giovedì 29 aprile 2021

SeriaLmente parlando

Dopo un periodo di sostanziale alienazione dalle serie TV, con giusto qualche toccata e fuga ad una manciata di titoli, ma sempre e solo limitatamente alle prime stagioni (nell'arco temporale di due anni Strange things; Absentia; Broadchurch; Black Mirror; American gods; Farina; Sneaky Pete; Goliath), ho deciso di togliermi lo sfizio di andare a fondo di qualche produzione che da tempo amici e colleghi mi segnalavano. Le riassumo tutte qui, visto che non ho di che dilungarmi.


Suburra (tre stagioni 2017/2020 - conclusa). Una produzione che, dopo le eccellenze Romanzo criminale e Gomorra, segna un fragoroso passo indietro qualitativo nella serialità crime italiana, infatti nonostante il cast importante (Alessandro Borghi è indubbiamente uno degli attori migliori che abbiamo, Francesco Acquaroli si sta reinventando in maniera convincente, Nigro è bravo e la Gerini è in una fase di carriera sorprendente) il tessuto narrativo arranca costantemente, con l'apoteosi di inverosimiglianza dell'ultima stagione. Peccato.


Peaky Blinders (cinque stagioni 2013/2019 - sesta in attesa di conferma). La saga della famiglia criminale degli Shelby, ambientata a Birmingham nel dopoguerra del primo conflitto mondiale, è probabilmente la serie che più mi è stata caldeggiata da colleghi e conoscenti e che più si è rivelata una delusione, sotto ogni punto di vista. 
A partire dalla messa in scena, totalmente asservita al protagonista Cillian Murphy e al florilegio di primi piano a lui dedicati , nonchè resa ridondante dalla vana ricerca di un'epicità che si traduce unicamente nell'abuso dell'effetto slow motion (quante camminate dei blinders che procedono allineati coi cappotti neri svolazzanti ci siamo dovuti sorbire in cinque stagioni?) e, quindi, mai trovata. Il tutto insomma appare troppo precisino e fighetto per il contesto di sporcizia narrato, senza considerare che molti dei plot sono inverosimili, con situazioni disperate che vengono risolte in uno schiocco di dita in virtù di intuizioni che girano ben al largo dalla sospensione dell'incredulità. Salvo il tentativo di portare a conoscenza del grande pubblico la tragedia dei giovani che tornavano devastati dalle trincee, ma, nel complesso, non fosse stato per i cammeo del gangster ebreo interpretato da Tom Hardy non so se avrei resistito fino alla fine (della quarta stagione, perchè alla quinta ho rinunciato). 
Una roba da onanisti che ha l'unico merito (?) di aver in qualche modo condizionato i costumi (li vedete no, tutti quei tamarri coi tagli di capelli alla Shelbys e tutte quelle coppole da Peaky "fucking" Blinders in giro per le città?) e sdoganato Nick Cave (sua la Red right hand main motive della serie)  alla massa. Per i fan resta da capire se il recente evento drammatico della prematura dipartita di Helen McCory, che nella serie interpretava Polly, la tosta sorella del protagonista Thomas (e che nella vita reale era spostata con il collega Damien Lewis), condizionerà la realizzazione di una ulteriore stagione (che in ogni caso lascerei a voi).

Ozark (tre stagioni 2017/2020 - confermata la quarta). La vicenda della famiglia Byrde, il cui capofamiglia (Jason Bateman) è un genio della finanza che "lava" i soldi sporchi del cartello messicano della droga ha indubbiamente elementi di interesse non banali, tra i quali il costante stimolo al dibattito tra "bene" e "male", il pieno e consapevole coinvolgimento dei figli minorenni dei Byrde negli affari di famiglia ed infine, caratteristica poco evidenziata ma davvero rivoluzionaria, il taglio femminista della serie che, nonostante veda in Bateman il suo volto ufficiale, è decisamente virata sul woman-power, con una manciata di personaggi femminili intelligenti, spietati, indifesi, disperati e amorali, interpretati convincentemente da Laura Linney (Mrs Byrde); Lisa Emery (Darlene Snell); Janet McTeer (l'avvocata Helen Pierce) e la mia preferita Julia Garner (Ruth Langmore). E' quest'ultimo un aspetto che riesce a mettere in secondo piano alcune discutibili scelte di trama, qualche buco di sceneggiatura e story lines secondarie poco verosimili (vedi la vicenda Wyatt/Darlene della terza stagione). Non capirò mai la ragione per cui si debba insistere sull'ora di durata di ogni episodio quando le idee a disposizione suggerirebbero una maggiore sintesi. 


Better call Saul (cinque stagioni - sesta ed ultima in produzione). Il noto spin-off/prequel di Breaking bad, superata l'incredulità di vedere attori più vecchi di dieci anni interpretare sè stessi da giovani, è sicuramente un buon prodotto di intrattenimento, che ha i suoi punti di forza nell'appagare la nostalgia della conclusione della serie madre (nella top five delle migliori serie tv mai realizzate, a mio parere) riproponendo molti dei personaggi storici (oltre al mattatore Bob Odenkirk/Saul Goodman troviamo Mike Ehrmantraut/Jonathan Banks, Gus Fring/Giancarlo Esposito, Hector Salamanca/Mark Margolis) e nel ricreare "l'universo" BB. Non tutto fila liscio, le contraddizioni non mancano, ma, tutto sommato, il livello si mantiene medio-alto anche grazie al valore aggiunto di alcuni nuovi characters, come Kim Wexler (interpretata da Rhea Seehorn), Chuck McGill (Michael McKean), Nacho Varga (Michael Mando) o l'ultimo arrivato Lalo Salamanca (Tony Dalton). Personalmente mi piacerebbe si desse una definizione anche al fato di Saul Goodman nel tempo presente, durante la sua latitanza. I pochi minuti in bianco e nero che fanno da prologo ad ogni primo episodio stagionale rappresentano quel quid artistico in più della serie. Perchè non pensare ad un film sulla scia di El camino?

lunedì 26 aprile 2021

Ryan Adams, Wednesdays (2020)


Quando la parte di critica e pubblico più attenta ai fenomeni emergenti in ambito folk-rock  si è accorta di Ryan Adams, eravamo tra la fine degli anni novanta e i primi anni zero, in molti  pensavamo che questo ragazzo poco più che ventenne del North Carolina forse non avrebbe venduto vagonate di dischi, ma sarebbe potuto diventare un solido punto di riferimento per il genere americana. E, nonostante qualche ironia sull'assonanza quasi totale del nome con il rocker canadese Bryan Adams, per un pò così fu. Il buon Ryan per un ampio periodo di tempo si è dimostrato una penna instancabile e un artista prolificissimo, con tredici album in undici anni (dal 2000 al 2011), senza considerare i tre registrati con i Whiskeytown, prima della carriera solista. Al primo decennio ne è seguito un secondo decisamente più morigerato, con solo tre dischi di inediti (intervallati da un buon live e dalla bizzarra operazione con la quale Adams ha reinciso integralmente "1989" di Taylor Swift), di cui questo Wednesdays è l'ultimo, in ordine di tempo.

Purtroppo è successo anche dell'altro, molto più grave del fisiologico saliscendi dell'ispirazione artistica. Adams è stato infatti accusato da diverse donne, tra cui la ex moglie e, purtroppo, anche una ragazza minorenne, di aver usato un linguaggio sessualmente esplicito ed offensivo attraverso messaggi e post sui social e di aver ostacolato la carriera di alcune di queste donne dopo essere stato da loro rifiutato. Per quello che conta, l'FBI, che aveva aperto un'inchiesta, ha fatto cadere le accuse e Adams, che aveva negato gli addebiti, si è infine scusato per le sue azioni. 

Deve essere necessariamente stato questo l'ambito emotivo nel quale è maturato Wednesdays, album intimista nel quale l'artista si mette a nudo come raramente ha fatto in precedenza (e parliamo di uno che, con Love is hell, qualcosina di molto introspettivo ce l'aveva già consegnata) grazie a quella particolare forma di ispirazione che emerge solo dalla sofferenza e, presumo, dalla solitudine. I'm sorry and I love you in questo senso è pedagogica. La canzone, dentro un mood che rimanda direttamente alle cose acustiche di Neil Young nei primi settanta, è un'operazione a cuore aperto e una delle più belle composizioni di sempre sul tema: amante abbandonato che implora perdono. 

Il clima del lavoro è quasi esclusivamente acustico, con qualche rara eccezione (Birmingham; Dreaming you backwards) e la struttura è proprio quella classica d'altri tempi, quando la chitarra stendeva tappeti sonori minimali sopra i quali la voce del cantautore srotolava liriche pregnanti senza peraltro mai rinunciare a refrain incisivi (Neil Young, James Taylor, Bob Dylan, Paul Simon, Jackson Brown). Per mettere in piedi un'operazione di questa natura, solo in apparenza semplice, servono però canzoni di livello, e, dentro Wednesdays, questo aspetto non è mai in discussione, grazie a tracce che arricchiscono l'anima, come Poison & pain (forse la testimonianza più forte delle recenti controverse di Adams); Mamma; la title-track; Who is going to love me now if not you. 

Un disco connotato dalla struggente malinconia di un uomo, un artista, che, alla soglia dei cinquant'anni, forse qualche consuntivo ha cominciato prima a tracciarlo e poi a metterlo in musica, esponendosi ad una sorta di terapia pubblica dove, da una parte c'è lui, e dall'altra chi ha voglia di ascoltarlo. 

Non sono moltissimi purtroppo, e questo è un vero peccato.


P.S. Il disco è uscito solo in formato mp3 a dicembre 2020, per poi essere pubblicato anche sui supporti fisici a marzo 2021. Ecco spiegata la ragione delle due diverse cover.

giovedì 22 aprile 2021

Delitti perfetti (The legend of Barney Thomson), 2015


Barney Thomson si trascina stancamente con la sua vita di barbiere in un barber shop alla periferia di Glasgow nel quale è l'ultimo dei dipendenti. Saltuariamente assiste l'anziana madre, una donna anaffettiva e dedita al gioco e all'alcol. Un giorno, a seguito di un alterco con il figlio del proprietario, gestore del negozio, Barney ne provoca accidentalmente la morte e, per paura delle conseguenze, decide di chiedere aiuto alla madre per occultare il cadavere. Sfortuna vuole che la Polizia locale, e in particolare il detective Holdall, inglese trapiantato in Scozia, colleghino la sparizione del figlio del proprietario ad una serie di delitti seriali che da tempo stanno sconvolgendo la regione.

Segnalo molto volentieri questo piccolo film (dal grande cast), passato mi sembra del tutto inosservato, nel quale trionfa la migliore tradizione della black comedy inglese, grazie anche ad un trio di protagonisti (ma c'è anche James Cosmo, storico attore inglese che ha trovato la notorietà per il ruolo di Jeor Mormont ne Il trono di spade) che fanno a gara di bravura. Infatti, a fianco di un Robert Carlyle (anche regista) che si misura con un character consumato da frustrazione e autocontrollo, maramaldeggiano alla grande una quasi irriconoscibile Emma Thompson nel ruolo della madre di Barney, e, soprattutto, un attore per il quale stravedo: il massiccio Ray Winstone nel ruolo del detective inglese che non fa nulla per nascondere quanto detesti la Scozia (contraccambiato in questo dai locali), e che sarebbe anche il più bravo della squadra, non fosse per la feroce competizione con la zelante ed ottusa collega Robertson (Ashley Jensen) che gli annebbia la ragione. Detto della pigra e sbagliatissima scelta operata per il titolo italiano (aridanghete!), che anonimizza l'opera, soprattutto rispetto all'epico titolo originale (The legend of Barney Thomson), il film riesce ad essere estremamente godibile e divertente senza tuttavia esimersi dal mostrare le condizioni di abbandono e decadenza nelle quali versa la periferia scozzese, fotografata al pari di una città fantasma del vecchio west. Siamo quindi nel rigoroso rispetto  dell'assioma intrattenimento/messaggio politico-sociale proprio del miglior film di genere. 

Da recuperare.

Delitti perfetti è disponibile su Amazon Prime Video

lunedì 19 aprile 2021

It's never too late to mend: Galrand Jeffreys, Escape artist (1981)


Proseguo con i miei opportuni recuperi andando a ripescare un artista, forse più noto ed apprezzato dai grandi musicisti che dal pubblico, che in oltre cinquant'anni di carriera ha pubblicato "solo" una dozzina di dischi di studio, con una modalità di rilascio di nuovo materiale evidentemente ancora legata al momento di ispirazione e non al principio di saturazione del mercato.

Garland Jeffreys nasce a Brooklyn nel '43, da una coppia di genitori di origine afro/portoricana e, di conseguenza, vive in pieno le battaglie per l'emancipazione dei neri dei sessanta. Tuttavia, sebbene maturi una forte coscienza politica in quell'ambito, la sua non è una storia che si radica esclusivamente dentro il filone "black power" perchè, al contrario delle fonti di ispirazione di tanti artisti afroamericani suoi coetanei, la sua guida artistica gira attorno a Lou Reed (conosciuto nell'ambito dell'Università di Syracuse) e ai Velvet Underground. Dopo aver suonato nell'album di esordio di John Cale del 1969, l'anno dopo arriva anche il momento del suo debutto eponimo. Escape artist esce cinque dischi dopo, siamo nel 1981, restando, ancora oggi (Garland, pur centellinando le proprie uscite è ancora in attività), il suo disco più noto.

Ascoltare per la prima volta questo lavoro, dopo aver letto della sua biografia è un'esperienza straniante. Infatti, laddove ti aspetti contaminazioni di un certo tipo (black music, Velvet Underground, sperimentazione), ti trovi invece al cospetto di uno stile che spazia agevolmente dal pop al rhythm and blues; dal rock ai ritmi jamaicani. Insomma un'esperienza tutta da godere, nel momento in cui si entra in sintonia con essa e con il fatto che al termine di una canzone non sai assolutamente cosa ti aspetti con la successiva.

Certo, se vogliamo trovare delle analogie con i big ones, quella con lo stile di Elvis Costello è piuttosto evidente, anche se, per esempio, la Modern lovers che apre il lavoro potrebbe tranquillamente appartenere al repertorio più commerciale di Billy Joel, non fosse per un certo retrogusto intellettuale che la permea. Così come per R.O.C.K. ci si manifesta il sound di John Mellencamp (che, casualità, qualche anno dopo inciderà R.O.C.K. in the U.S.A.) e la bellissima Mystery kids, con i suoi "stop and go" profuma un pò dello Springsteen della prima svolta rock. 
L'album, dieci tracce, anche se nella versione CD la tracklist è allungata a quattrodici pezzi grazie alla presenza di un EP (Escapedes) posto in coda, lascia molto spazio anche ai ritmi caraibici, evidentemente una comfort zone per Garland, che asseconda il trattamento a cui gli Specials prima e i Clash poi hanno sottoposto dub, ska e reggae. Queste influenze emergono inizialmente con Christine (altro hit) per affondare decisamente il colpo con Graveyard rock, e deflagrare nelle canzoni dell'EP aggiuntivo, con tre pezzi su quattro che rivendicano a gran voce la loro provenienza giamaicana (Lover's walk, Miami Beach, We the people). E pensare che, ironia della vita, in questo melting pot di stili ed ispirazioni, il successo commerciale più rilevante di Jeffreys, 96 Tears, arriva grazie ad una cover della misconosciuta band "? And The Mysterians".

La lista di session men/ospiti nel disco è pressochè infinita ed eterogenea, a dimostrazione del rispetto che l'artista godeva in quel momento nella scena newyorkese. A titolo non esaustivo troviamo infatti, oltre alla produzione di Bob Clearmountain, i due tastieristi dell'allora E Street Band, il mai troppo compianto Danny Federici e Roy Bittan, i backing vocals di Lou Reed, Nona Hendrix, David Johansen; Michael e Randy Bracket ai fiati, Adrian Belew (Zappa, Bowie, Talking Heads) alla chitarra, e mi fermo qui, perchè per gli altri c'è sempre wikipedia.

Un disco che immagino conoscano non in moltissimi, e che quindi potrebbe essere un'entusiasmante sorpresa, nonostante magari la pecca di una produzione che ho trovato eccessivamente pulita e ottantiana. 

giovedì 15 aprile 2021

Antebellum (2020)

La narrazione si apre mostrandoci la quotidianità all'interno di una classica piantagione di cotone ai tempi della guerra civile americana, con i bianchi a vivere tra lusso e agio e gli schiavi neri a subire disumane crudeltà e indicibili umiliazioni.  In particolare seguiamo le vicende della schiava che viene chiamata Eden e dell'odiosa padrona Elizabeth. Attraverso un repentino cambio di scena siamo ai giorni nostri, nei quali Veronica, che ha le stesse sembianze di Eden, è una nota scrittrice impegnata e un riferimento culturale per la cultura afroamericana, che frequenta con assiduità dibattiti e talk show. Un giorno riceve una richiesta di intervista da una misteriosa donna, con la quale intrattiene una fugace e fastidiosa video chiamata. La donna ha le stesse fattezze della proprietaria terrena Elizabeth.

Film profondamente divisivo, che, sia sui vari aggregatori di giudizi che da buona parte della comunità nera (in teoria sua principale audience di riferimento) è stato stroncato, Antebellum è uscito, a causa della chiusura delle sale, solo su piattaforma (in esclusiva Amazon Prime) alla fine del 2020. 
Mi schiero subito dalla parte diametralmente opposta a quella espressa dalla maggioranza della critica e provo a spiegare il perchè.
Partiamo dall'aspetto tecnico: il film è girato in maniera superba, a partire dal piano sequenza iniziale, semplicemente splendido, che in pochissimi minuti, solo con le immagini, illustra in maniera atrocemente efficace la vita di padroni e schiavi nelle piantagioni di cotone. I due registi esordienti, Gerard Bush e Christopher Renz , muovono la macchina da presa da veri esperti e, certo, potevano contare su un budget importante grazie all'appoggio in produzione di Sean McKittrick, lo stesso di Scappa!, BlaKkKlansman e Noi, le pellicole della rinascita del cinema di genere afroamericano, ma senza l'ausilio di idee e tecnica questo conta fino un certo punto, viste le ciofeche che si riescono comunque a girare anche con risorse economiche pressochè illimitate. La coppia Bush/Renz (lo so, sembra una parodia da Bagaglino) oltre ai movimenti di macchina gestisce altrettanto bene tempi, suspance e gestione del cast, dal quale spiccano prepotentemente la protagonista Janelle Monàe, qui alla  prova che le farà probabilmente imboccare la corsia di sorpasso rispetto alla carriera di cantante, e l'antagonista Jena Malone, che fornisce un'altra interpretazione convincente da spietato villain, dopo l'inarrivabile The neon demon

E' del tutto evidente come Antebellum si inserisca nel filone dei sopracitati Scappa! e Noi, cioè nel rilancio della migliore tradizione di cinema di genere (Carpenter, Raimi) che prevedeva intrattenimento puro, tensione, adrenalina, senza però che venisse mai a mancare il sottotesto politico/sociale, che in questi film si traduce nella denuncia delle discriminazioni subite dagli afroamericani. L'impressione che ho ricavato dai tanti ingenerosi giudizi letti in rete è che si sia voluto guardare solo al secondo aspetto dell'operazione, cioè si sia voluto cercare, non trovandolo, esclusivamente una sorta di manifesto politico del black pride, alienandosi così il gusto  di assistere ad uno strepitoso film d'intrattenimento, merce rara ai tempi d'oggi e soprattutto nelle produzioni mainstream americane. Anche così, fatico comunque a comprendere le critiche all'aspetto impegnato del film, visto che, tenendo in debita considerazione l'iperbole del racconto e la licenza artistica dell'opera di finzione, a me è parso un efficace e necessario remind.

Infine, se posso permettermi un consiglio sulle modalità di visione di Antebellum, ne caldeggio fortemente l'approccio diretto, saltando cioè qualunque preventiva lettura di trama o sinossi (per questo ho cercato di essere con la mia il più vago possibile), facendosi così catturare senza rete dalla storia, e divertendosi nel cercare di intuirne l'ambito narrativo (sovrannaturale? racconto parallelo? reincarnazione? flashback/flashforward?), almeno per due dei tre atti del film. 

Una delle pellicole più interessanti dello scorso 2020, per come è girato un autentico peccato non averla potuto vedere al cinema.

lunedì 12 aprile 2021

Hatebreed, Weight of the false self (2020)



Gli Hatebreed celebrano il giro di boa dei venticinque anni di carriera con l'ottavo album della loro discografia e il ritorno, o meglio, l'ennesima affermazione, del proprio brand musicale più radicale. 
Alla guida della band, unico superstite della formazione originale assieme al bassista Chris Beattie, c'è sempre Jamey Jasta, personaggio che, da sempre, vive la dimensione metal in maniera totalizzante, non solo per il numero di band nelle quali ha militato (Icepick; Kingdom of sorrow; Jasta), ma anche per i ruoli di conduttore del mitologico programma di MTV Headbangers Ball (nel periodo dal 2003 al 2007), di produttore (di recente anche per Dee Snider) e di figura di riferimento mediatica per la cultura heavy.
Weight of the false self (titolo niente male, così come la copertina) arriva quattro anni dopo il precedente lavoro (The concrete confessional) che forse era più orientato all'old-school thrash e al metalcore, e picchia duro, con mia enorme soddisfazione, in ambito hardcore e sludge. 

A scanso di equivoci o di bluff stilistici, qui le carte vengono svelate immediatamente: in quindici minuti scarsi (su trentaquattro complessivi, per dodici tracce) ci beviamo, come altrettanti shot di tequila e con il medesimo effetto stordente, cinque pezzi brutali e devastanti ma sempre dotati di un preciso senso melodico, sebbene strappa laringi (la lezione dei Black Flag, decenni dopo, è sempre presente), che permettono alla straripante potenza di essere costantemente sotto controllo ( Let it rot; Set it right e Cling to life). 
Altra lezione universale messa in pratica dalla tracklist è ovviamente quella dei Pantera e di Fillone Anselmo, riferimento volente o nolente immancabile in ogni disco composto con ingredienti  sludge.
Aggiungo che, comunque, dentro questo lavoro, i riferimenti alle varie articolazioni del metal estremo si sprecano ed ogni adepto del genere può dunque divertirsi a trovare affinità con questa o quella band. Perchè, di base, Jamey Jasta (un pò come, a livelli diversi, Michael Poulsen o Dave Grohl) è prima di tutto un innamorato di codesta musica e questa sua passione viscerale emerge sempre, facendo sì che un'opera con zero originalità (ma, attenzione, ottime canzoni) diverta abbestia ed assolva in pieno al proprio compito, liberatorio, di regalare all'ascoltatore momenti di puro sfogo metal  quale eccellente antidoto al logorio della vita moderna.

giovedì 8 aprile 2021

Sound of metal (2019)


Ruben è il batterista di un duo post-hardcore. Il secondo membro della band è la sua ragazza, Louise, alla chitarra. I due conducono un'esistenza felice all'insegna della più totale libertà: vivono in un camper, fanno uso di sostanze stupefacenti e non hanno vincoli o legame alcuno, fatto salvo l'affetto che provano reciprocamente. Una sera, durante un concerto, Ruben comincia ad avere problemi di udito così gravi dal non riuscire sostanzialmente più a suonare. La diagnosi è impietosa. Ruben ha perso quasi totalmente l'udito e deve immediatamente e permanentemente interrompere ogni esposizione ad rumori forti e prolungati. Da quel momento inizierà per il giovane uomo una fase nuova e drammatica della sua esistenza.

Sound of metal è un progetto atipico ed estremamente interessante, che esplora in maniera seria e documentata il mondo dei sordi, grazie alla presenza, come attori, anche di veri insegnanti di Lingua dei segni e avvalendosi di comparse affette da questa disabilità. Il debuttante regista Darius Marder mette in scena un soggetto co-firmato dall'amico e collega Derek Cianfrance,  ricomponendo, a ruoli invertiti, la coppia dietro al film Come un tuono, dove Marder aveva curato la sceneggiatura e Cianfrance (ex-batterista affetto da acufene) la regia. L'attore britannico di origini pakistane Riz Ahmed (che avevo molto apprezzato nella miniserie noir The night of) interpreta con misura ed espressività il protagonista , riuscendo a far emergere l'angoscia, la disperazione e il senso di smarrimento che Ruben prova quando il suo mondo perfetto collassa. Nel film sono messe a fuoco in maniera efficace le mutazioni nei rapporti personali che intervengono quando Ruben si ammala, l'irrazionale rifiuto di affrontare la realtà della sua nuova condizione, la fuga da un nuovo contesto nel quale potrebbe sentirsi accettato ed apprezzato, anche essendo d'aiuto per gli altri, il disperato tentativo di riprendersi la vita che aveva, anche attraverso scelte solo apparentemente risolutive.

Il film è quasi tutto giocato sull'introspezione del suo protagonista e su come, dopo che la sua perfetta routine di vita va in frantumi, egli  non voglia più aggrapparsi a nulla, nonostante ne abbia l'opportunità, che non sia riappropriarsi di quello che aveva prima. Il messaggio vale per un'improvviso manifestarsi di una menomazione fisica, ma la lettura delle scelte che facciamo, della fatica di cambiare, quando nel nostro percorso esistenziale si frappongono ostacoli enormi ed imprevisti, è sicuramente universale. Così come, almeno dal mio punto di vista, il termine "metal" nel titolo, non si riferisce al genere musicale che il duo tendenzialmente interpreta, ma ad un aspetto della nuova condizione di Ruben, che emerge nel terzo atto del film.

Da vedere.

Sound of metal è disponibile su Amazon Prime Video

lunedì 5 aprile 2021

It's never late to mend: Accept, Restless and wild (1982)


Altro recupero di un nome storico (in questo caso dell'heavy metal),che ho sempre trascurato. Eppure gli Accept (tedeschi della regione Renania settentrionale-Vestfalia), tutt'ora in attività, sono indiscutibilmente, assieme agli amati Scorpions, il nome di punta della gloria del metal germanico (ma non solo) dei primi anni ottanta. 
Può darsi che la ragione per cui in passato li abbia snobbati risieda nel loro improbabile "outfit" complessivo, dalle kitchissime copertine storiche (ricordate, no, quelle del disco eponimo di debutto, di Breaker o di Balls to the wall?), alla presenza scenica dell'allora frontman, il mitico Udo Dirkschneider, vocalmente strepitoso, ma, diciamo così, un pò improbabile come metal-hero. 

Ma, come ripeto spesso, il tempo può essere galantuomo, e in un periodo in cui sempre più gruppi emergenti riscoprono il sound metal delle origini (The new wave of traditional heavy metal), ho preferito colmare le mie lacune storiche prima di accontentarmi dei lavori nuovi, ma derivativi, dei pronipoti di Iron Maiden & co. 

Restless and wild è il lavoro numero quattro degli Accept, che esordiscono nel 1979, ma che con questo disco definiscono in maniera indelebile il proprio stile, imponendosi anche grazie all'ugola sgraziata ma efficace di Udo. Ugola evidentemente debitrice del timbro di Brian Johnson degli AC/DC, anche se nel dibattito su chi abbia copiato chi, c'è da tenere in considerazione come Udo abbia esordito un anno prima dell'australiano (che se ne esce nel 1980 con quella cosetta di Back in black). Insomma una diatriba degna di quella epica che accompagnò, agli esordi di carriera, Diego Abatantuono e Giorgio Porcaro sulla primogenitura dello slang del terruncello.  Non si può poi esimersi da citare il peso, nella band, del vulcanico talento chitarristico di Wolf Hoffmann.

L'album si apre con uno dei brani più identificativi del genere e attraverso uno stratagemma che verrà sfruttato da molti altri a venire. Approcciandosi per la prima volta al disco, infatti, veniamo accolti da una scricchiolante melodia folk tradizionale tedesca (di quelle da sagra della birra) riprodotta da un vecchio vinile. Dopo pochi secondi però la puntina del giradischi viene brutalmente spostata, producendo quel classico suono che graffia la superfice del vinile, lasciando il posto al terrificante urlo di Udo e dall'attacco, per l'epoca violentissimo (un drumming così impetuoso e veloce non era roba da tutti i giorni), di Fast as a shark, anthem assoluto di un intero movimento musicale, che fece la sua porca figura anche nel film Demoni di Lamberto Bava. Nessun altro pezzo del disco raggiungerà questa velocità di esecuzione, senza tuttavia che vengano a mancare adrenalina ed emozioni, a partire dall'altrettanto anthemica title track. 

Con lo scorrere dei brani emerge chiarissima la capacità della band di realizzare composizioni che oggi verrebbero collocate nell'ambito arena-rock, vale a dire in possesso di refrain perfetti nella loro semplicità da essere ricalcati, dal vivo, con spettacolari singalong (Ahead of the pack; Shake your heads; Flash rockin' man). La voce di Udo conferisce ai brani quell'allure malsana che, in epoca pre-thrash, pre-black e pre-death, probabilmente era un valore aggiunto, mentre l'indomabile ascia di Hoffmann passa con disinvoltura da ipertrofici pattern hard&heavy a raccordi debitori della musica classica (suo secondo grande amore, alle cui rivisitazioni ha dedicato due album solisti). Spuntano, inevitabilmente, apparentamenti coi modelli di riferimento dell'epoca (AC/DC, Saxon), ma la forza dei pezzi conferisce al lavoro una dignitosissima personalità.
Insomma un disco bello tosto e coeso, dal canonico formato dieci tracce per tre quarti d'ora di durata e con una doverosa, epica ed importante conclusione: la mitologica Princess of the dawn, irrinunciabile appuntamento nei concerti della band. 

Da questo disco ho ampliato la retrospettiva sulla band a tutto il primo periodo con Udo, cioè fino al 1986, anno in cui il frontman esce dalla band per poi ritrovarla brevemente (1993/1996) ed abbandonarla di nuovo, stavolta definitivamente, nelle mani di Hoffmann e dedicarsi a tempo pieno alla propria carriera solista.

venerdì 2 aprile 2021

Bronx (2020)

Marsiglia, bande del crimine organizzato e diversi dipartimenti della Polizia (squadra anti gang, narcotici, giudiziaria) si fronteggiano. In ambito criminale, la lotta tra le due principali cosche (corsi e marsigliesi) insanguina la città. Da parte suo, la Polizia, agisce sopra le regole e, spesso, intrattiene rapporti con la controparte mafiosa. Un'irruzione armata dei coschi in un bar sulla spiaggia (che riprende un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1978) lascia a terra morti e feriti e fa da detonatore ad una escalation di eventi che coinvolgerà entrambi gli schieramenti in campo.

Fortunatamente in Europa c'è la Francia a resistere allo strapotere che ormai l'Asia detiene in ambito produzioni noir di altissima qualità. Si tratta molto probabilmente dell'ultimo baluardo, visto che ormai, allargando la geografia del discorso, anche gli States hanno da tempo abdicato dal loro ruolo di leader, non riuscendo ad affrancarsi da produzioni senza nerbo, prevedibili e antitetiche rispetto alle regole auree del noir, che gli USA stessi avevano contribuito ad affermare, tra gli anni quaranta e i cinquanta.

Bronx (non ho inteso la ragione di questo riferimento anglofono del titolo, spero non sia per depistare il potenziale spettatore medio, fatalmente attratto dalle "americanate"), viceversa, le regole del noir, o se preferite, del classico polar, le conosce alla perfezione, anche perchè il regista del film, Olivier Marchal, è un ex-poliziotto e, nella sua produzione precedente (L'ultima missione; A gang story; La truffa perfetta sono tutti titoli imperdibili), aveva messo abbondantemente in chiaro, su pellicola, la sua esperienza nelle forze dell'ordine francesi, mostrandoci una Polizia corrotta, violenta, vendicativa, per la quale non esistono regole, e che quasi sempre rimane impunita. 

La cifra stilistica nelle storie di Marchal è l'assenza assoluta di morale, speranza o pietà, dentro vicende nerissime, contrassegnate da confini inesistenti tra giusto e sbagliato, dove regna una violenza ottusa e atroce, senza speranza alcuna di assoluzione per chi ne è coinvolto, da questa o l'altra parte della barricata, perchè tutti prima o poi commettono uno sbaglio mortale, tutti mentono, tutti sono compromessi.

Questo è quello che ci si aspetta (e che, personalmente, pretendo) da un autentico film noir. E questo è quello che, ancora una volta, con Bronx e grazie alla scelta di un cast non meno che perfetto, il magnifico Olivier Marchal, ci regala.

Bronx è disponibile sulla piattaforma Netflix.