martedì 25 marzo 2014

James Ellroy, Il sangue è randagio


James Ellroy ha rischiato seriamente di impazzire mentre scriveva questo libro. Conoscendo l'autore e dopo aver letto il romanzo, non fatico a crederlo. 
Il sangue è randagio chiude, a quasi quindici anni dall'imperdibile American Tabloid e a otto dal validissimo Sei pezzi da mille, la Underworld USA Trilogy, sorta di biografia che copre vent'anni di storia della nazione più influente al mondo, dalla metà dei cinquanta agli inizi dei settanta, sotto il denominatore comune delle manovre paranoiche di J. Edgar Hoover, capo dell'F.B.I. per qualcosa come mezzo secolo.

C'è del vero nella critica che molti muovono a Ellroy (il mio scrittore preferito, nel caso a qualcuno non l'abbia ancora detto) in merito alla flessione delle sue opere, ma credo che molto dipenda dalle aspettative mostruose nei riguardi di uno che ha scritto pietre angolari della letteratura noir americana, come la trilogia del tenente Hopkins (Le strade dell'innocenza; Perché la notte; La collina dei suicidi) e la tetralogia di L.A. (Dalia nera; Il grande nulla; L.A. Confidential; White jazz), massimo esempio in cui il genere pulp si coniuga con il romanzo storico, oltre I miei luoghi oscuri, una delle più spietate e avvincenti autobiografie mai pubblicate

Scorrendo le pagine del romanzo il tormento passato dallo scrittore nel corso del processo creativo e gli alti e bassi dell'ispirazione attraversati durante gli otto anni di gestazione dello scritto balzano agli occhi di un lettore attento ed affezionato. 
Il sangue è randagio comincia male. Si riconoscono benissimo i meccanismi narrativi di Ellroy, ma è come se filtrassero attraverso una lente che ne deforma i connotati, rendendoli quasi una parodia degli spunti migliori dello scrittore. Ne deriva che la partenza mette a dura prova anche la fidelizzazione più tenace (come già testimoniato). Si riprendono i fili narrativi delle vite di Wayne Tedrow jr e Dwight Holly, rispettivamente alla loro seconda e terza apparizione, e dei loro rapporti con Howard Hughes e J.E. Hoover, si introduce soprattutto il personaggio di Don Crutchfield, tipologa ricorrente di character che riassume in sè diversi aspetti della gioventù border line di Ellroy stesso.
Superata questa prima fase un pò zoppicante, nella sua ampia parte centrale il libro ingrana, in corrispondenza con i tentativi di mafia e F.B.I. di trovare un porto sicuro per riciclare i soldi sporchi una e continuare a reprimere la nascente minaccia comunista in quella zona geografica gli altri, a seguito della caduta di Cuba e dell'avvento di Castro. La Repubblica Dominicana del dittatorello di turno e la spaventosamente povera Haiti danno in questo senso le garanzie giuste. E' qui che si torna ad appassionarsi all' Ellroy che ci aveva letteralmente stregato con il suo stile di scrittura, i suoi intrighi, la sua violenza, la feroce lucidità delle sue storie. Nell'ultima parte del romanzo purtroppo l'autore torna a smarrirsi, portando una storia complessa e stratificata ad una soluzione affrettata, poco convincente.

Ad ogni modo le traiettorie di Tedrow jr e Holly, tra doppi giochi e pericolosi ripensamenti morali, non tradiscono le migliori tradizioni di imprevedibilità di Ellroy, che qualcosa ha sicuramente insegnato a George R.R. Martin sull'essere spietato con le sue migliori creature. Meno a fuoco risultano i personaggi femminili, nonostante lo sforzo dello scrittore di riservargli un ruolo centrale, mentre il protagonista più emozionante, quello che meglio asseconda il processo di evoluzione ellroyano, è senza dubbio Don Crutchfield.


Un romanzo di James Ellroy è per me sempre un'esperienza totale. Un viaggio che lascia strascichi profondi anche diversi giorni dopo la sua conclusione e persino quando, come in questo caso, si rivela accidentato e dall'orientamento non sempre definito. Non capisco quanto il merito di questa affezione sia da attribuire al talento dell'autore e quanto invece ai semi dei suoi lavori migliori, germogliati e radicati nel mio immaginario. 
Certo è che con Il sangue randagio si chiude una fase creativa di James lunga quasi tre lustri. 
Quella che va ad aprirsi dovrà chiarire definitivamente se uno degli autori americani più grandi del nostro tempo, come lo definisce il L.A. Book Review, sappia tornare ai suoi fasti o rassegnarsi ad un dignitoso declino.



lunedì 17 marzo 2014

Level 42, Sirens (2013)


Dopo la sovraesposizione della seconda metà degli anni ottanta, i Level 42 sono scivolati progressivamente in quel limbo nel quale si sopravvive solo grazie ai ricordi dei fan più irriducibili. Tra defezioni e ritorni dei membri originali, hanno continuato a fare tour, ma hanno decisamente rallentato la produzione discografica, con un solo album negli ultimi venti anni (Retroglide, ne avevo parlato qui). E' per questo che, soprattutto per chi come il sottoscritto ritiene la band inglese tra le più meritevoli del panorama pop di quegli anni, una nuova release dei levels si segnala sempre come qualcosa di straordinario.
Sirens è uscito alla fine del 2013 e si presenta in teoria come un EP, ma in realtà del formato breve ha solo il numero dei brani, sei, mentre il timing si attesta vicino agli onorevolissimi quaranta minuti.
Il disco, prodotto e mixato da John Morales,  è un affascinante matrimonio tra le diverse sfumature che hanno storicamente caratterizzato il brand dei Level 42. C'è così spazio per il funk trainato dall'inconfondibile basso slappato di Mark King, ma anche per il pop, il funky-jazz, la fusion, la disco anni settanta, il falsetto di Mike Lindup: il tutto elegantemente cucinato da chef Morales che prepara un piatto che farebbe faville anche nei club più all'avanguardia di Londra.
 
Una bella lezione d'umiltà da parte di questi attempati veterani che di mollare il colpo non ne vogliono proprio sapere.

giovedì 13 marzo 2014

I più grandi di tutti

Locandina I più grandi di tutti

Se fossimo a Seattle e questo film fosse stato diretto magari da Cameron Crowe l'epopea della band dei Pluto si sarebbe conclusa con l'affermazione, tardiva ma sacrosanta, di un gruppo indie un po' sfigato ma capace di afferrare, quasi fuori tempo massimo, la seconda occasione e, ovviamente, il concerto che avrebbe sancito la loro reunion sarebbe stato trionfale e foriero per il gruppo di una nuova, entusiasmante, carriera musicale.
Qui però siamo a Rosignano Solvay, provincia di Livorno e, come nel resto del nostro paese, le band indipendenti hanno una prospettiva di vita simile a quella della mosca sotto il bicchiere: proprio come l'insetto, per un po' si agitano cercando di uscire, poi la stanchezza ha la meglio e si rassegnano a starsene lì ad attendere gli eventi.

Non è un film privo di difetti, I più grandi di tutti, ma è anche dotato, a mio avviso, di una sua personalità, ben espressa attraverso quella rassegnata, incazzosa e sopra le righe dei suoi protagonisti (gli ottimi Alessandro Roja e Marco Cocci; la sorpresa Dario Cappanera, autentico axeman nostrano, la spaesata Claudia Pandolfi).
Il tono disincantato con il quale Carlo Virzì (fratello di Paolo) si diverte a sovvertire i vari cliché, spesso preconfezionati, dietro al fenomeno delle rock band è probabilmente la carta vincente della storia. Non a caso i momenti più divertenti riguardano i flashback del gruppo al suo "apice" e lo stordito smarrimento dei vari plutos davanti alla mitologica ricostruzione della loro carriera fatta dal die hard fan/impresario (Corrado Fortuna) che li ha riuniti dopo tre lustri.
 
Nel vuoto cosmico di produzioni italiane sul tema, I più grandi di tutti si segnala, con irriverenza e senza prendersi troppo sul serio, quale buon esempio su come approcciare l'argomento musica indipendente e territorio nostrano.
Senza trascurare il fatto che i brani dei Pluto (uno su tutti: Vado al mare), composti appositamente per il film,  sono trascinanti e che le sequenze sui titoli di coda rappresentano un delizioso tocco finale.

lunedì 10 marzo 2014

Del mio tempo libero

Leggevo su Repubblica di mercoledì un'interessante inchiesta sull'ultima, ulteriore, rivoluzione dell'intrattenimento globale. Bel dispetto per quelli come me, che non si sono ancora del tutto abituati all'idea di avere musica, film e libri "liquidi" e compressi dentro al proprio hard disc, ed ora sono messi davanti alla prospettiva di ricominciare da capo.
Il futuro, un po' ce ne eravamo accorti anche noi giurassici, pare infatti sia nello streaming: PC, notebook, smartphone, una connessione veloce e il gioco è fatto. Puoi avere qualunque cosa mantenendo pressoché vergine il disco fisso del tuo computer. Restando nel legale, con un abbonamento mensile di una decina di euro puoi ascoltare con Spotify o Deezer (quasi) tutta la musica che vuoi e lo stesso puoi fare con film, serie tv e intrattenimento, grazie a piattaforme che stanno nascendo e sviluppandosi in fretta.
Ma, nonostante le apparenze, non è questo l'aspetto dell'inchiesta che mi ha colpito maggiormente. Della progressiva scomparsa dell'oggetto fisico mi sono già lagnato a sufficienza in passato. Alla fine cerco di godermi the best of both world, digitale e analogico, e mi sembra ormai di barcamenarmi anche piuttosto bene.
Il punto è invece l'aspetto che gli articoli hanno dedicato a come viene rivoluzionato il fattore tempo di ogni singolo individuo e dunque come, grazie alla possibilità di avere tutto l'intrattenimento desiderabile in qualunque momento lo si desideri, si possa ipotizzare un'esistenza no-stop, nella quale il sonno viene sacrificato sull'altare dell'offerta 24/7.
Anche in questo caso mi affranco dal pericolo veglia permanente, vista la mia scarsa resistenza a rimanere sveglio la sera, però è un fatto che se cedi anche solo un poco ai numerosi stimoli a cui sei sottoposto, sei posto davanti al dilemma di come suddividere la scarsa risorsa del tempo libero a tua disposizione per il numero di attività d'intrattenimento a cui vorresti dedicarti.
La ragione per la quale sto scrivendo un po' meno sul blog (mi ero ripromesso tre - quattro post a settimana, mi sto attestando intorno alla metà, rimanendo tuttavia fedele alla mia regola di evitare riempitivi copiaincollati come video, links o altrui scritti), oltre ad un periodo di scarsa ispirazione, è anche questa: sto leggendo di più (non ci voleva molto, visto che di recente mi ero attestato a livello zero), guardando più film e serial, ascoltando musica più per passione che per "dovere".
Non so se da un punto di vista di arricchimento personale sia più intellettualmente proficuo sforzarsi di scrivere qualcosa di decente a giorni alterni o immagazzinare quanta più cultura (per chi, come me, continua a ritenere tale musica pop, letteratura e cinema/fiction di qualità) possibile rimandando a tempi (e ispirazione) migliore ogni velleità creativa.
Per adesso mi accontento di pormi il quesito.

martedì 4 marzo 2014

A proposito di Davis


Già a partire dalla sequenza iniziale, che vede Oscar Isaac nei panni di Llewin Davis intonare un'intensa folk song (Hang me, oh hang me) nel silenzio straniante di un minuscolo club, A proposito di Davis si palesa come un piccolo film che, lasciato decantare, pretenderà un grande spazio nella parte affettiva del cervello, nel cuore e nella pancia. E' una sensazione che comincia a germogliare già sui titoli di coda e che si manifesta chiaramente mentre esci dal cinema e ti incammini per strada, sognante e per niente infastidito dalla fitta pioggia che cade leggera.

I fratelli Coen ritornano con un'opera che gratta lo smalto della superficie di mito di un luogo (Greenwich Village, NY) e di un periodo storico (i primi anni sessanta), nell'intento (raggiunto) di restituirgli coerenza e assemblare la giusta rievocazione attorno ad un movimento sociale, culturale e artistico tra i più rilevanti della storia recente.
Il film, liberamente ispirato alla storia del folk singer Dave Van Ronk, è un gioco continuo di rimandi e riferimenti, incanalati attraverso una fotografia fortemente suggestiva che utilizza immagini-icone indimenticabili (una su tutte: a Davis che si stringe nella giacca marrone lungo le strade di New York manca solo Suzy Ruotolo sottobraccio perché la rievocazione della copertina di Freewhin' di Dylan sia completa ). 

   

Lo splendido perdente Llewyn Davis è egli stesso, suo malgrado, una figura iconografica che conduce un'improbabile, cocciuta, del tutto personale battaglia contro la società, scavando quasi involontariamente nelle ipocrisie anche di quella più aperta e liberal. Una battaglia alimentata dall'adesione al comunismo e da una totale libertà personale e, di riflesso, artistica. Non cede a compromessi Llewyn, per arrivare alla notorietà, prende maledettamente sul serio la sua arte. La malinconia dei suoi pezzi se da una parte attrae dall'altra intimidisce l'ascoltatore e di certo non avvicina i manager dell'industria discografica, già allora cialtroni e interessati esclusivamente al lato commerciale della musica. Nel suo arrancare nella neve, custodia della chitarra nella mano destra, borsa a tracolla e scarpe di camoscio fradicie, diretto verso l'ennesima impietosa audizione, Davis mi ha ricordato un'altra immagine potente, quella della vecchina di Kurosawa superstite della bomba atomica, che, in Rapsodia in agosto, non si fa fermare dal vento che la flagella frontalmente e, armata solo di un ombrellino minuscolo che rischia costantemente di essere spazzato via, continua a camminare lenta ma inarrestabile verso la direzione che si è prefissata.

Il personaggio Llewyn Davis è talmente  efficace dal punto di vista comunicativo che, per una volta, distrae, direi quasi infastidisce la presenza dell'ennesimo character bizzarro affidato a John Goodman, attore feticcio dei Coen che di norma venero come una reliquia, ma che dovrebbe cominciare a pianificare una exit strategy da questi  ruoli costantemente fuori registro.

Tra le curiosità infine, mi ha quasi fatto cascare dalla sedia il tributo dei registi di Fargo al collega italiano Pappi Corsicato, il cui nome è affibbiato al gestore del Gaslight, locale nel quale Llewyn si esibisce e dove, nelle ultime sequenze del film, arriva un giovane arruffato con armonica e chitarra che si fa chiamare Bob Dylan.

Ho già usato questa iperbole, ma non me ne vengono di migliori: se è vero che a volte, sempre più raramente, un'opera artistica si rivela alla stessa stregua affettiva di un posto dell'anima, A proposito di Davis rientra a pieno diritto nella categoria. 
Un piccolo, grande film. 

E non vi ho parlato del gatto...

lunedì 3 marzo 2014

Clutch, Earth rocker (2013)


Un bel bagno d'umiltà. Ecco cosa rappresenta per me Earth rocker dei Clutch. Eh sì, perchè dopo tanti anni passati ad ascoltare (principalmente) rock in molte sue sfumature, ti illudi di essere ormai assunto al ruolo di enciclopedia vivente di questa musica, salvo poi trovarti davanti ad un disco stupefacente, suonato da una band che sta sul pezzo dagli anni novanta e che tu non avevi mai sentito e, giustamente, ti rendi conto che di strada da fare ne hai ancora tanta.
Dunque Earth rocker è il decimo album in vent'anni di questo combo del Maryland, che, per usare una terminologia calcistica, si muove tra le linee dei generi hard-rock/stoner con qualche guizzo di hardcore punk. Non è certo l'originalità la carta vincente dei Clutch, ma piuttosto la capacità di scrivere grandi pezzi e, soprattutto, l'autorevolezza nell'interpretarli, manifestata anche grazie al riconoscibilissimo marchio di fabbrica del singer Neil Fallon, dotato di un'ugula potente ma versatile.
Il lavoro è aperto da una doppietta che mette subito le carte sul tavolo: la title track e Crucial velocity sono robuste, energiche e propedeutiche a prenderti per mano e condurti giù, nella tana del bianconiglio Clutch. Più avanti l'armonica che serve l'incipit di D.C. Sound attak! è apparentemente scollegata dal resto del mood del disco ma in realtà si omogenizza in maniera perfetta al clima generale, a suo agio con l'hard rock d'annata che con il blues ha sempre flirtato. Il pezzo più sorprendente dell'opera è piazzato a metà e spacca la tracklist in due come Mosè col Mar Rosso: si tratta dell'incantevole Gone cold, lento notturno, d'enorme suggestione ed atmosfera, che molti ascoltatori hanno avvicinato alla produzione di dark singers come Tom Waits o Mark Lanegan, ma che personalmente mi sento d'associare maggiormente alla black music d'autore dei settanta. Poi si riprende a picchiare duro con The face e Oh, Isabella a stagliarsi sulla (ottima) parte conclusiva del lavoro.

A questo punto, per recuperare tempo e terreno perso,  aspettatevi una playlist monografica di questa nuova/vecchia, ottima band.