di una corposa attività solista e di recente anche scrittore) i TPB inventano il cosiddetto gothic country: redneck music barocca, obliqua e spesso inquietante, assolutamente originale e riconoscibile sin dalle prime note. La band è poco presente in rete: non ha nè un profilo su wikipedia nè un vero e proprio sito (occupa giusto qualche pagina su quello della label Tribulation Recordings). Questo nonostante sia attiva, con sei album e altrettanti EP, da una decina d'anni. 
Per loro parla esclusivamente la musica. E da oggi questa antologia.

1. Glory amen
2. They don't make folks like they used to
3. Swallowed by sin
4. Old pine box
5. Sick & alone
6. Pills I took
7. Fear
8. God damned me
9. Wealth is dead
10. Crooked man
11. He of clooven hoof
12. I walk the line
13. Evil on my mind 
14. The dust storm
15. Behold black sheep
16. This world is evil
17. The accident
18. Stay away fron the forest boy
19. My beautiful knife
20. A curse
21. Family graveyard
22. Chemical church
23. These are hard times

mercoledì 4 dicembre 2013

Movielist #3 (1988/1997)

Eccoci dunque (dopo il primo e il secondo capitolo) al terzo decennio di film della vita. Si va dal 1988 al 1997 e qui la mia fame di cinema si fa insaziabile: tra pellicole recuperate grazie all'introduzione in casa del videoregistratore e frequentazione assiduo-compulsiva delle sale, vedo la media di un film al giorno. Ne consegue che i titoli si moltiplicano e la scelta si fa sempre più ardua, al punto che in molti casi s'imporrebbe l'ex aequo, condizione purtroppo non prevista dalle regole del gioco.

1988
A memoria ricordavo molti più titoli degni di citazione per quest'anno, ma evidentemente sbagliavo. Nella categoria commedia mi sono piaciuti Un pesce di nome Wanda e Piccolo diavolo di Benigni. Verdone rilascia il suo film più amaro: Compagni di scuola. Colors potrebbe essere il solito cliché sulla coppia poliziotto giovane (Sean Penn) e poliziotto anziano (Rober Duvall) ma a mio avviso si spinge oltre e l'olandese Amsterdamned percorre con autorevolezza la via europea al noir. Ma se c'è una ragione per la quale vorrei ancora oggi abbracciare forte Giuseppe Tornatore, beh ecco, risponde al nome di Nuovo Cinema Paradiso.

1989
Il film più citato in quel periodo dalla mia comitiva? Marrakech Express di Salvatores ("erano aaanniii che non mi divertivo così"), e non fosse altro che per questa nota nostalgica si aggiudica il prize dell'anno. Ma non dimentico il Batman di Burton, Fà la cosa giusta di Lee, Drugstore cowboy di Van Sant, l'epocale Harry ti presento Sally, il corrosivo La guerra dei Roses e il piccolo ma affascinante Mystery train.

1990
Quei bravi ragazzi. Con menzione d'onore per Turnè, ancora Salvatores, con dei grandissimi Bentivoglio, Abatantuono e Laura Morante.

1991
Il gioco si fa peso. Pensavo fosse amore e invece era un calesse è un gioiellino delicato, dove Troisi trova un magico, irripetibile equilibrio tra sentimento e commedia. Restando sul fronte italiano, Benigni inventa un character che resterà nella memoria di tutti: Johnny Stecchino. D'oltreoceano arrivano però JFK (Stone); Point Break (Bigelow); Thelma & Louise (R. Scott); e il crudo Whore (di Ken Russell con Theresa Russell). Dall'Irlanda, mio posto dell'anima, Alan Parker ci parla di musica ed emarginazione con The Commitments. A chi va la palma di vincitore? Il silenzio degli innocenti di Demme.

1992
L'esordio,  tra Shakespeare e Fernando Di Leo, di Quentin Tarantino: Le Iene.

1993
Procedendo in ordine alfabetico, già alla lettera C sono colto dall'empasse: 6 Gradi di separazione; America oggi; Buon compleanno Mr Grape; Caro Diario. Non è finita qui: Philadelphia, Shindler's list, Nel nome del padre e Una vita al massimo (sceneggiato da Tarantino, e si vede). Da inguaribile innamorato dei gangster movie, scelgo Carlito's way, con un Al Pacino definitivo.

1994
Ancora Tarantino. Scusate la ripetitività, ma Pulp Fiction non è derogabile. Nemmeno da quel piccolo capolavoro di cinismo,anarchia e cattiveria che risponde al nome di Blown Away, da quella dichiarazione d'amore verso il cinema che è Ed Wood, dal delirio psichedelico di Natural Born Killers (anche qui c'è lo zampino di Quentin) o da Forrest Gump.
 
1995
Altra grande annata per quello che concerne la mia videoteca del cuore. Grandi thriller/noir come Piccoli omicidi tra amici; Cosa fare a Denver quando sei morto; Copycat; Seven e I soliti sospetti. Il film più equilibrato e straziante sulla pena di morte (Dead man walking); uno dei massimi capolavori di Disney/Pixar (Toy Story) e il delizioso Smoke. Ma io sono ancora oggi affascinato dal talento della Bigelow, che con Strange Days ha raggiunto il suo apice visionario e violento.
 
1996
Con Scream Wes Craven rovescia come un calzino tutti i cliché horror, riuscendo incredibilmente a far ridere e terrorizzare a morte. Verdone con Sono pazzo di Iris Blond fa uno dei suoi film più delicati e completi. I Cohen ci danno in pasto il capolavoro Fargo e Cronenberg con Crash continua a vivisezionare il corpo umano per veicolare la propria arte. I tossici scozzesi di Trainspotting lasciano un segno profondo sull'immaginario collettivo e sulla cultura popolare. Ognuno di questi film potrebbe ambire ad essere premiato, però la mia scelta va a Io ballo da sola di Bertolucci per ragioni emotive che per una volta non starò ad approfondire.
 
1997
E' l'anno di Titanic che, comunque la si pensi, è grande cinema. Lo stesso dicasi per Benigni e il suo discusso La vita è bella (film che a scanso di equivoci, ho adorato). Poi Boogie nights; Carne Tremula; Donnie Brasco (l'ultimo grande titolo sulla mafia americana?); Face/Off; il terrificante Funny Games; il Tarantino minore ma per il sottoscritto sempre convincente di Jackie Brown; l'esordio su grande schermo dell'opera di James Ellroy, il mio scrittore preferito, con L.A. Confidential; Will Hunting; gli italiani Ovosodo e In barca a vela contromano. Può sembrare una scelta snob, ma vi prego di credere alla mia integrità di appassionato se metto davanti a tutti  Gattaca e il suo futuro alternativo spietato, credibile e assolutamente realistico.


lunedì 2 dicembre 2013

Joe Buck Yourself, Who dat? (2012)


Escono talmente a fari spenti i dischi di Jim Finkley aka Joe Buck Yourself che il rischio di perderseli è più che elevato. Questo Who dat? per esempio è stato rilasciato alla fine del 2012, proprio quando avevo appena scoperto, e apprezzato, il precedente Piss and vinegar (del 2011), senza che me ne fossi minimamente accorto. 

Rispetto a quel lavoro l'artista del Tennessee modifica in maniera sostanziale il suo approccio alla composizione, non tanto dal punto di vista dello stile, che continua a muoversi dalle parti di un personalissimo psychobilly, ma piuttosto per il raggiungimento di una diversa maturità artistica che gli consente di diminuire un pò la velocità delle esecuzioni e l'asprezza delle tematiche, entrambe fin qui orientate a senso unico verso nichilismo, aggressività e deriva esistenziale. 
Non che quegli spunti, così cari a tutta la scena indipendente che parte dal country per addentrarsi nel territori musicali più paludosi degli stati americani del sud, venga del tutto a mancare: tracce come Hellbound o When evil comes to town sono in questo senso classici wild bites, ma in compenso aumentano i momenti più articolati e meno rabbiosi, come ad esempio l'opener Blood river, la meravigliosa Tango of death, Genocide con il suo controcanto in falsetto  e la title track, probabilmente il pezzo più riuscito del disco, a cavallo com'è tra rockabilly e swing anni cinquanta. Jesus is dead si raccorda invece con la tradizione country grass pre-bellica della canzone religiosa, il tutto ovviamente coniugato con la "sensibilità" di mr. Finkley che non inficia messaggio e risultato, ma che anzi, ne amplifica la valenza.

Who dat? rappresenta un passo importante nella carriera artistica di Joe Buck Yourself, perchè ci dice in maniera esplicita che dietro alle attitudini da bad guy e le oltraggiose pose da punk di questo artista c'è dell'altro. C'è un urgenza comunicativa che non si accontenta (più) di scalciare e sputare ma tenta di catturare l'attenzione dell'ascoltatore attraverso composizioni più mature e accessibili che comunque stanno sempre dentro un perimetro di orgogliosa indipendenza. Un altro tassello di una carriera minore ma all'insegna di un'invidiabile libertà artistica e personale.




sabato 30 novembre 2013

Chronicles 37

Soltanto un anno fa lasciavo deflagrare liberamente la mia gioia, alla notizia delle dimissioni da presidente del consiglio di Berlusconi. Oggi nemmeno una riga di commento a fronte di un evento molto più rilevante: la sua decadenza da senatore. A cosa si deve questa indifferenza? Beh, innanzitutto ad un generale allontanamento dai temi della politica. Chi segue questo blog da un pò di tempo sa che i primi anni il post d'attualità politica periodicamente saltava fuori, ma da quando quella che dovrebbe essere la mia rappresentanza in parlamento ha deciso di stupirmi con colpi di scena ed effetti speciali, i miei idealismi sono andati a farsi benedire e con essi ogni ispirazione a scrivere. 
E il cavaliere, anche lui fonte inesauribile di ispirazione? Vale il discorso testè fatto. Oltre alla considerazione che questo ventennio abbia indubbiamente logorato fino allo sfinimento noi e non lui, unita alla certezza che comunque non ce lo siamo definitivamente tolti dalle palle. 
Resta la speranza che, senza l'immunità parlamentare, magari un bel giorno prenda armi, bagagli e olgettine e se ne vada in un paese tropicale dove non ci siano accordi di estradizione. Non Hammamet però, che porta male.

venerdì 29 novembre 2013

MFT, novembre 2013

MUSICA

Austin LucasStay Reckless
Hank III, Brothers of the 4x4
Hank III, A fiendish threat
Pearl Jam, Lighting bolt
Jonathan Wilson, Fanfare
Calibro 35, Traditori di tutti
Motorhead, Aftershock
Nine Inch Nails, Hesitation marks
Joe Buck, Who dat?
Omar Soulyman, Wenu wenu
The Bastard Suns, Here comes the suns
Saxon, Unplugged and strong up
Zac Brown Band, 80 minuti

VISIONI

Homeland, terza stagione
Sons of Anarchy, sesta
The newsroom, prima
The walking dead, quarta







mercoledì 27 novembre 2013

Breaking Bad, final season

 
Quanti piccoli Walter White albergano in ognuno di noi? Quanta insoddisfazione coviamo mentre svolgiamo diligentemente un lavoro che detestiamo? Quanta frustrazione alimentiamo quotidianamente nel vedere persone completamente prive di talento raggiungere invece fama e successo?  Quanto siamo persuasi che sia solo la sfortuna ad averci impedito di raggiungere, meritatamente, quei successi? Che, anzi, quei successi fossero nostri di diritto?  
All'inizio di Breaking Bad Walter White (quello originale) è un uomo esattamente così. Ci viene presentato come una persona dimessa, umile, posata. Fa il professore in una high school che s'intuisce non essere prestigiosissima, ma per mantenere moglie, figlio adolescente disabile e nuovo nascituro in arrivo, al pomeriggio si presta al secondo lavoro in un autolavaggio, dove gli tocca, a volte, subire l'umiliazione di lucidare l'auto sportiva ai suoi alunni benestanti. Il rapporto con la consorte Skyler è entrato in quella routine che conosciamo bene. La presenza dell'altro diventa una confortante abitudine. Si prepara la cena, si parla del tempo, si va a dormire. I rapporti sessuali sono ormai rari, fugaci e quasi distratti.
Fin qui White è uno di noi. Perché a cinquant'anni è tempo di accantonare i sogni di gioventù e badare al sodo. Al sostentamento dei propri cari. Al loro futuro.
 
Poi la storia cambia (per fortuna, sennò sai che palle un serial pari pari sulla tua vita). A Walter viene diagnosticato un cancro ai polmoni, il che, nella società americana, significa due cose: 1) senza un'adeguata (cioè costosissima) assicurazione sanitaria non avere accesso alle opportune cure 2) lasciare questa valle di lacrime con la tua famiglia indebitata fino al collo.
E allora ecco che la terribile malattia fa da innesco, gira l'interruttore, attiva la parola in codice che risveglia la cellula dormiente che albergava dentro il protagonista. Ecco che, prima in maniera maldestra, poi sempre più autorevolmente, l'imbranato ma geniale professore di chimica fa venire fuori il suo (a tratti) mostruoso alter-ego. Lo fa sfogare fino a giungere a veri e propri deliri di onnipotenza. Fino a prendersi tutte le rivincite della vita e anche oltre. Per cinque stagioni questo moderno Mr. Hyde s'infuria con la moglie perché non capisce come la sua opera sia unicamente orientata a garantire il benessere della famiglia.
 
Solo alla fine, prima di attuare il suo ultimo piano suicida , davanti ad una Skyler quasi avvizzita, letteralmente consumata dai tremendi eventi che l'hanno travolta, confessa, in quell'impeto di sincerità proprio dei condannati a morte, la verità che fino a quel momento aveva negato anche a se stesso: ha fatto tutto per se stesso. Ha sempre fatto tutto per se stesso. Perché gli piaceva. Perché era dannatamente bravo in quello che faceva. Perché si era finalmente realizzato in un'impresa talmente grande da fare spavento.
E in ultima analisi viene da chiedersi se, negli ultimi istanti della sua vita, W.W. abbia trovato più conforto nell'ultima, sofferta carezza sul viso della figlia addormentata nella culla oppure nello sfiorare (accarezzare...) uno dei suoi strumenti, all'interno di un laboratorio clandestino di meths, mentre le sirene in sottofondo annunciavano l'arrivo della polizia. Le stesse sirene che, facendo da prologo al primo episodio, sancivano la morte simbolica del vecchio professore di chimica salutando la progressiva ascesa del nuovo re del crimine, ne accompagnano dunque l'ultima azione.
Folle e lucidissima. Fredda e passionale. Crudele e compassionevole.
Proprio come Walter White.

lunedì 25 novembre 2013

Volbeat live, Trezzo sull'Adda (MI), 11/10/2013 (2/2)




link alla prima parte del post


L'attacco è per Halleluiah goat e non aspettavamo altro. Mi butto nella mischia del pogo difendendomi e aggredendo, salto e canto facendo leva con le mani e coi gomiti sulle altrui schiene sudate ma devo guardarmi alle spalle per resistere ad un paio di cariche assassine. Nel marasma generale mi sembra di scorgere uno spettatore vestito da maialino rosa. Eppure non ho assunto sostanze stupefacenti.
Guitar gangster and Cadillac blood viene accolta da un boato, così come Radio girl, ma è con The nameless one che le ugule si scaldano sul serio, per poi buttare il cuore oltre l'ostacolo con l'attesissima Sad man's tongue, anello di congiunzione tra metal e traditional country, non a caso introdotta dalla prima strofa e dal ritornello di Ring of fire di Johnny Cash, offerta in sacrificio al pubblico. A proposito del man in black, vorrei far notare che la metrica del ritornello di Sad man's tongue, nel punto finale in cui fa "Out from a sad man's tongue" si adatta perfettamente a quel "on down to San Antone" che conclude la strofa di Folsom Prison. Vabè, cose mie.

Tornando al pit, ormai nella bolgia ho perso di vista Filippo e un po' temo per la sua incolumità (scherzo, ma nemmeno tanto). Il tizio vestito da maiale rosa esiste veramente, ad un certo punto fa anche stage diving: non oso pensare in che condizioni siano le sue ascelle, sotto tutta quella pelliccia sintetica.

Si capisce che il danese Michael Poulsen,cantante, chitarrista e frontman della band, si senta completamente a suo agio sulle assi del palco. Non si danna granchè, i movimenti sono limitati allo scambio di microfoni con i pards ai suoi lati, ma in compenso sono frequenti gli scambi con il pubblico e  in uno di questi prende spunto dalla partita di calcio tra Danimarca e Italia (2 - 2) che si è da poco conclusa, per ribadire che tanto, per i presenti, la vera religione è il metal, non certo il calcio.

Michael Poulsen Volbeat concerto @ Live Club Trezzo Milano, 11 Ottobre 2013 - Foto by Paolo Bianco

La mia scorta di resistenza fisica al pogo si è intanto esaurita ed è tempo che arretri di qualche fila. In una situazione di maggior calma (ma senza smettere di cantare) comincio a guardare la band nel suo complesso, di certo i membri non rispondono a nessun dress-code precostituito: Poulsen è agghindato da cantante country/rock 'n' roll da anni cinquanta; Caggiano,berretto calato in testa, è come se fosse ancora negli Slayer e nel 1987, bassista (altra bella sagoma) e batterista sfoggiano invece look così casual da risultare anonimi.

                     

Dopo il tripudio canterino di Sad man's tongue, un gruppo normale avrebbe campato di rendita per una decina di minuti almeno, infilando magari nella setlist il pezzo più ostico del proprio repertorio. Questi qui invece fanno partire Lola Montez, e anche chi era arretrato per riposare le stanche membra ha uno scatto d'orgoglio ed è lì sotto ad intonare strofe (la prima è ripetuta due volte) e ritornelli. Un trionfo senza mezzi termini. E siamo solo all'inizio dello show. Su Heaven nor hell decido di allontanarmi per vedere come se la passa il Sindaco, strategicamente piazzato lontano dalla ressa, su un piano rialzato posto dal lato opposto del palco. Lo ritrovo gaudente e concentrato sullo show, ma faccio appena in tempo a scambiare con lui uno sguardo di assenso che sento Poulsen annunciare 16 Dollars, uno dei miei pezzi preferiti, e devo riguadagnare una posizione di favore nel pit per godermela congruamente. Non sarà facile ma riuscirò nell'impresa.
La gig si avvia alla breve sosta pre-bis con una versione trascinante di Maybellene I hofteholder, nella quale, ancora una volta, il ruolo del pubblico è determinante. Lo sanno bene i presenti che al momento giusto si esaltano echeggiando come fossero un sol uomo il testo: "Dance forever my only one" con la band che smette per un attimo di suonare per enfatizzare ancora di più il coro.

A questo punto entriamo in una fase del concerto che scoprirò poi essere consuetudine per i Volbeat. Ho denominato questa parte: "cazzeggio da sala prove", in quanto il gruppo si comporta come si fa nei momenti di relax durante le lunghe permanenze negli studi, suonando o semplicemente accennando riff di pezzi altrui. In questo caso la jam è ovviamente un tributo d'amore al metal, in tutte le sue influenze storiche. Il copione prevede che Michael chieda al pubblico quale canzone vorrebbe ascoltare, poi non capisco se la scelta cada o meno su una richiesta reale, ma  ecco che parte l'epocale Breaking the law, dei Judas Priest, interpretata fino al chorus. Stessa sorte, ma in misura molto più concisa, spetta poi a Keine lust dei Rammstein, Raining blood degli Slayer (per l'occasione il cantante si infila la maglietta del combo di thrash metal di uno spettatore delle prime file), al riff iniziale di Run to the hills degli Iron Maiden, per concludersi con un accenno ad Evelyn, proveniente dal repertorio Volbeat, e cantata originariamente in stile growling insieme a Mark Greenway dei Napalm Death.


Quando ormai tutti dipendiamo letteralmente da loro, ecco partire la tanto attesa Still counting, vera apoteosi del singalong. I Volbeat sono consapevoli del potere del pezzo e lasciano che sia il pubblico a cantare  l'incipit. "Counting all the assholes in the room / Well, I'm definetely not alone...". Appena termina questa parte acustica quasi reggaeggiante, la band prende a picchiare e non vorresti essere in nessuna altra parte al mondo se non lì, a scatenarti, nonostante la drammatica situazione delle tue estremità pilifere, in un liberatorio headbanging e a rischiare felicemente i denti in mezzo a gente che non hai mai visto prima e che, probabilmente, mai rivedrai in futuro. 

Arriva la pausa prima dei bis e l'accogliamo tutti con lo stesso sollievo di una pisciata per strada dopo una colossale bevuta di birra. Non credete a quanti urlano "fuori! fuori!", nessuno avrebbe potuto resistere un minuto di più. Quei bastardi dei Volbeat però hanno deciso di massacrarci e perseguono l'obiettivo fino in fondo, tornando quasi subito sul palco. Per fortuna (per quello che mi riguarda) con una doppietta che non mi coinvolge più di tanto: Doc Holliday e Another day another way. 
Ma chiaramente non può finire così, e infatti l'attacco di I only wanna be with you (pezzo portato al successo da Dusty Springfield) mi ridona all'istante entusiasmo ed energia, il singalong "oh-oh-oooh-oooh-oh-oh" farebbe ululare di gioia anche i morti e lo stesso vale per il titolo della canzone, che fa da sontuoso cumshot collettivo ad ogni ritornello. 
Come un treno merci senza freni arriva anche, in tutta la sua prepotenza, Pool of booze booze booza e miglior suggello alla serata non potrebbe esserci. Beh, in realtà avrei pagato per ascoltare la versione di I'm so lonely I could cry di Hank Williams registrata su Guitar gangster & Cadillac blood, ma si parla di sogni irrealizzabili e quindi sì, nel mondo reale non esiste una chiusura di concerto migliore di questa.

Provando a fare una sintesi seria della setlist, emerge che la band è opportunamente sfuggita alla regola non scritta che prevede d'infarcire la serata di brani dell'ultimissimo album, orientandosi però chiaramente al repertorio più recente, se è vero che ben 14 pezzi sui 19 presentati provengono dagli ultimi tre dischi dei Volbeat. 

Dal punto di vista emozionale invece la serata è stata pressochè perfetta, al punto che, invece di andare a casa, avresti voluto caricarti gli amici in macchina per un terzo tempo in qualunque postaccio di strada, a fare l'alba tra chiacchere, vino e cibo scadente. 
Sarà per la prossima volta.


N.D.R. : Tutte le foto usate nel post, provengono dal sito soundsblog.it e sono di Paolo Bianco

venerdì 22 novembre 2013

80 minuti di Justin Townes Earle

Non fosse stato figlio di Steve Earle, una delle mie principali icone musicali, avrei probabilmente cominciato a seguire Justin Townes molto prima. Sì, lo ammetto, sono prevenuto nei confronti dei figli che seguono l'ambito artistico dei genitori. M'è sempre parsa una dinamica insincera, prevedibile e slegata da ogni reale urgenza creativa, giustificata solo dall'essere alternativa a cercarsi un lavoro vero fuori dalle influenza paterne (o materne). Non mi sembra, fino ad oggi, che questa convinzione mi abbia fatto perdere chissà che, ma ovviamente anche per la più solida delle regole esistono delle eccezioni.
Justin Townes Earle è una di queste, e anche bella grossa.
 
J.T., classe 1982 (parte del suo nome lo deve alla fraterna amicizia del padre con il grande folksinger Townes Van Zandt) ha cominciato a seguire il papà in tour non ancora maggiorenne, facendo esperienza attraverso qualche estemporanea ospitata sul palco dove si è esibito alla chitarra. Esordisce nel 2007 con l'EP Yuma,  al quale faranno seguito altri quattro full-lenght (l'ultimo dei quali recensito qui).
Dal punto di vista squisitamente artistico, attraverso i suoi lavori Earle jr si è guadagnato una solida reputazione negli ambienti che apprezzano la musica delle radici e lontana dal mainstream, sia essa cantautoriale, west-coast o legato alle mille sfumature del country. Uno dei suoi pezzi più emozionanti, They killed Joe Henry, riprende, laddove Pete Seeger l'aveva lasciata, la storia dell'operaio di fonderia John Henry e del suo simbolico martello, icona proletaria di un'altra epoca.
Insomma, un altro ragazzaccio da tenersi stretto stretto.
 
 

1. Harlem river blues
2. They killed John Henry
3. Yuma
4. Mama's eyes
5. The good life
6. Halfway to Jackson
7. Memphis in the rain
8. Unfortunately Anna
9. Ain't glad I'm leavin'
10. Baby's got a bad idea
11. One more night in Brooklin
12. Hard livin'
13. Am I that lonely tonight
14. Maria
15. Look the other way
16. Move over mama
17. Ain't waitin'
18. Black eyed Suzy
19. Midnight at the movies
20. Rogers park
21. Maybe baby (Buddy Holly cover)
22. Harlem river blues reprise

mercoledì 20 novembre 2013

I Puffi 2


Per quanto concerne la scelta dei film, con Stefano siamo entrati in una classica fase di transizione: non riusciamo ad abbandonare del tutto quelli più infantili e allo stesso tempo tentiamo di approdare a quelli dai contenuti un pelino più adulti (diciamo entro il divieto ai dodici anni). In questo caso abbiamo ceduto ad un classico prodotto per bambini in età prescolare, che probabilmente ricorderemo solo per questo fatto: potrebbe trattarsi per l'appunto dell'ultimo di un filone che stiamo abbandonando.
Anche se devo confessarvi che gli omini blu di Peyo, nella loro versione  in tecnica mista e computer grafica (già ammirate nella pellicola precedente) sono assolutamente deliziosi.
O almeno così sostiene Stefano.

lunedì 18 novembre 2013

AA/VV, Ghost brothers of Darkland County


Avevo lasciato John Mellencamp dopo la release di No better than this, un album che, col tempo, si è rivelato nella sua straordinaria bellezza e con un concerto, il primo del coguaro sull'italico suolo, che ha lasciato invece un pò di amaro in bocca.
Lo ritrovo a coronare un progetto al quale stava lavorando da più di dieci anni: Ghost brothers of darkland county, un musical di genere thriller scritto da Stephen King e prodotto da T-Bone Burnette, per il quale Mellencamp ha scritto la colonna sonora.
La particolarità sta nel fatto che l'artista dell'Indiana (con la complicità del produttore Burnette, suppongo), per la prima volta, si sia tirato da parte, regalando i suoi pezzi  ad altri artisti, tra i migliori interpreti del genere americana, sforzandosi di costruire moods che deviassero dal suo consolidato stile musicale per adattarsi alle caratteristiche degli ospiti.
L'album, che ha lo stesso titolo del musical, si avvale dunque del contributo di gente come Elvis Costello, Neko Case, Dave e Phil Alvin, Sheryll Crow, Ryan Bingham, Kris Kristofferson, Taj Mahal e Rosanne Cash, mentre, a fare da intermezzo tra una traccia e la successiva, si possono ascoltare alcuni brevi dialoghi dello spettacolo.

La qualità del lavoro non è costante, ma raggiunge picchi notevoli, quando il songwriting riesce a conciliarsi con l'interprete di turno, come nel caso dell'old time swing di That's me (Costello), che apre la parte musicale della tracklist. Il graditissimo ripescaggio di Neko Case è celebrato con uno degli estratti dal brand più mellecampiano dell'intera raccolta: l'ottima That's who I am. Ryan Bingham fa un pò Bob Dylan anni sessanta su Brotherly love mentre l'inconfondibile southern accent di Kristofferson impreziosisce How many days. Il delicato country folk Home again,  regalata a Sheryll Crown (coadiuvata dai fratelli Alvin e dalla leggenda Taj Mahal) è probabilmente il mio pezzo preferito. La voce di John Mellencamp, insieme a quella della singer Madeleine Jurkiewicz, arriva solo in conclusione, con la suggestiva Truth.

Il soundtrack di Ghost brothers of darkland è sicuramente un progetto interessante, non fosse altro per il numero e lo spessore degli artisti coinvolti nel progetto. John Mellencamp con l'età sarà anche diventato più sgorbutico, ma conferma di attraversare un periodo di grande ispirazione, che, sommato al viscerale amore per la musica delle origini, gli permette di sfornare dischi mai banali. Lo aspettiamo non senza impazienza alla prossima prova.

7,5/10

venerdì 15 novembre 2013

80 Minuti di Zac Brown Band

La compilation monografica di oggi apre un trittico di raccolte che mi stanno molto a cuore. Le playlist avranno tutte a tema quel pezzo di americana più legato alle tradizioni country-folk e ai loro mille rivoli espressivi. Inizio con la Zac Brown Band, combo che origina da un country sincero ed appassionato ma che poi non si pone steccati stilistici, dotato com'è di un eccellente songwriting nonchè di un songbook (dal 2004 cinque album, di cui i primi due autoprodotti) composto da pezzi che riescono a conciliare personalità e appeal radiofonico.
 
Ma quello che, nel tempo, ha permesso alla band di fare il salto di qualità e di posizionarsi in alto nelle preferenze degli amanti della musica vera, sono le esibizioni dal vivo, dove il gruppo capitanato da Zac Brown si inserisce perfettamente nel solco tracciato da band come i Grateful Dead, i Phish o i Wilco, formazioni  cioè che suonano per il piacere di farlo, e a questo scopo non si fanno troppi problemi ad accantonare il proprio repertorio per interpretare pezzi degli altri. Scorrendo le setlist della ZBB sono evidenti questi tributi, peraltro trasversali ai generi, attuati attraverso cover dei Metallica come di Van Morrison, dei Led Zeppelin come di Glen Miller, di James Taylor come  della Marshall Tucker Band.
O come della Charlie Daniels Band, la cui The devil went to Georgia è diventata da tempo un classico dei concerti del combo.
Ladies and gentleman, la Zac Brown Band:


1. Toes
2. Uncaged
3. Keep me in mind
4. No hurry
5. Chicken fried
6. Day that i die (feat. Amos Lee)
7. Whatever it is
8. Knee deep (feat. Jimmy Buffett)
9. The wind
10. Highway 20 ride
11. Quite your mind
12. Goodbye in her eyes
13. It's not ok
14. As she walking away (feat. Alan Jackson)
15. Jump right in
16. Sweet Annie
17. Whiskey's gone
18. Free
19. Colder weather
20. The devil went down to Georgia (cover della Charlie Daniels Band)

mercoledì 13 novembre 2013

The last Jam

A quasi vent'anni dalla sua uscita nelle edicole, con il numero 207, chiude Jam, rivista musicale che si occupa(va) di rock (termine come sempre da considerare in senso ampio) d'annata e dei grandi interpreti di questo sconfinato bacino musicale e culturale.
In tutta onestà non sono mai stato un lettore fedele della pubblicazione, l'ho sempre comprata occasionalmente, preferendogli in genere, quando volevo leggere qualcosa che andasse a pescare in quel contesto lì, il Buscadero o il Mucchio Extra (inarrivabile nella sua eccellenza).
Nonostante ciò, sarà per il mio approccio dinosaurico al rock, ho sempre guardato alla rivista con sincero rispetto, in cuor mio felice che nelle edicole (e quindi nell'interesse di qualcuno) esistesse un giornale che si occupasse di quel target a me tanto caro.

Mi rendo conto che oggi, tra crisi globale, difficoltà ad intercettare risorse dalla pubblicità, sovraffollamento del segmento specifico old style (le corazzate Rolling Stone e Classic Rock, le piccole ma appassionate Classix e Classix Metal nonchè le recenti conversioni tematiche di progetti storici come Blow up) e contrazione del mercato, resistere con una rivista di questo tipo sia diventato ai limiti dell'impossibile. 
Infatti Jam conclude la sua storia nelle edicole. 
Nell'editoriale del direttore si conferma invece la continuità della versione on-line della rivista.

Per quello che vale ho ritenuto di salutare questa avventura editoriale acquistando l'ultimo numero, malinconico ma orgogliosamente celebrativo, rappresentato in copertina da un famoso scatto di Jim Morrison e dal richiamo alla celeberrima The End dei suoi Doors.

Goodbye and hello.