mercoledì 31 marzo 2010

A/R

Come abitudine degli ultimi anni, ieri ho accompagnato i miei per il loro mese di mare in Liguria. Andata/ritorno in giornata, ma è una cosa che faccio volentieri, un pò perchè ho l'occasione di stare un pò tranquillo con loro e naturalmente perchè mi piace guidare.
Ieri a rovinare un pò le cose c'è stato il cattivo tempo. Da Ovada in poi vento e pioggia che spazzavano in orizzintale l'autostrada, buio pesto e freddo.
Al ritorno si è creata la curiosa (e pittoresca) situazione per cui mentre mi trovavo sotto un cielo plumbeo e una pioggia battente, nello specchietto retrovisore vedevo cieli limpidi e nuvole bianchissime.

In questo contesto un pò surreale ho messo su dopo tantissimo tempo quello che probabilmente è il mio disco preferito dei Pink Floyd, Wish you were here (Shine on you crazy diamond, Welcome to the machine, Have a cigar, Wish you were here).
Il connubio che si è creato è stato perfetto. Arrivato alla sputtanatissima title-track ( passata in radio miliardi di volte, citata a meoria da quelli della mia generazione e delle precedenti, deturpata a ripetizione da improbabili chitarrai nei falò notturni in spiaggia ), ho pensato che, nonostante tutto, continua ad essere un grandissimo pezzo con un grande testo. Questo qui:


Cosi', cosi' tu pensi di distinguere
Il paradiso dall'inferno,
Cieli azzurri dal dolore
Puoi distinguere un prato verde
Da un freddo binario d'acciaio?
Un sorriso da una maschera
Tu credi di saper distinguere ?
E ti hanno fatto vendere i tuoi eroi per fantasmi?
Ceneri ardenti per alberi?
Aria calda per una fresca brezza?
Freddo benessere per cambiare
Hai scambiato una comparsa ai margini della guerra
Per un ruolo di comando in una gabbia?
Come vorrei, come vorrei che tu fossi qui
Siamo soltanto due anime perse che nuotano in una vasca per pesci
Anno dopo anno
Correndo sullo stesso vecchio terreno
Cosa abbiamo trovato?
Le stesse vecchie paure
Vorrei che tu fossi qui.

martedì 30 marzo 2010

Wide awake

Immagino sia una costante di moltissimi bambini la vivacità serale, il sovraccarico di energia del dopo cena, le pile che vanno a mille proprio quando quelle dei genitori sono al minimo, giusto il residuo per accompagnare a letto i pargoli.
Stefano non fa eccezione, anzi è probabilmente uno dei massimi esponenti di questa corrente di pensiero (e d'azione).
Ieri però, dopo anni di lotte senza quartiere, patetiche tecniche di rilassamento e espedienti di ogni tipo per "conciliare il sonno" (il suo neh, perchè tu a quell'ora sei uno zombie), Stefano mi ha finalmente rivelato l'arcano.
Dopo la consueta storia della buonanotte (seeh), con la solennità delle grandi rivelazioni ha infatti confessato che: "non mi piace dormire perchè quando dormi non ci sei più".
Una spiegazione perentoria (e un pò macabra ), lo so. Ma lì per lì mi è sembrata assolutamente sensata.

domenica 28 marzo 2010

Weight don't matters

Beth Ditto non è l'unica icona oversize del rock and roll. C'è anche Damien "Pink Eyes" Abraham, vocalist dei Fucked up, combo canadese che realizza dell'ottimo hardcore.
Io li ho scoperti da poco, anche se sono attivi da una decina d'anni, nei quali hanno realizzato diversi EP e qualche full lenght. Il tutto è riassunto nel recente Couple Tracks: singles 2002-2009, dove emerge anche la vena politica del gruppo (il disco si apre con una traccia dall'inequivocabile titolo No pasaran).
Abraham è quello che banalmente si definisce un animale da palcoscenico. Impossibile vederlo fermo, sfida la forza di gravità (e il coraggio dei fans) con ripetuti stage diving, provoca, si contorce, si denuda, sembra un
Kinpin in acido, un Iggy Pop di fronte ad uno specchio deformato.

La clip che posto è presa da un live su MTV, ma per chi volesse in rete se ne trovano a bizzeffe, anche più provocatorie (solo di qualità peggiore). Da notare la vee jay della rete che nel presentarli censura il loro nome: - ecco a voi i F.. UP!!!
- .

venerdì 26 marzo 2010

Buahahahahah

Scatenati i dipendenti del cavaliere a pochi giorni dal voto. Mentre l'authority per le telecomunicazioni multa TG1 e TG5 per lo spazio debordante concesso negli ultimi mesi al premier e alla sua coalizione rispetto a quanto dato a PD e agli altri, Panorama se ne esce con la popò di copertina che vedete qui sotto e Libero, infiaschiandosene delle regole che lo vietano, in pratica pubblica i sondaggi per le regionali di dopodomani. Perchè libertà è fare un pò come cazzo ti pare.


giovedì 25 marzo 2010

Honey buisness


Interessante questo sfortunato (al botteghino) film d'animazione della Dreamworks che ha come protagonista l'ape Barry Benson. Certo, non è scevro da imperfezioni, con la sua ottima partenza e il suo progressivo afflosciamento, ma il giudizio resta comunque positivo. E poi Stefano da sabato (giorno in cui l'abbiamo registrato dalla tv), non vuole vedere altro.

La pellicola è coloratissima, la metafora della società delle api che rieccheggia la nostra, le diverse ospitate di celebrità sotto forma di cartoon (letteralmente irresistibili Sting e Ray Liotta) e in versione apesca (Larry King), le immancabili citazioni cinematografiche, nonchè alcune battute fulminanti, fanno comunque di Bee Movie un buon film, magari troppo sbilanciato in alcuni suoi momenti verso un pubblico più adulto (la fase processuale), ma apprezzabile per il messaggio educativo/ambientalista destinato ai più piccoli.


Dopo averlo visto vi sentirete un pò in colpa a comprare un vasetto di miele...

mercoledì 24 marzo 2010

I got a rocket


Premetto che conosco i Goldfrapp solo di nome. Non li ho mai ascoltati in precedenza, ne ho mai avuto lo stimolo a farlo. Leggo su wikipedia che sono un duo inglese di musica elettronica (sarà per questo che istintivamente non mi stimolavano) composto da Will Gregory, produttore di colonne sonore, e Alison Goldfrapp, vocalist che prima di questo progetto aveva partecipato a lavori di Tricky e Portishead.
Dal 2000 a oggi hanno realizzato quattro dischi, il quinto è questo Head First, fresco di stampa.

Personalmente ci arrivo grazie alla segnalazione di un amico che mi consiglia di dargli un ascolto. Siccome mi aspetto roba pesa e un po’ ostica, elettronica trendy, ossessiva e monotona , sul mio viso si allarga un sorriso compiaciuto quando parte Rocket, la traccia numero uno. Un delizioso e armonioso pop con atmosfere eighties (inequivocabili le tastiere tipo Jump dei Van Halen e quel classico effetto di batteria), steso come un prezioso tappeto sul quale si adagia la voce angelica di Alison.

E’ solo l’inizio di un curioso viaggio in un sinuoso e anacronistico paese delle meraviglie, dove il mood è costante (esce un pò dagli schemi la conclusiva Voicething)e si traduce in brani dalla struttura semplice ma incisiva, leggiadri voli a planare, perle infilate in una collana un po’ fuori moda ma sempre affascinante da indossare.

Alive, Dreaming, Hunt, I wanna life sono sì revival, ma senza malizia, senza retropensiero. Suonano oneste e arrivano dritte allo scopo, riescono a stupire pur suonando già sentite. Così come tutto il lavoro. Un timing breve, meno di quaranta minuti, per una piccola, deliziosa sorpresa.

martedì 23 marzo 2010

Back in Germany


Torno in germania molti anni dopo l’ultima volta, nella quale, manco a dirlo, c’ero stato per Springsteen, che nel 1993 aveva suonato a Monaco e Francoforte. Stavolta il viaggio è per lavoro, che c’è da preparare il rinnovo del contratto di lavoro dei dipendenti della compagnia di bandiera tedesca di sede in Italia.
Il collega che segue da sempre questi lavoratori, mi spiega che sono abituati a preparare il materiale contrattuale in trasferta. Approfittando delle tante condizioni di favore che hanno su aerei e hotel infatti, prenotano voli e notti fuori, per potersi concentrare appieno solo sul lavoro da fare.

In linea di massima la cosa mi sembrava interessante, una deviazione al solito percorso liturgico di queste attività. Certo, per come sono fatto, mi infastidiva un po’ passare molto tempo a relazionarmi con persone che nella migliore delle ipotesi conoscevo molto molto superficialmente. Di contro però avevo la possibilità di vedere, nel tempo libero, una città, Francoforte, che all’epoca mi era piaciuta.

Ovviamente le cose sono andate in maniera completamente diversa rispetto a quanto preventivato. L’albergo, benché molto grazioso ( un quattro stelle) si trovava infatti solo alla periferia di Francoforte, a circa 20-25 km dall’aeroporto, in una specie di zona industriale con attorno qualche casa e qualche negozio, sputacchiati qua e là a cercare di contrastare l'egomonia territoriale delle varie aziende presenti.

Data questa situazione e il poco tempo a disposizione, per stare dietro al lavoro (piuttosto dispersivo, per la verità), siamo restati confinati due giorni nel perimetro dell’hotel. Anzi, per essere onesti, nell'unica serata a disposizione, la comitiva si è spinta fino ad una birreria a qualche centinaia di metri di distanza (lager media a €1,20!), mentre io ho declinato l’invito e mi sono imbustato davanti alla tv che dava Wolfburg- Rubin Kazan di UEFA Europa League, finchè la stanchezza non avuto il sopravvento.

Unico vero neo, alla fine, la refezione. Il cibo era davvero ripugnante (e se lo dico io che sono un’autentica fogna potete credermi), al punto che un paio di noi sono stati malissimo. Tutta roba coloratissima e talmente inzuppata in intingoli raccapriccianti, che si faceva fatica a distingure al palato la carne dal pesce. Meglio la colazione (immancabile per me bacon e uova strapazzate) e le pause programmate di metà mattina e metà pomeriggio, con frutta, tè, caffè,biscotti,yogurt e…alette di pollo piccanti con salsa barbeque, che qualcuno ha incredibilmente avuto il coraggio di fagocitare all’improponibe orario delle dieci e mezza del mattino.


Tutto sommato un'esperienza positiva, che fa riflettere sull'attività da me svolta, in bilico tra gente che si può permettere il lusso di una specie di vacanza (ancorchè di lavoro) e chi sale sui tetti o si incatena davanti ai cancelli delle imprese perchè non ha di che vivere.




P.S. Nell'immagine allegata, Francoforte così come l'ho potuta vedere io. In cartolina.

lunedì 22 marzo 2010

Una Fender su Nettuno


Archiviata la premessa "politica" a questa operazione discografica, che rientra in una strategia più ampia delle major, che da tempo hanno individuato nel settore delle vendite di catalogo l'unica fetta di mercato che ancora resiste di questi tempi, e che su questo stanno concentrando i loro sforzi ( di recente hanno cambiato casacca le discografie complete degli AC/DC e quella di Hendrix, appunto) , passo a dire la mia sull'album postumo Valleys of Neptune, che al netto delle critiche sul metodo, è ahem... buono.

Delle dodici tracce racchiuse nel dischetto (quattordici nell'edizione de-luxe), tre sono versioni alternate di altrettanti classici: Fire, Stone Free e Red House. Le prime due differiscono solo leggeremente dalle originali, ma è sempre un bel sentire.

Valleys of Neptune è l'inedito principale della raccolta, è un buon pezzo, molto cantato, una canzone/canzone, con pochi voli pindarici della Fender mancina del genio di Seattle. Mi dicono che questo brano è stato inciso in un'infinità di variazioni, giacchè Jimi non ne era mai del tutto soddisfatto. Resta da capire cosa ne pensasse della versione che qui è ospitata alla posizione numero due.

Bleeding heart è una ispirata cover del classico di Elmore James, si soffre e si langue, un classicaccio blues alla Hendrix, fa bella coppia con Hear my train comin', canzone originale che potrebbe benissimo essere stata scritta da Muddy Waters.

La traccia sei è forse quella più esaltante. Una versione strumentale e al fulmicotone di Sunshine of your love dei Cream, letteralmente brutalizzata da Jimi nei suoi quasi sette minuti di durata. Davvero strepitosa.
Sono strumentali anche Lover man e Lullaby for the summer. Chiude il disco la delicata Crying blue rain.

Come già sostenuto, Valleys of Neptune è un disco molto blues oriented, non ci sono pezzi lisergici come buona parte di quelli contenuti in Electric Ladyland, subdolamente infatti, major e famiglia Hendrix hanno dato al pubblico quello che il pubblico adora di Jimi. Le schitarrate, le geometrie meno (di)storte, la formula canzone senza fughe centrifughe nella psichedelia.

Così ti dimentichi di dove stava artisticamente andando Hendrix, e continui a vederlo (ascoltarlo) in un'unica affascinante, fotografia dai colori sbiaditi.

Tocca accontentarsi.



domenica 21 marzo 2010

MFT, Marzo 2010


ALBUM

Elio e Le Storie Tese, Gattini
Jimi Hendrix, Valleys of Neptune
Crookers, Tons of Friends
Goldfrapp, Head First
Fucked up, Couple tracks 2002/2009
Johnny Cash, American VI, Ain't no grave
Lady GaGa, The Fame Monster
Airbourne, No Guts No Glory
Litfiba, 17 Re
Eels, End Times
Pan del Diavolo, Sono all'Osso

LETTURE

James Ellroy, Il Sangue è Randagio
Jonathan Lethem, Men and Cartoons

VISIONI

Lost, stagione conclusiva
Flash Forward, prima stagione (seconda parte)
Dexter, quarta stagione

giovedì 18 marzo 2010

An old bottle of smoke, 2


Il bizzarro animale chiamato popolo del rock, composto quasi esclusivamente da over 30, cala in massa a Brescia, in una serata di Luglio che minaccia pioggia. Il piatto, c'è da dirlo, è davvero succulento, Black Crowes e Neil con i Crazy Horse non sono portate da tutti i giorni, sia da soli e men che meno in coppia.


Si parte alle 20:35 con il combo di Atlanta che sale sul palco e, a giudicare dall'accoglienza che gli riserva la folla, sembrano davvero loro gli headliners. Chris Robinson ha una fisicità molto seventies, saltelli alla Plant inclusi, ma poi ci mette molto della sua arte, ha grinta e voce e non si risparmia, come del resto i suoi degni compari. Tutto fila via che è una meraviglia. L'inizio, per citare altri grandi, è una volgare dimostrazione di forza, una dichiarazione di intenti, poi, con la band bella calda cominciano ad arrivare i colpi da ko.
Sting me e Soul singin mandano la gente ai pazzi, ed è forte la delusione, quando dopo poco più di mezzora di concerto, Chris annuncia l'ultimo brano della scaletta (Cosmic friend).
Ma Robinson sente il disappunto del pubblico, e lo arringa: "di che vi lamentate?!? Tra poco avrete una leggenda vivente!"



E leggenda fu.
Dopo un'attesa interminabile, poco prima delle 22:00, Neil Young e i Crazy Horse salgono sul palco, sembrano concentrati, carichi, in palla e cominciano a scaricare elettricità verso il cielo plumbeo, quasi a sfidarlo.
Il palco è abbastanza grande, ma i quattro suonano spesso spalla a spalla, come a formare un'unica figura mitologica.

E' una furia punk (Piece of crap), rock (Love and only love), country (Going home), e sì, folk, con un intermezzo acustico che fa vibrare all'unisono le corde dei novemila presenti. Old man, Pochaontas, From Hank to Hendrix, Only love can break your heart. Vorremmo non smettesse mai. Neil cambia chitarre, suona il piano, l'armonica, l'organo. E' dovunque come una divinità lisergica.


Ma la folla non è sazia, ha ancora energie da spendere. E allora il canadese, da esperto cavaliere di mille battaglie, prima la ipnotizza con una lunghissima jam quasi interamente strumentale, e poi la colpisce con il riff marmoreo di Hey hey my my e con la dolce tortura di Like an hurricane che supera i venti minuti perdendosi e sbandando nell'industrial.


I bis da sogno sono per Rockin in a free world e Powderfinger, ed è davvero finita. Il popolo del rock è annichilito. Può solo assistere stremato all'ossequioso inchino dei quattro cavalieri, dopo una galoppata di due ore e mezzo. Nessuno ha la forza di chiedere di più.



Neil Young & Crazy Horse with special guest The Black Crowes, Brescia Piazza Duomo 9/7/01

Durata: Black Crowes 45', Neil Young 2 ore 30'

Voto: B.C. 7.5 , NY 9


martedì 16 marzo 2010

Lost chronicles, 2

Riassunto arbitrario e parziale delle puntate 6.04, 6.05, 6.06. Leggete a vostro rischio.


Sull'isola del 1977, come già scritto nel post precedente, i naufraghi tentano di far esplodere il posto gettando una bomba all'interno di un pozzo scavato da quelli della Dharma per raggiungere una fonte potentissima di elettromagnetismo. La bomba non scoppia, in compenso però la forza magnetica comincia ad attirare verso di se tutti gli oggetti metallici nella zona (comprese auto e tralicci).Juliet, che è diventata la donna di Sawyer, resta incastrata ad uno di questi oggetti e , nonostante gli sforzi del suo uomo per trattenerla, ci cade dentro.

Gli autori chiudono la quinta stagione con l'immagine di lei che, in fin di vita in fondo al pozzo, si trova vicino la bomba inesplosa e con un sasso la colpisce finchè una dissolvenza bianca non occupa tutto lo schermo.

Nella prima puntata della nuova stagione i naufraghi sono ancora lì, solo che improvvisamente è calata la notte e da una serie di indizi si intuisce che sono tornati nel tempo attuale. L'ordigno quindi sembrerebbe non essere deflagrato, ma aver causato un ennesimo salto nel tempo, vanificando il piano dei Losties. Juliet è ancora in fondo al pozzo, si sentono i suoi lamenti, Sawyer riesce a calarsi e a raggiungerla. La donna è ferita a morte, riesce a pronunciare solo alcune frasi che appaiono sconclusionate, e prima di spirare sussurra un : "Ha funzionato". Credo che in qualche modo questa frase rappresenti una chiave di lettura della serie e delle sue due linee temporali.

Intanto appare evidente che la storia che si alterna a quella sull'isola non è proprio un flashside e nemmeno un what if, ma una realtà alternativa a quella fin qui narrata, visto che i protagonisti che conosciamo hanno vite totalmente differenti da quelle note. Solo per fare qualche esempio Jack è divorziato con un figlio adolescente, Nadia, la donna di Sayid, vive a L.A. ed è sposata con il fratello di Jarrah, Ben fa il professore nella stessa scuola dove è appena stato assunto Locke, che è in sedia a rotelle e sposato con Helen, Hugo è miliardario e felice, etc. etc. La loro vita quindi s'intuisce essere differente già da prima del volo Oceanic 815.

Per quanto concerne lo sviluppo narrativo sull'isola, Jakob è morto (anche se continua ad apparire al solo Hugo), la sua nemesi malvagia se ne va in giro nel corpo del defunto Locke a reclutare adepti per un non meglio precisato scopo. Semina distruzione e morte nella sua forma fumo nero un pò ovunque (Tempio incluso) e sostiene di voler lasciare l'isola. Pare abbia dalla sua Sayid (resuscitato), Sawyer e Claire, che torna, sbarellata alla grande, a fare parte del cast. Ah! C'è una sorta di spiegazione al mistero dei numeri. Alla prossima.

L'attacco degli occhiali killer!

Allora lo vedi che facevo bene a lamentarmi degli occhialetti per il 3D?!?


Stop agli occhiali 3D per gli under 6 e divieto per quelli non monouso

Lo ha stabilito il Consiglio Superiore di Sanità dietro richiesta del Codacons.

lunedì 15 marzo 2010

Mani pulite

Come cambia il marketing elettorale...
L'altro giorno in piazza, insieme al classico santino e al pieghevole con il programma, quelli del gazebo del PD mi hanno consegnato anche una saponetta.
Butto un occhio e vedo che la trovata è giustificata dall'assonanza del nome del candidato locale (Saponaro) con l'oggetto da bagno.
Me lo sono girato tra le mani attonito, e subito ho pensato ad un'americanata.
Certo, il "gancio" mnemonico è assicurato, ma pensate se avesse elaborato una trovata simile la signora Spinelli (candidata IDV in Puglia)...


sabato 13 marzo 2010

Alice non abita più qui


Analogamente a quanto aveva fatto Spielberg con il clamoroso flop del suo Peter Pan, anche Tim Burton decide di portare sullo schermo le avventure di un'Alice cresciuta, che ha dimenticato la sua precedente visita nel cosidetto mondo delle meraviglie (sarebbe più corretto a mio avviso definirlo "mondo da brutto viaggio da LSD").


Da un punto di vista potenziale, cosa ci poteva essere di più consono allo (seppure un pò appannato) stile visionario di Tim Burton, che un viaggio nel mondo psichedelico ideato da Lewis Carrol? Doveva essere una sfida già vinta, nella quale il regista americano poteva sbizzarrirsi a piacimento, potendo contare anche sulla presenza del suo attore feticcio Johnny Depp.

Qualcosa però si deve essere inceppato, gli ingranaggi non hanno girato per il verso giusto, Mia Wasikowska, l'attrice scelta per interpretare Alice è oggettivamente antipatica, viene più spontaneo parteggiare per i suoi nemici che per lei.
Depp ormai viaggia con il pilota automatico, a forza di recitare ruoli di questa natura si fatica a distinguere più un personaggio dall'altro.
Mi è invece piaciuta la Bonham Carter ( con la testa ingrandita al computer del 30%) nel ruolo della Regina Rossa, a mio avviso unica vera interpretazione degna di nota della pellicola (insieme a quella dello stregatto, ma vabè).

Ci sarebbe da dire anche sulla scelta della produzione di trasformare questo bizzarro classico dell'infanzia in una sorta di fantasy, con tanto di draghi, spade magiche, armature e combattimento finale con decapitazione del mostro, in tutta onestà non so se questo risponda o meno allo spirito originale della storia.

Qualcuno ha voluto vedere nel film anche un messeggia femminista, improntato all'autodeterminazione della donna e all'indipendenza delle sue scelte , il che è anche vero, ma è veicolato in maniera troppo diretta e banale, risultando inevitabilmente semplicistico e poco convincente.

Provaci ancora, Tim.

P.S. Vista la ormai conclamata allergia della famiglia agli appositi occhialetti per la visione tridimensionale, anche questa volta abbiamo optato per la visione in 2D.

venerdì 12 marzo 2010

Rah-rah-ah-ah-ah-ah!


Ho scoperto di apprezzare Stefani Joanne Angelina Germanotta, in arte Lady GaGa. La ragazza, che non è certo uno splendore, nonostante l'uso sapiente del photoshop tenda a provare il contrario, secondo me ha talento ed è artisticamente intelligente. Mi piace come ogni volta si reinventa, mi piace il suo non prendersi sul serio, il suo travestitismo. Mi piace il rapporto che ha con la sua immagine e con il suo corpo, che le permette di passare con nonchalance da femme fatale a borgatara. Mi piace il suo inglese elementare, quasi da emigrante dell'est.
Musicalmente non ha inventato niente, ma frulla generi "leggeri" con maestria e perizia. Il suo ultimo The fame monster (che è la riedizione ampliata del debutto The fame) è come un vorticoso giro in giostra nel quale la ragazza (classe 1986) tributa il giusto riconoscimento a Madonna, ma tira in ballo anche gli Abba, Elton John, Michael Jackson, qualche attacco dei Queen.
Perfette pop songs, ballate, tracce dance, hip-hop. Il Muoulinex di Lady GaGa funziona e diverte, con tanta faccia tosta e senza senso del pudore.

E, per inciso, secondo me l'hit single Bad Romance è un grandissimo pezzo pop.

giovedì 11 marzo 2010

Bello paciarotto


Adesso che, dopo essersi fatto oltre tre mesi di carcere, ha patteggiato per tre anni di detenzione e per il pagamento di una multa di 400mila euro per truffa, turbativa d’asta e corruzione, vogliamo ricordare il camerata Prosperini così, al suo massimo, Braveheart de noartri, crociato della legalità e delle sacre tradizioni del nord, contro centri sociali, negri e farabutti vari che infestano la sua bella Milano, con la sua bella spadona della legalità, che si erge a difesa dei cristiani oppressi.
Bello paciarotto insomma, per usare il termine che lui stesso ha pronunciato quando, contattato telefonicamente in diretta tv per avere conferma del lancio delle agenzie riguardo il suo arresto, ha negato imbarazzato, concludendo: "...beh, non ancora..."

Sign o' the times

Dalla Repubblica Milano del 10 marzo.

Tuppersex, i giochi erotici che si vendono porta a porta

Negli anni Cinquanta c’erano le vestali del contenitore sottovuoto, le venditrici dei Tupperware: casalinghe-piazziste che nei salotti di casa ammaliavano altre casalinghe, pronte a spendere per ciotoline innovative, inequivocabili simboli della donna moderna. E oggi, per essere moderna, una donna deve passare dalla ciotola al sex toy. Tuppersex, così si chiama, è il sistema di vendita a domicilio di oggetti di piacere. Si trova un’amica che mette a disposizione una casa, si invitano altre signore interessate all’argomento e si organizza la vendita. In Spagna le "Tuppersex reuniones" sono diffuse da anni. Ed è proprio una signora di Barcellona, Aurora Moreno, che su suggerimento di una ragazza milanese ha iniziato a diffondere la filosofia dei sex toys porta a porta anche da noi. Lei fornisce un kit con diversi oggettini (400 euro circa di spesa che garantirebbero un fatturato di almeno il 30 per cento in più), poi istruisce la aspirante venditrice e l’avvia verso il vasto mondo delle papabili acquirenti. "Molti maschi mi chiedono di lavorare e si propongono come piazzisti, ma sono assolutamente contraria. Il Tuppersex è solo tra donne — sostiene Aurora — Sono cose che richiedono una certa confidenza solo femminile"

Qui le modalità per organizzare un Tuppersex

martedì 9 marzo 2010

Testamento



Niente futili orpelli o colpi di teatro nell'ultimo capitolo della saga Rubin/Cash. Nessuna intuizione ad effetto, come la cover di Personal Jesus, restituita alla sua matrice blues più pura, o come la stupefacente versione di Hurt dei NIN. In questo sesto episodio del progetto che ha rilanciato l'uomo in nero, la centralità assoluta della scena è lasciata ad un essenziale strumetazione di accompagnamento e alla voce di Cash, stremata, dolente, strascicata, greve.

E non potrebbe essere altrimenti, viste le condizioni fisiche e psicologiche (la grave malattia legata al diabete e il lutto della amatissima moglie June Carter) che affliggevano Johnny e che lui si è imposto di ignorare pur di continuare a registrare fino alla fine, lasciando, pare, una montagna di materiale inedito (solo in parte già pubblicato nel cofanetto Unearthed). Le ultime canzoni presenti in questo album postumo sono state incise nei primi giorni di settembre 2003. Johnny Cash morirà il 12 di quel mese.

Ain't no grave contiene dieci tracce, per un timing che supera di poco la mezzora. Le cover, che rappresentano la maggioranza dei pezzi in lista, sono pezzi poco noti di artisti nella migliore delle ipotesi coetanei di Cash, unica eccezione a questa regola, Redemption day di Sheryll Crow.
Apre la spettrale title track, originariamente scritta da Claude Ely nel 1953, che non può che essere definita come un capolavoro assoluto. Sostenuta da un incedere sofferente, con una ritmica che ricorda vagamente le cose rumoriste di Tom Waits (a proposito, che bello sarebbe sentire una sua versione di questo pezzo), la traccia spalanca all'ascoltatore le porte dell'oscurità. L'uomo in nero è pronto per il suo ultimo viaggio, venite a prenderlo, ne ha passate così tanto, ha avuto e perso tanti e tali cose da non temere più niente. Aspetta solo di sollevarsi dalle miserie della madre terra:
When I hear that trumpet sound I'm gonna rise right out of the ground /Ain't no grave can hold my body down / Well, meet me Jesus, meet me / Meet me in the middle of the air /And if these wings don't fail me / I will meet you anywhere /Ain't no grave can hold my body down / Well, meet me mother and father, meet me down the river road / And momma you know that I'll be there when I check in my load / Ain't no grave can hold my body down (se volete potete ascoltarla qui, a corredo di un altro mio breve post).

For the good times (di Kris Kristoffen, un altro grande vecchio combattente) probabilmente concepita come una canzone d'amore/d'abbandono si trasfigura invece in una struggente ultima dedica a June: Don't look so sad, I know it's over /But life goes on, and this old world will keep on turning/ Let's just be glad we had some time to spend together / There's no need to watch the bridges that we're burning
Da segnalare anche Satisfied mind (Porter Wagoner) e I don't hurt anymore, portata al successo da Dinah Washington.

Chiude il lavoro Aloha Oe, saluto hawaiano reso celebre sotto forma di canzone da Elvis Presley nel suo Blue Hawaii. E stavolta Cash sceglie un commiato quasi ironico, irriverente per certi versi rispetto alla cifra stilistica del disco. E' una conlusione che un pò spiazza, ma che in qualche modo si armonizza bene con il resto. Questo è quanto gente, non siate tristi. Vivete la vostra vita e Aloha Oe a tutti.

Un testamento in musica e versi.

Suddito


E' proprio vero che c'è un tempo per ogni cosa, e che a volte bisogna saper aspettare. 17 Re, il secondo disco dei Litfiba, lo ascoltai per la prima volta più di vent'anni fa (la release è dell'86) , convinto dal tam tam entusiastico di molte riviste musicali che vedevano nella band fiorentina una delle risposte italiane più convincenti alla new wave inglese (che nel frattempo si era esaurita, ma vabbeh).

Non so bene cosa mi aspettassi, all'epoca ero alla costante ricerca di un disco italiano dal respiro internazionale, testi, produzione, arrangiamenti che uscissero dai nostri scantinati e che camminassero a testa alta nelle strade in cui circolavano da tempo Bowie, i Clash e Springsteen, giusto per fare dei nomi.

Questo dei Litfiba mi fu prestato da un amico fan anche dei Diaframma. Il disco era una specie di doppio EP (sedici brani stampati su quattro facciate) a grande vantaggio della qualità sonora.
La musica però non mi aveva coinvolto, la mia passione rocchettara era forse ancora troppo legata a vacuità e ritornelli facili per apprezzare qualcosa che, a suo modo, richiedeva una soglia d'attenzione diversa.

Non sapevo all'epoca delle tremende tensioni interne che già dilaniavano il gruppo, con i giovani Pelù e Renzulli a dibattere su tutto e il già saggio Maroccolo e "Ringo" De Palma a cercare di tenere in piedi la baracca (non riuscendoci a lungo).
Non avevo allora la "competenza" per andare oltre lo splendido ritornello e capire fino in fondo una open track straordinaria come Resta (una parte di me / quella più vicina al nulla), o il romanticismo storto di Cafè, mexal e Rosita, oppure la citazione letteraria di Pierrot e la luna, la lunga cavalcata che porta fino a Come un dio, Apapaia, Gira nel mio cerchio.

Oggi, con clamoroso e ingiustificabile ritardo mi perdo tra queste note con l'innocenza di un bambino, e mi chiedo come potevo essere all'epoca così cieco e sordo a cotanti stimoli.

lunedì 8 marzo 2010

La regina dei castelli di carta


Come nel capitolo finale de Il Signore degli Anelli, anche per La regina dei castelli di carta, conclusione della Millennium Trilogy, buona parte del racconto è lasciata alla formazione e agli schieramenti delle truppe del bene e del male. Da una parte i nemici di Lisbeth Salander, quelli che già l'avevano perseguitata per coprire uno scomodo segreto legato al controspionaggio svedese, e dall'altra le forze che riesce a coagulare Mikael Blomkvist, l'intrepido giornalista che ormai ha fatto della salvezza della giovane cyberpunk una ragione di vita. Le fazioni si organizzano, reclutano soldati, cospirano, si preparano alla battaglia decisiva, che è il processo di Lisbeth, gravemente ferita e ricoverata in isolamento in ospedale.

Tra le 850 pagine del libro Larsson trova anche il tempo di spiegarci come funziona la separazione dei poteri in Svezia, e leggendo della sacralità del valore dell'independenza tra giudici e politica viene spontanea una riflessione sulle vicende italiane, e alle nostre ripetute invasioni di campo. Poi ovviamente ci sono le nuove conquiste amorose di Blomkvist, le vicende della redazione di Millennium, un attacco sotto forma di stalking per Erika Berger e l'improbabile rete mondiale di hacker della Salander.
Anche in questo volume i due protagonisti principali sono divisi e non entrano direttamente in contatto, ognuno impegnato in una parte decisiva della battaglia.

Lo scrittore svedese risolve con un buon colpo di scena la questione Zalachenko (padre di Lisbeth e personaggio cruciale in tutta la storia), mentre per altri aspetti del racconto indugia a volte davvero troppo, continuando in pratica fino all'ultima pagina ad inserire personaggi ed introducendoli spesso con un evitabile resoconto della loro vita fino a quel punto. Sbanda un pò in qualche curva la macchina narrativa di Larsson, ma tutto sommato arriva al traguardo.

Si può dire in conclusione che, mentre Uomini che odiano le donne è una storia a se stante, per stile, trama e conclusioni, i successivi due capitoli della trilogia vanno necessariamente letti insieme, per la continuità della storia, vista la conclusione con un cliffhanger del secondo, e per l'intreccio da spy story che li caratterizza.
In quest'ultima parte inoltre, l'autore aggiunge un genere al ricco bouquet che aveva caratterizzato tutta la vicenda dei suoi protagonisti, oltre al thriller, il poziesco, l'avventura, lo spionaggio e la denuncia sociale, Larsson ci mette il carico del legal drama, con una conclusione processuale della vicenda in stile Perry Mason.

Il giudizio definitivo sull'opera complessiva è pertanto altalenante. Si comincia benissimo con il primo volume, il livello scende molto con il secondo e si recupera qualche punto con il terzo e ultimo (in tutti i sensi) sforzo di Stieg. Sicuramente va dato merito allo scrittore svedese di aver creato un mondo e di averlo popolato di personaggi e di luoghi che sono entrati nell'immaginario collettivo di milioni di lettori, così come capita solo ai grandi autori, nonchè di aver letteralmente sdoganato la letteratura svedese d'intrattenimento alle masse europee. Basta questo per dire che Stieg Larsson sia un grande scrittore? Probabilmente no,ma la sua storia personale(giornalista impegnato, ha scritto saggi sulla democrazia e sui movimenti di estrema destra, quelli della trilogia sono gli unici romanzi che ha mai scritto, muore subito dopo aver scritto La regina dei castelli di carta) è sicuramente tra le più particolari e avvincenti della letteratura popolare moderna.
Talmente singolare da dubitare quasi sia reale. Naaaa...ma questo è impossibile.

giovedì 4 marzo 2010

Ma perchè, c'è ancora qualcuno da licenziare?


Ci stanno riprovando


Senza prevedere politiche attive di reinserimento del lavoratore licenziato (come accade nei paesi in cui c'è più flessibiltà lavorativa), questo esecutivo sta cercando di far passare dalla finestra quanto aveva sbattuto contro la porta chiusa dei tre milioni in piazza a Roma nel 2003, cioè la derogabilità dell'art. 18.

Lo fa stavolta in maniera più subdola e meno diretta, assecondando la sua nuova pelle.
Il problema non è l'intoccabilità della norma, che se non vogliamo essere ipocriti andrebbe estesa anche alle aziende fino a 15 dipendenti (che sono il 90% delle imprese in Italia), ma , come scrivevo, la complessità delle politiche complessive del lavoro che da noi sono carenti sia dal punto di vista degli interventi passivi (entità, copertura e durata ammortizzatori sociali e indennità disoccupazione) e quasi nulli dal punto di vista di quegli attivi ( formazione al lavoro) e che vengono bellamente ignorate da Sacconi & co.

Senza parlare poi della tempestività del provvedimento, in un contesto di crisi che ha messo i lavoratori per strada senza bisogno di scomodare l'articolo 18.


Non mi è di consolazione nemmeno urlarlo in faccia ai molti operai che conosco e che hanno votato per il partito del fare. Tanto non cambia un cazzo.





mercoledì 3 marzo 2010

Talk to me

Poco prima degli scontri in via Padova a Milano, scaturiti da una violenta rissa tra cittadini sudamericani e africani e purtroppo culminata con un omicidio, volevo scrivere un post su come il sindacato contribuisse, così come ha fatto nel dopoguerra insieme a qualche grande partito per l'emigrazione dal sud, all'integrazione tra persone e culture differenti.

In un clima di odio, paura e diffidenza continua, indotto dalla Lega e dai suoi degni compari, nel paese reale molti italiani lavorano nelle cooperative merci, nelle fabbriche e nei campi fianco a fianco a lavoratori migranti. Non senza difficoltà ovviamente, questi operai sono in qualche modo costretti dagli eventi a convivere con situazioni e mondi molto lontani dai loro. Per dire, molto spesso alla fine di una giornata di lavoro queste persone non vanno a casa, perchè non ne hanno una, ma in un centro di ricovero e accoglienza pubblico se non addirittura in strada, per poi presentarsi puntualmente il giorno dopo sul posto di lavoro.

Ebbene, nella mia categoria sindacale ho la fortuna di avere dirigenti che hanno avuto l'intelligenza di capire che il futuro del sindacato in Italia passa necessariamente anche per il contributo dei lavoratori stranieri, e che per questo vanno fatti partecipare alla vita politica dell'organizzazione, investiti di responsabilità. Al nostro congresso sedevano in platea in percentuale inedita per gli standard normali, lavoratori cinesi, sudamericani,africani .

L'episodio di integrazione che volevo riportare è piuttosto breve. E' il contributo di un lavoratore del Senegal attraverso un intervento al microfono. Si parlava dei fatti di Rosarno, e questa persona, poco avvezza alle luci della ribalta e più a suo agio con il francese che con l'italiano, ha fatto un intervento così naturale, orgoglioso, lucido e commovente sui diritti di milioni di persone quotidianamente capestati, da far venire rabbia e lucciconi un pò a tutti.

Alla fine del suo discorso e anche più tardi, nella pausa pranzo, una moltitudine di delegati gli si è avvicinata per una stretta di mano e una pacca sulla spalla. Molti di loro facevano parte di comunità straniere di norma "ostili" a quella africana, e la cosa, seppur circoscritta ad un contesto di comune condivisione ad una stessa associazione, mi ha reso orgoglioso di essere lì in quel momento.

Ho pensato che allora c'è davvero, seppur senza banalizzare la questione e non senza enormi difficoltà, il mezzo per uscire dall'ipocrita duopolio rifiuto/sfruttamento delle persone che arrivano in Italia dai paesi più poveri.
E il mezzo, sembra ingenuo o utopistico, si chiama ancora dialogo.
Difficile, mi rendo conto, che lo capisca chi, proprio praticando il suo esatto contrario ne trae vantaggi elettorali.
E complicato che lo usi anche chi per storia e ruolo lo faceva, e oggi realizza che è più proficuo parlare d'altro.