martedì 22 giugno 2021

Thunder, All the right noises


Strabilianti Thunder. La band londinese battezza il trentaduesimo anno di attività con un album che attesta uno stato di forma impressionante. La carriera discografica dei nostri si può sostanzialmente dividere in due sezioni: la prima, dagli esordi (con Backstreet symphony, del 1989), quando proponeva un ottimo melodic hard rock tutto sommato in linea con il mainstream hard & heavy imperante, accompagnato però da una non comune autenticità nelle esibizioni dal vivo (probabilmente l'ho già raccontato: li ho visti aprire per gli Extreme nel 1992 e mi entusiasmarono in maniera nettamente superiore rispetto agli allora lanciatissimi americani), fase questa che si interruppe nel 2008 con la band in quella che sembrava essere una definitiva traiettoria calante. 
Invece, dopo una iato di circa sette anni, nella quale i due leader, Bowes alla voce e Morley all'ascia, hanno continuato in coppia a registrare dischi e fare concerti, il grande ritorno con Wonder days e, in soli sei anni, una serie complessiva di quattro album in studio (tutti recensiti sul blog sotto il tag "Thunder"e svariati dal vivo, nonchè, elemento più importante, un'inarrestabile crescita qualitativa che probabilmente trova il suo apice proprio con questo All the right noises.

Oramai l'autostima e la consapevolezza acquisita dal gruppo gli permette una tale libertà compositiva da, pur muovendo dall'hard rock di stampo britannico, non porsi steccati stilistici dentro al proprio agire artistico. 
E' così che le sontuose cornici dei cori femminili di matrice soul, le tastiere, le atmosfere squisitamente acustiche, abbinate all'ugola di Danny Bowes che, sembra una frase fatta, ma davvero migliora col tempo, ci consegnano un disco di musica "vecchia" di una bellezza abbacinante. 
Cosa non è, per scendere nella declinazione dei brani, Last one out turn off the lights, opener del disco? Una goduriosa restaurazione dei riff del Led Zeppelin che tramortisce in abbinata ad una sezione cori che avrebbe fatto godere Wilson Pickett. Un vero e proprio insperato portento musicale che, stilisticamente, in qualche modo fa scopa con la conclusiva She's a millionairess
In mezzo altre nove canzoni (per una tracklist totale di undici pezzi, per quarantotto minuti) che spaziano armoniosamente dall'evocativa Destruction (contenente la linea di testo del titolo: They're making all the right noises / But they don't really know), da lasciar sedimentare e crescere di ascolto in ascolto, alla classica Thunder-ballad I'll be the one, al rock and roll party You're gonna be my girl giù giù fino alla "motivazionale" Don't forget to live before you die
Come di consueto, dentro un disco che non vuole certo essere politico, i Thunder perseverano nel non trascurare i temi sociali, che qui regalano cittadinanza e parole a chi si è trovato (improvvisamente?) ai margini della società e non capisce nemmeno chi incolpare, attraverso la magnifica The smoking gun
Di Bowes ho detto, cosa aggiungere della chitarra di Morley? Precisa, scientifica, emozionante e mai "sborona", vera e propria architrave del sound della band.

Capisco bene che oggi la musica vada da un'altra parte, ma chi dice di amare il rock classico e non si fionda su questo lavoro dovrebbe far pace con sè stesso.

giovedì 17 giugno 2021

Comedians (2021)

Un gruppo di sei persone, aspiranti comici, si prepara ad affrontare un'audizione dopo aver frequentato un corso serale con Eddie Barni, ex comico di successo dalle idee molto controcorrente rispetto al tipo di comicità mainstream e televisiva. Le convinzioni del gruppo, che Barni ha plasmato sulle sue, vacillano nel momento in cui arriva Celli, anche lui ex comico, ma "inserito nel sistema", in aperto conflitto con le posizioni di Barni.

Girato nel pieno della scorsa pandemia, sostanzialmente in un ambiente e mezzo (l'aula di una scuola e un piccolo club) a Trieste, Comedians è il ritorno al cinema di Gabriele Salvatores che porta in scena, attualizzandola, una piece teatrale di Trevor Griffiths
Il film, completato in meno di un mese, mantiene l'impostazione teatrale, con i monologhi mediamente lunghi degli attori e il frequente ricorso ai piani sequenza, ma riesce ad ottenere un crescendo e una tensione tipici dello strumento cinematografico. 
Un plauso quindi al regista, non solo per l'indiscussa abilità nella messa in scena ma anche per la scelta del cast, e in particolar modo per le prove di Natalino Balasso (Eddie Barni), Marco "Nick Cave" Bonadei (Sam) e, soprattutto, Giulio Pranno (Giulio Zappa). La prova di questo giovane (22 anni) attore, già con Salvatores in Tutto il mio folle amore,  è stata da qualche parte criticata in quanto eccessivamente carica e sopra le righe, a mio avviso invece è proprio il personaggio (anarchico e anticonformista) a ricercare costantemente la provocazione e l'eccesso e pertanto, in questo, la recitazione di Pranno è perfettamente consona al contesto. 
Adeguate, ma non superlative, anche le prove del duo Ale e Franz (i fratelli Marri) e di Cristian De Sica (Celli), che ogni qual volta si esprime in un ruolo serio sembra alla prova della vita, ma che a me è sembrato in parte ma senza gridare al miracolo.

Quanto mai attuale ed opportuna infine, nonostante il testo originale sia dei primi anni settanta, la riflessione su cosa debba essere la comicità, che rapporto debba costruire col pubblico e la funzione sociale che debba esercitare. In un periodo nel quale anche in Italia si è scoperta l'arte dello stand up comedy, con risultati spesso sconsolanti e battute che girano sempre attorno al solito tema (i rapporti tra i due sessi), Comedians spicca in maniera intellettuale, divertente (anche se non è un film "da ride"), provocatoria e stimolante. 

E poi, un film italiano che inizia (Rain dogs) e finisce (Downtown train) con due pezzi di Tom Waits è promosso a prescindere.


lunedì 14 giugno 2021

Maneskin, Teatro d'ira vol I



Lo strano caso dei Maneskin. Uno dei fenomeni musicali che più genera paranoie nella critica, al punto da sembrare colta dalla sindrome morettiana (Ecce bombo), per cui, parafrasando: "mi si noterà di più se ne parlo bene o se ne parlo male"? Comunque, mai come in questo caso l'importante è parlarne. 
Strano caso, anche perchè raramente si è visto l'armamentario di tutto quello che è convenzionalmente considerato rock in Italia (da Vasco ad Agnelli passando per Pelù) prodursi in endorsement così sfacciati a favore di questi quattro ragazzi, contrapponendosi ai salotti buoni, e a quelli dei social, che invece, tendenzialmente, li stroncano.

Chi invece li attendeva senza pregiudizi alla prova del secondo lavoro, dopo il botto di Sanremo e dell'Eurofestival grazie al brano Zitti e buoni, probabilmente dovrà attendere ancora un pò. Questo Teatro d'ira vol.1 infatti non scioglie i dubbi sul reale valore del gruppo, che, quando scende dal palco (la dimensione dove evidentemente è più a suo agio dimostrando effettivamente un'attitudine e una maturità "molto poco italiana" che va ben oltre la giovane età dei componenti, in particolar modo per il frontman, Damiano) ha evidenti problemi di scrittura e creazione complessiva delle composizioni. Infatti, tolto il singolo trionfatore delle manifestazioni di cui sopra, un ottimo pezzo glam-rock, ruffiano ma ruvido, e poco altro (Coraline), il livello cala paurosamente, tra pezzi che magari vorrebbero essere punk ma appaiono scolastici (I wanna be your slave) e pattern vocali che flirtano in maniera poco convincente con il rap (Lividi sui gomiti), con un utilizzo forzato, insincero (almeno per un matusa come me) di epiteti e slang giovanilistici vari. Certo, ci sono i chitarroni e, soprattutto a queste latitudini, di questi tempi, i chitarroni fanno sempre piacere (soprattutto in ambito mainstream), nella speranza che tornino a fare "tendenza", però, ecco, senza voler fare gli snob a tutti i costi che si scandalizzano perchè i Maneskin arrivano dai talent e non si sono "sudati" la ribalta, consiglierei alla band di trovarsi songwriter e produttori artistici che gli consentano il definitivo salto di qualità.

giovedì 10 giugno 2021

Un altro giro (2020)

Gentofte, Danimarca. Quattro amici, colleghi insegnanti delle superiori, diversi tra loro, ma tutti disillusi e resi cinici dalla vita sia dal punto vita personale/sociale che da quello professionale, vengono affascinati dalla teoria di uno psicologo relativa al presunto deficit alcolico dello 0,05% dell'organismo umano, deficit che inficerebbe prestazioni e umore di ciascuno e che, pertanto, andrebbe compensato. I quattro decidono di sperimentare su sè stessi la teoria, cominciando ad assumere dosi minime quotidiane di alcol, con risultati, almeno inizialmente, estremamente efficaci.

Un altro giro, di Thomas Vinterberg (co-firmatario, assieme a Von Trier del progetto Dogma 95 e autore di alcune opere rilevanti, come Festen e Il sospetto) è un film che ha creato una vasta hype, e non solo per la vittoria ai recenti Oscar. Molto ho letto e quasi sempre in termini positivi su quest'opera, al punto che, essendo invece io uscito dalla sala (sì, dalla sala!) un pò perplesso, a posteriori ho maturato la convinzione che forse dovrei rivederlo per farmi un'idea più compiuta. Nondimeno provo a scrivere la mia impressione.
Il tema toccato, quello dell'uso e dell'abuso di alcol, è estremamente delicato e, anche se leggo in giro che in realtà si tratta di una metafora o che l'argomento è trattato senza ipocrisia o buonismo (non sia mai essere buonisti in questa fase storica, un virus peggio del covid!), a me qualche dubbio sovviene, a partire dalle sequenze che fanno da prologo al film, con una folle gara alcolica che a quanto pare i giovani del luogo sono soliti compiere, fino all'atto prefinale dell'esame del ragazzo insicuro che viene superato brillantemente - piccolo spoiler - grazie a generosi sorsi di vodka. 
Insomma, in una società nella quale si abbassa sempre più l'età in cui i giovani cominciano a trangugiare superalcolici, forse (e sottolineo forse) non proprio l'esempio da trasmettere. 
Anticipo la replica che potrei ricevere per questa critica: l'arte non deve (necessariamente) essere educativa, altrimenti cancelleremmo dalla storia tante espressioni artistiche radicali, trasgressive e anarchiche. L'argomento è sicuramente un punto a favore degli estimatori de Un altro giro, anche se, ne sono sicuro, i loro entusiasmi sono molto condizionati  dall'immancabile grande interpretazione di Mads Mikkelsen e dalla straordinaria forza del connubio musica/immagini della sequenza finale, che resta, quella sì, impressa a fuoco nella memoria.

lunedì 7 giugno 2021

Loretta Lynn, Still woman enough

 


Mi soffermo doverosamente, non avendolo mai fatto in precedenza, su una delle ultime leggende del country popolare (l'altra è Willie Nelson) ancora in vita. Loretta Lynn, classe 1932, ha avuto un'esistenza avventurosa, al punto da essere portata sul grande schermo con un film del 1980 (La ragazza di Nashville) che fece vincere un Oscar a Sissy Spacek proprio per l'interpretazione della Lynn.

La cantante nativa del Kentucky, caratterizzata nell'outfit con onnipresenti abiti colorati modello vecchio West, arriva alla soglia dei novant'anni con il suo quarantaseiesimo album ed è sempre grande l'attenzione che le riserva lo stardom nashvilliano.Infatti, come accade regolarmente almeno negli ultimi vent'anni (Van Lear Rose del 2004 fu prodotto da Jack White) anche quest'ultimo Still woman enough è infarcito di ospitate.

Lo schema dell'album riprende la formula "a geometria variabile" ormai consolidata, presentando un mix di brani di repertorio assieme a tracce inedite. Il titolo stesso dell'opera, che è anche la canzone che apre la tracklist, featuring Reba McEntire e Carrie Underwood,  è una sorta di replica a You ain't woman enough, canzone (anch'essa ripresa in coda a questo disco) e album che Loretta pubblicò nel 1966. Non credo serva mi dilunghi più di tanto sullo stile del disco: country classico, immortale, suonato da una lista di tre pagine dei migliori session men di Nashville. Tra le sette canzoni ripescate e reinterpretate dal repertorio della Lynn (il lotto di tredici pezzi si completa con un traditional e quattro inediti) spicca una versione totalmente spoken di Coal miner's daughter, forse il pezzo più identificativo della storia di questa vera e propria leggenda americana.