mercoledì 31 agosto 2011

Super-Po





Il sequel di Kung Fu Panda entra di merito nel ristretto club di film per i quali il sequel supera in qualità il primo capitolo. In un riuscito mix di azione, emotività, divertimento ed effetti speciali scopriamo le origini del protagonista, perchè si ritrova un oca come padre, assistiamo alla nascita di una nuova, terribile minaccia, conosciamo nuovi alleati per i Cinque Cicloni, restiamo col fiato sospeso per un colpo di scena all'ultimo fotogramma.


Ancora di più si saranno probabilmente divertiti gli spettatori americani, che hanno potuto potuto godere di un esaltante cast di doppiatori: Jack Black, Dustin Hoffman, Gary Oldman, Angelina Jolie, Jackie Chan, Lucy Liù e Jean-Claude Van Damme.


Se aveste problemi ad andare al cinema per vedere un cartone, trovate una scusa per farlo, accompagnate chessò un lontano nipote o il figlio pestifero di un vicino. Ne vale la pena.





martedì 30 agosto 2011

MFT, agosto 2011


ASCOLTI

One Dimensional Man, A better man
Red Hot Chili Peppers, I'm with you
Hank III, Ghost to a ghost
Morbid Angel, Illud divinum insanus
AC/DC, Let there be rock
Beyoncè, 4
Gang, Una volta per sempre
Marshall Tucker Band, Searching for a raimbow
Tedeschi Trucks Band, Revelator

VISIONI

I Soprano, quarta stagione
Weeds, prima stagione



lunedì 29 agosto 2011

Two hearts



Capovilla ha due cuori. In principio (1997) a battere fu quello dei One Dimensional Man. Critica e pubblico tra le più attenti alle novità indie italiane drizzarono le antenne.Poi improvvisamente il progetto si arenò (2004) e a battere forte fu il secondo cuore, quello del side-project Teatro Degli Orrori (2007), che fece registrare un'impennata di stima tra media e fan, al punto che tutti si convinsero che la nuova creatura avesse ucciso la prima. Ma dopo due eccezionali album del TDO, inaspettatamente, l'Uomo Ad Una Dimensione torna a vivere.


Pierpaolo Capovilla è un altro che non ama stare fermo ed essere prevedibile. Dopo tutti gli onori e gli scappellamenti ricevuti per A sangue freddo, invece di dare un seguito a quell'opera, resuscita la sua prima band. Qualche scoria del Teatro comunque resta, se è vero che la doppietta iniziale di A better man ricorda nella dinamica l'ultimo lavoro dei TDO: la titletrack è infatti un pezzo notturno, rarefatto, nel quale PP canta "doppiato" da una voce femminile che dona ulteriore suggestione al brano, tessuto sopra un testo davvero bello e suggestivo che consente a Fly, la seconda traccia, di godere di maggiore enfasi e fragore di quello che già avrebbe per struttura. Un pò come succedeva ne A sangue freddo con Io ti aspetto e Due.


Ecco, saranno anche più adulti, ma non rinunciano al frastuono, i ODM. Lo dimostra il post-punk di pezzi come A measure of my breath o This crazy, ne dà sfoggio il quasi industrial di This angry beast o il rumorismo acustico alla Tom Waits per Face on a breast. Ever sad è invece una sorta di seconda parte/versione con liriche alternative della traccia di apertura che dà il titolo all'album.
Qua e la si colgono riferimenti anche Bowie, a Lou Reed, forse persino ai NIN. E' un attimo però, perchè proseguendo con l'ascolto, le proprie convinzioni vacillano a fronte del mood complessivo del lavoro, che pure alla lunga ha qualche calo, ma che comunque possiede una sua personalità.



Viene il mal di testa a cercare di capire quale sia il progetto parallelo e quale il principale tra le due realtà anime di Capovilla. C'è da sperare che le dichiarazioni che il singer ha fatto alla stampa in merito ad un presunto cattivo stato di salute del Teatro degli Orrori siano dettate unicamente alla promozione del nuovo One Dimensional Man, perchè mi sembra che comunque band come i TDO in Italia non ce ne siano molte. Detto questo, A better man è comunque un disco che merita attenzione, gonfio di urgenza comunicativa, carico di tensione, oscurità, ossessioni, elettricità. Un lavoro molto poco italiano. Ed è un complimento eh.



sabato 27 agosto 2011

Album o' the week / The very best of Hall and Oates (2001)





Hall and Oates sono gli artisti ideali da raccolta di successi. La loro formula musicale, originata da soul e rhythm and blues e in seguito approdata al pop fino a sfiorare l'AOR, si fa sempre ascoltare piacevolmente, attraverso lunghe sfilate di singoli di successo.


Sono certo che i più giovani conosceranno quasi tutte le canzoni che compongono la raccolta (I can't go for that, Private eyes, Maneater, Adult education, Out of touch) senza magari sapere che ad interpretarle ci fosse questo versatile duo.


Non erano al centro dei miei gusti musicali, ma hanno attraversato con discrezione i miei ottanta.




P.S. Impredibile è invece il loro Live at Apollo. Ma questa è un'altra storia.

venerdì 26 agosto 2011

Back in black

Di norma, al cospetto di certa gente, la cosa migliore da fare è ignorarla per non concedergli nemmeno quel poco di visibilità che deriva da una chiaccherata con gli amici o da un post in rete. Il problema è che le cronache delle gesta di questi qui sembra ti perseguitino.
"Questi qui" sono il partito nazionalista del popolo italiano, il più recente tentativo di far rinascere il partito fascista in barba alla costituzione e alla legge 645/52 (legge Scelba). Tentativo, badate bene, favorito dal clima generale del paese e dai numerosi atti preparatori, alla luce del sole o a fari spenti, orientati ad abolire le norme di cui sopra (ci sono siti, gruppi su facebook, colpi di mano in parlamento: l'ultimo in ordine di tempo è del senatore De Eccher, ad aprile) e magari la festività della Liberazione.

Ma dicevo della volontà di ignorarli. Uno ci prova, eh. Ci prova davvero. Poi però compra il giornale e legge che a settembre questi qui vogliono fare una marcia su Genova con le camicie nere, apre le edizioni on line dei quotidiani e scopre che insultano e minacciano di morte un giornalista di Repubblica, ascolta il loro portavoce (alla trasmissione di radio24 La Zanzara) annunciare la candidatura alle elezioni con tanto di programma elettorale (perseguire gli omosessuali, "allontanare coattivamente" fuori dal territorio nazionale e confiscare i beni a tutti i "non italiani") e affermare che il partito è nato su diretta richiesta di Berlusconi (probabilmente una baggianata che però non è stata nè ripresa nè smentita da nessuno).

Capite bene che diventa impossibile non porsi delle domande (ma, esattamente, quand'è che interverranno magistratura e forze dell'ordine?) e, pur riconoscendo la demenzialità della cosa, scacciare uno strisciante senso di inquietudine...

giovedì 25 agosto 2011

Catalogami questo! / 17



Il power pop è un sottogenere del pop rock, che si caratterizza per l'utilizzo di melodie semplici ed essenziali ispirate ai gruppi anni '60, combinate con riff di chitarra abbastanza potenti e da una struttura ritmica tipiche dell'hard rock. Gli assoli di chitarra non sono molto comuni e le modalità delle canzoni tendono ad essere minime.

Il power pop è il punto di incontro tra l'hard rock dei the Who e le melodie dei Beatles e Beach Boys, spesso con l'introduzioni di chitarre squillanti tipiche dei the Byrds. Il termine power pop venne utilizzato per la prima volta nel 1967 da Pete Townshend, chitarrista dei The Who, per definire la musica del proprio gruppo, che è spesso citato come un predecessore del genere insieme ad altri gruppi come The Beatles, The Byrds, The Beach Boys, The Hollies, The Zombies o The Easybeats.

Benché diverse band dei primi anni settanta - tra cui the Raspberries, Big Star, e Badfinger - avessero stabilito il sound tipico del power pop, il genere non si affermò definitivamente fino ai tardi anni del decennio. Gran parte di questi gruppi presero ispirazione dai the Raspberries (che furono l'unico gruppo power-pop della loro epoca a pubblicare delle hit), o basarono le proprie sonorità direttamente sui vecchi gruppi della corrente
British Invasion. Ciò che accomunava tutte queste band era la loro ammirazione per i classici singoli pop da tre minuti. Le band power-pop iniziarono ad emergere in contemporanea con il periodo di esplosione del punk rock (seconda metà dei settanta), così vennero notati assieme ai gruppi new wave grazie ai loro brani brevi e orecchiabili che trovarono affinità con il successivo post-punk. Oltre alle band precedentemente citate, i Cheap Trick, the Knack, the Romantics, e Dwight Twilley ottennero il maggior successo con delle hit, ma the Shoes, the Records, the Nerves, e 20/20, assieme a molti altri, divennero tra i favoriti tra gli appassionati.


wikipedia

mercoledì 24 agosto 2011

Genitori imperfetti





Non so ancora se sono riuscito a trasmettere a Stefano il mio amore per la musica e il tifo per la mia stessa quadra di calcio (sempre in maniera non invasiva, per interagire nuovamente con questo opportuno post di Filo) ma la passione per il cinema invece a quanto pare ha già attecchito (forse perchè più immediata e meno impegnativa). Per cui adesso, ogni volta che gli capita di vedere dei trailer che gli interessano, il tormentone (di rimando alla spiegazione della nostra negazione più frequente) è: "papà, possiamo vederlo? E' adatto a me?".



Dopo più di un no alle proposte che mi ha rivolto Stefano, non senza perplessità, ho finito per capitolare in un boccheggiante e ozioso pomeriggio agostiano, in merito alla visione di Tekken, coproduzione Cina/Giappone/USA, che porta sul big screen il celebre picchiaduro per Playstation della Namco (al quale Stefano ha giocato qualche volta da un cugino).


Alla fine abbiamo assistito alla proiezione in una sala letteralmente deserta, togliendoci lo sfizio di commentare le scene a voce alta, come se fossimo sul divano di casa.


Il film da un punto di vista artistico è ovviamente del tutto trascurabile, anche se va apprezzato lo sforzo di costruire un minimo di storia dietro ad un "soggetto" per piattaforma di videogame la cui trama prevede esclusivamente botte da orbi. Se vi interessa saperlo la risposta al tormentone di cui in premessa è probabilmente che il film non è adatto ad un bambino di sette anni, ma, rispetto alle mie preoccupazioni, poteva andare peggio.




P.S. Il titolo del post coglie due riferimenti. Il primo è relativo alla mia decisione di far vedere Tekken a Stefano, nonostante sia chiaramente diseducativo in rapporto all'età. Il secondo è insito nella storia del film, che parla di lotte sanguinarie tra tre generazioni di padri e figli...

martedì 23 agosto 2011

Of goats and men





Conoscete no, quella sensazione che si prova guardando un film che ha delle potenzialità ma le sciupa, rimanendo troppo in bilico tra diversi canoni senza riuscire a sceglierne uno? Dovendo sintetizzare è un pò questa l'impressione che ho avvertito dopo la visione de L'uomo che fissa le capre. Cast da botti di fine anno (George Clooney, Ewan McGregor, Jeff Bridges, Kevin Spacey) ma direzione un pò troppo ondivaga, tra la denuncia del business degli appalti alle ditte USA in Iraq, la critica antimilitarista, l'ironia sui reparti segreti dello U.S. Army, l'ambientalismo, le torture nelle prigioni americane su suolo nemico, il tono tra la commedia e il dramma.




Detto questo il film vive comunque di momenti godibili, penso ai duetti surreali tra McGregor e Clooney sulle strade di sabbia dell'Iraq (soprattutto per merito di George, che invece Ewan gira un pò al minimo) e all'addestramento in flashack dei corpi speciali "Jedi".


Sembra un film dei Coen e invece non lo è (il regista è Grant Heslov, in pratica esordiente). Sarà questo ad aver dato luogo ad un'opera interessante ma incompiuta? Non lo so. Di buono c'è che quando Clooney si scusa con il civile iracheno per il trattamento a suon di pallottole che gli hanno risevato esercito e mercenari USA, dichiarando che non tutti gli americani sono così, viene da abbracciarlo forte.

lunedì 22 agosto 2011

Best thing





Nell'anno di grazia 2011 mi mancava il disco nu soul che mi distogliesse dai miei ascolti canonici e mi conquistasse con dolcezza e grinta. Quanto mai opportuno dunque è arrivato "4", l'ultima release di Beyoncè, di cui peraltro non sono mai stato particolare fan (puntualizzo per i maschietti che stanno scuotendo la testa: intendo dal punto di vista artistico), anche perchè di norma bazzico poco il genere e mi ci vuole una sberla ben piazzata per prestargli la dovuta attenzione. L'anno scorso a tirarmela forte sulla faccia è stato The fame monster di Lady GaGa (nel quale guarda un pò era presente Beyoncè per il noto featuring su Telephone), quest'anno è proprio "4" a candidarsi prepotentemente quale guastatore nella mia top ten di fine anno da dinosauro.



L'album sarà anche iper levigato, sarà stato curato nei minimi dettagli dai produttori più cool del momento, l'avranno pure cucito adosso alla star come una seconda pelle, ma diamine che classe! Una voce straordinaria che ti solleva da terra già sulle note di 1+1, il lento che inaugura l'album. I battiti aumentano leggeremente per la successiva I care, che ha un fascino retrò per i suoi coretti alla Supremes, ma sempre dalle parti della ballata siamo. Il primo singolo del disco è Best thing i never had, che pur avendo sonorità tutto sommato sentite già decine volte in questo ambito, non riesce proprio a lasciare indifferenti. I featuring di Kayne West e Andre 3000 degli Outkast fanno una trasfusione di hip hop a Party, la traccia numero cinque, ma lasciano pressochè invariariati il numero di battute che è fin qui impostato su ritmi da candele, essenze profumate e lenzuola di seta. Il disco è infatti tarato su un sound lento/midtempo, che se non fosse banale definirei sexy, sinuoso, languido.


Proseguendo nell'ascolto, Start over e Love on top sono altre concrete dimostrazioni di forza della Knowles che sale e scende le scale musicali senza sforzo apparente, manco avesse le ali. Countdown riesce ad evocare il fascino del doo-wop coniugandolo con il ragamuffin e l'hip hop. Più incasinato a dirsi che (evidentemente, visto che funziona) a farsi. Il pezzo più movimentato, quello da "everibbodi on the dance floor now!" arriva in chiusura di tracklist ed è anche il nuovo singolo, Run the world (Girls).


Che dire? La prima sensazione forte è che "4" non sia costruito per sfornare singoli su singoli che spaccano le charts, ma che abbia una sua precisa forza nella coesione dei brani. La seconda impressione nitida è che Beyoncè abbia raccolto il guanto di sfida delle varie competitors spuntate come funghi negli ultimi anni rilanciandolo là, dove solo chi ha talento osa avventurarsi. La terza elacubrazione è che per "4" si possa finalmente usare la definizione musica soul senza che i grandi del passato di rivoltino nella tomba, diano di vomito nei rehab o gli vada di traverso il goccetto della sera, ovunque essi siano.

venerdì 19 agosto 2011

Album o' the week / Marshall Tucker Band, Searching for a raimbow (1975)



La conoscevo solo di nome, la Marshall Tucker Band. Grave lacuna la mia. Il combo è inserito nel genere southern rock, però in Searching for a raimbow l'apertura di Fire on the mountain è country (con un inconsueto break di flauto) così come la title track che paga qualcosa agli Eagles di Peaceful easy feeling. Walkin' and talkin' ha un tiro swing alla New Orleans anni trenta. Quello che si avvicina di più al southern è il rock-blues di Virginia, ma la successiva Bob away my blies spiazza di nuovo l'ascoltatore, visto si tratta di un pezzo che non sfigurerebbe sull'album Strangers in the night di Sinatra. Un intro di sax in modalità Dexter Gordon apre invece Bound and determined e siamo dalle parti del soul anni cinquanta.

Searching for a raimbow è in definitiva un mosaico imprevedibile, un intreccio di stili ed influenze pazzesco, un disco fantastico.

mercoledì 17 agosto 2011

A Cornaredo la lotta continua





Persino ad uno negato per l'orientamento stradale come il sottoscritto, dopo quaranta chilometri percorsi senza vedere la meta e a fronte di una distanza prevista da google maps di sedici, sovviene il dubbio di aver sbagliato rotta. Ma è proprio quando la voglia di telefonare e coprire di insulti il collega che ti ha spiegato con sicumera che Cornaredo è sulla Milano-Meda si fa pressante, quando sei senza navigatore e non hai carte stradali, alle 21 passate, con la fame che morde lo stomaco, quando tutto ti indurrebbe a mollare il colpo e tornare a casa, quando insomma il gioco si fa duro, ecco, è proprio lì che viene fuori il combattente che non t'aspetti, l'intuizione risolutrice che alfin ti conduce all'area dei Comunisti in Festa a Cornaredo dove suoneranno i Gang.

Mollo l'auto parcheggiandola in piena modalità festival dell'Unità (non so perchè ma è l'unico contesto nel quale puoi lasciarla anche davanti casa del comandante dei vigili e passarla liscia) e dopo un rapido sopralluogo del posto, constatato che la zona concerti è ancora avvolta nel buio, tento la carta panino + birra, mi metto quindi pazientemente in coda,pago la mia consumazione ma alla fine desisto perchè 1) sono quasi le 22, ho il numero novanta e rotti e stanno servendo tipo il cinquantatre 2) ci sono solo due piastre che lavorano al ritmo di un panino ogni cinque minuti 3) le condizioni igieniche lì dentro ti fanno preferire di essere in una cucina da campo a Calcutta 4) i suddetti panini hanno un aspetto raccapricciante.
La birra cruda (prodotta in un'azienda locale) è invece è molto buona. Con la pancia che brontola e la bottiglia in mano mi appropinquo dunque allo spazio concerti giusto nel mentre partono le note inconfondibili di Socialdemocrazia.






Rieccomi dunque al cospetto dei Gang, un paio di anni dopo l'ultima volta e a ruota di un nuovo disco, che, nonostante non contenga materiale inedito, ho trovato comunque ispirato e opportuno. La band attacca La corte dei miracoli ed è sempre un bel sentire, con in canna il colpo del sing-along finale sui versi che il vento tristo/se la porti viaaaa.






Con i pezzi classici del repertorio cominciano anche le interazioni di Marino, che da comunicatore nato qual'è, non perde occasione di rivolgersi al pubblico. E' questo, nonostante i temi che si ripetono e i toni a volte un pò da sermone (laico, per carità), lo spettacolo nello spettacolo in un concerto dei Gang. Severini senior che parla a manetta, si appassiona, che cerca una scintilla negli occhi dei presenti, che sa di predicare ai convertiti e per questo non lesina le provocazioni. Una celebrazione delle canzoni della resistenza introduce La pianura dei sette fratelli (una canzone che dovrebbe essere patrimonio nazionale) e una favola (così la definisce lui) dei tempi lontani nei quali esisteva una classe operaia rispetto a quelli moderni nei quali c'è solo l'operaio, presta il fianco all'interpretazione di Sesto San Giovanni.






Resta un pò a bocca asciutta chi, come me, sperava di sentire qualche pezzo in più dall'ultimo album La rossa primavera, gli unici brani proposti sono Su in collina e Fischia il vento, non contando Dante Di Nanni che è nelle setilist della band da tempo immemore. Anche questo è il bello dei Gang, se ne fottono di promuovere i loro dischi appena usciti. Prendere o lasciare.Noi ovviamente prendiamo, perchè l'incanto di Bandito senza tempo, che non perde una briciola del suo fascino nemmeno dopo centinaia di ascolti o la suggestione di Prima della guerra o ancora la delicata potenza di Giorni, puntualmente ci disarmano. Lo show si chiude con la macchina Gang a tavoletta, Kowalski, Il bandito Trovarelli e Comandante viaggiano veloci, i bis con I fought the law dei Clash e La lotta continua, cantata a pieni polmoni dal pubblico che nel frattempo ha affollato l'area intorno al palco, infiammano gli spiriti, speriamo un pò tutti che la fiamma continui a bruciare per un pò.






Non si risparmia e non tradisce le attese la Severini's band, grazie ad una passione che, nonostante tutto, appare immutata nel tempo. Un pò di malinconia mi prende semmai per i contesti nei quali si esibisce. I Gang non sono, a mio avviso, un gruppo che vive solo grazie ad una appartenenza politica, ad un apparentamento di partito. Per altri basta mettere su una base ska o irish e sparare qualche slogan per avere visibilità assicurata e immancabile presenza al concertone del primo maggio. La componente idealista dei Gang è senza dubbio il cemento della loro casa ma loro, a differenza di altri, hanno hanno un patrimonio di dischi e canzoni di valore, con pochi pari in Italia. E loro, a differenza degli altri la propria diversità l'hanno davvero pagata, con l'ostracismo dell'establishment tutto, major e media in testa (dopo il concertone del primo maggio del 1991 nel quale in diretta nazionale invitarono allo sciopero generale contro il governo Craxi, furono banditi dalla RAI) che evidentemente non gradiscono, a prescindere dal colore politico, l'ostinata indipendenza. Non si merita, una band così, ubriachi molesti che da sotto il palco gli chiedono di suonare Albachiara, storditi che salgono sul palco a ballare, debosciati che gli versano il vino sui fili degli ampli provocando inevitabili black-out.






E' per il rispetto che si meritano che esprimo questi pensieri, non certo per una presunta seriosità dei loro act, visto che in realtà le loro esibizioni sono delle vere e proprie feste collettive, nelle quali i fans che arrivano da più lontano sono spesso invitati dividere palco e microfono (a Cornaredo è successo su Sesto San Giovanni e Comandante) e ai quali Marino si concede puntualmente per una chiaccherata a fine concerto.






Per quanto concerne l'aspetto discografico, anche a causa del durissimo scontro con la WEA a seguito della pubblicazione di Controverso (a seguito del quale alla band sono state chiuse le porta dell'industria discografica nazionale con una dinamica che è difficile non definire mafiosa), è dal 2000 che i Gang non pubblicano un disco di inediti. Possibile che un artista (anche della comunicazione) come Marino abbia finito le parole?

P.S. le foto del concerto non sono granchè, ma con il telefonino di meglio non mi riesce

sabato 13 agosto 2011

Album o' the week / Grown ups, OST (2010)





Il film (in italiano Un weekend da bamboccioni) è chiaramente prescindibile, trattandosi della solita deriva pecoreccia da Il grande freddo con la variante figli a seguito, ma la colonna sonora è costituita da cafonissimo AOR che, come costume del genere, spazia dal pop-rock, al light-prog, all'hard-rock. Interpreti di prima fascia come Journey, Reo Speedwagon, Cheap Trick, Triumph, Aerosmith, Fleetwood Mac; ma anche di seconda o terza come J. Geils Band, Eddie Money, Bad Company, Bob Welch. Per nostalgici.

venerdì 12 agosto 2011

Catalogami questo! / 16



Il noise rock è un'attitudine stilistica musicale caratterizzata da una sostanziale disintegrazione del suono armonico.Se esso ha rappresentato nei primi anni della sua comparsa più un genere popolare a sé stante, caratterizzato dal massiccio uso di dissonanze e di atonalità che risultano in un gettito sonoro profondamente aggressivo, col tempo (attraverso gli anni novanta e l'improvvisa ribalta di gruppi musicali underground) si è evoluto in un'attitudine più estesa, diventando quasi una cifra trasversale di diversi generi musicali: un attributo stilistico utilizzabile con gradazioni e radicalità differenti, adottato anche in revisione critica di fenomeni musicali più datati. Pertanto, sia come "noise" che come "rumorismo", l'oggetto attraversa una moltitudine di generi musicali, dal jazz all'ambient, alla musica elettronica.







wikipedia

mercoledì 10 agosto 2011

The Captain








Ho sempre vissuto con un certo imbarazzo la mia passione per Capitan America. Eh sì, perchè tra i mille lati positivi che ha comportato avere un papà comunista, il fatto di apprezzeare un super-eroe che si è fatto un costume con la bandiera a stelle e strisce dello stato imperialista per eccellenza sicuramente costituiva,in termini di rapporti, un elemento di disturbo. Parto da qui per spiegare il grande malinteso riguardo Cap. E' vero, il personaggio è nato (dalla fantasia di Joe Simon e dalle matite del Re Jack Kirby) quale strumento di propaganda della potenza militare americana durante la seconda guerra mondiale, ma col tempo, e in particolare nei settanta, grazie al lavoro di un team creativo indipendente, il Capitano incarnò lo smarrimento e il disgusto di tanti americani di fronte alle azioni del governo (in ambito di politica interna ed estera) arrivando addirittura ad appendere il costume/bandiera al chiodo perchè quei colori non avevano per lui più senso. Da lì Steve Rogers (l'uomo dietro la maschera) più che governo ed esercito ha incarnato gli ideali del sogno americano, che l'hanno portato spesso in conflitto con l'establishment USA, fino al drammatico epilogo della Civil War.

La premessa mi sembrava importante per arrivare al film di Joe Johnston nel quale,una volta tanto, la collocazione temporale della trasposizione è fedele a quella originale (cosa che non è accaduta per tutti gli altri eroi, nati agli inizi dei sessanta e trasportati sul grande schermo ai giorni nostri), siamo infatti nel 1941 quando Steve Rogers, gracile ed emanciato, nonostante il suo grande spirito patriottico viene respinto a tutte le visite di leva alle quali partecipa, fino a quando viene notato dal professor Erskine (interpretato dal sempre ottimo Stanley Tucci) che gli propone di sottoporsi ad un esperimento...

Quello che fa di Captain America, Il primo Vendicatore, un prodotto credibile è che si prende tutto il tempo che serve (circa metà film) per descrivere bene quanto serve il contesto storico e approfondire i personaggi. Nell'ambito della propaganda, è efficace anche l'intuizione di usare Cap come ragazzo immagine nei musical dell'epoca, nei quali sponsorizza l'acquisto dei titoli di stato e di mostrare il successo dei fumetti a lui dedicati. Solo al culmine di questi eventi, quando, da star qual'è, viene mandato a sollevare il morale delle truppe dislocate all'estero (nel caso, in Italia), di fronte agli effetti reali della guerra, acquisisce consapevolezza del suo vero ruolo nel conflitto.

Naturalmente c'è spazio per le scene d'azione, ma anche per l'ironia e il cameratismo, grazie al ruolo di Bucky (che nei fumetti era l'analogo di Robin con Batman mentre qui è un semplice soldato amico di Steve) e della squadra formata da Dum Dum Dugan e soci (identici alle stripes). Congrua anche l'interpretazione del Teschio Rosso da parte di Hugo Weaving, mentre Tommy Lee Jones è talmente abituato ad interpretare militari che secondo me si porta l'uniforme anche a casa. La minaccia della storia è costituita da un antico manufatto, il cubo cosmico, protagonista nei comics di una delle più belle saghe di Jack Kirby, e qui ridotto a generatore di una potentissima energia.

Accantonata la sorpresa di vedere nei panni di Steve Rogers Chris Evans, lo stesso attore che ha interpretato la Torcia Umana dei Fantastici Quattro (credo che questo escluda altri episodi della saga dei quattro o quantomeno un ipotetico team-up tra loro e il Capitano), forse anche per la peculiarità del soggetto, Captain America è alla fine uno dei film tratto da un fumetto Marvel più riuscito, sia sotto l'aspetto della fedeltà con il personaggio, che per quanto concerne la tenuta complessiva della storia.

Doveste vederlo al cinema, restate in sala fino al termine dei titoli di coda, come ormai sempre più spesso accade, un breve epilogo è piazzato proprio lì. Seppur a piccole dosi rispetto ai comics, anche nei suoi film la Marvel sta inserendo il principio della continuità. In questo caso il collegamento è con le pellicole di Iron Man e Thor.





P.S. Nonostante abbia dovuto precedere la visione del film da una breve spiegazione su cosa era vero (la guerra, i nazisti, il ruolo degli USA) e cosa inventato (tutto il resto)Stefano è comunque riuscito a divertirsi, soprattutto con la seconda parte del film e con l'epilogo di cui sopra, tanto che uscendo ha voluto sapere se per caso nelle strade si trovassero ancora bidoni della spazzatura con i coperchi che si potevano impugnare a mò di scudo, come faceva Steve all'inizio del film.

lunedì 8 agosto 2011

Two as one





Tedeschi Trucks Band

Revelator (Sony Music, 2011)



Su una rivista di quelle che affollanno le edicole, fitte di consigli su sesso e diete (per uomini o donne non ha importanza), ho letto una breve recensione di Revelator, l'album d'esordio della fusione tra la band di Derek Trucks (classe 1979, membro della Allman Brothers Band e con già otto album alle spalle) e quella di Susan Tedeschi (sei dischi incisi). In poche righe il giornalista era riuscito a piazzare un intuizione efficace. Facendo un'analogia con l'industria, per l'unione musicale (che segue quella sentimentale) di Derek e Susan si potrebbe opportunamente parlare di nascita di un potente cartello del rock-blues, con tutti i mal di pancia del caso per la concorrenza.


Scherzi a parte, l'innesto tra i due organismi (che vedete schierati al completo sulla copertina) appare ben riuscito, e il disco viaggia amabilmente tra blues e soul, con l'elettrica quasi sempre pulita ad inseguire scale e pentatoniche senza soluzioni di continuità, l'hammond che impasta il tutto e la voce della Tedeschi a sovraintendere autorevolmente. I testi sono chiaramente orientati alla love song, con derive esistenziali (la splendida Don't let me slide), disperazione da abbandono (Until you remember) elementi di spiritualità che renderebbero felice la Staples (Bound for glory). Il mood è nel complesso più suadente che aggressivo, talvolta si affaccia una sezione di fiati,ma sempre senza risultare invadente, in pochi casi i giri aumentano un pò, come nel classico rockblues alla B.B. King Learn how to love.


Al netto di una potenziale indagine dell'antitrust musicale, un disco appassionato.






sabato 6 agosto 2011

Album o' the week / ZZ TOP, Fandango (1975)




Sono in molti a preferire il primo periodo della carriera degli ZZ TOP rispetto a quello delle grandiose gratificazioni di pubblico originate da Eliminator. Io sono tra quelli, seppur non in maniera integralista (nel senso che apprezzo anche il sound più commerciale, almeno finchè aveva un senso). Ad ogni modo credo che su Fandango non possa esserci disaccordo. Disco relativamente breve (una mezzoretta), diviso in due parti, live e studio. Inizia con Thunderbird e finisce con Tush. Per dare un'idea eh.

venerdì 5 agosto 2011

Catalogami questo! / 15



L'oi! o streetpunk è un sottogenere del punk rock. Esso rappresenta un'evoluzione musicale e sociale del punk britannico dove nasce verso la fine degli anni settanta."Oi" è un'interiezione in slang cockney (il dialetto dell'East End londinese) che significa letteralmente Hey! (o Hey you!). Pare che il primo ad usare questo termine e ad introdurlo come nome da attribuire al genere fu il batterista dei Cockney Rejects.Da un punto di vista musicale, l'Oi! presenta alcune caratteristiche proprie rispetto al classico punk rock britannico. Le basi ritmiche spesso riprendono veri cori da stadio, per il resto, almeno nella prima versione, il genere è riconosciuto come parte del punk rock britannico.

Due caratteristiche sono da sottolineare nell'Oi!, l'abitudine del cosiddetto coro da bettola, ovvero spazi in cui si canta tutti assieme possibilmente pogando e bevendo alcol. La seconda è la caratteristica dei testi volutamente retorici e diretti, legati spesso all'oppressione, alla vita di strada, ed in certi casi comprende testi politici schierati da entrambe le fazioni.

Sebbene la buona parte delle band Oi! della prima ondata fossero apolitiche o di sinistra, molte di loro vennero attratte dal movimento degli skinhead neonazisti. Questi skinhead razzisti facevano irruzione ai concerti di band Oi! cantando slogan fascisti, ed attaccando risse. Alcune band Oi! erano riluttanti a fare loro gli ideali fascisti, tra questi gli Sham 69. Ciononostante, nell'immaginario collettivo il movimento venne associato con l'estrema destra, soprattutto a causa dell'influenza mediatica.


Il 3 luglio 1981, in un concerto a Southall con The Business, The 4-Skins, e The Last Resort, un gruppo di giovani asiatici entrò sparando, credendo fosse un raduno neonazista. Dopo la sparatoria di Southall, ed altri avvenimenti di questo genere, la stampa ed i media in genere, da allora in poi catalogheranno definitivamente il movimento Oi! come appartenente all'estrema destra, con la conseguenza che questo perse le sue radici originarie. A partire da questo periodo, iniziò un rapido declino della musica Oi!.





martedì 2 agosto 2011

Sempre rinnegato





Bennato è a mio avviso uno dei più grandi performer italiani di tutti i tempi. E' stato anche uno degli interpreti più indipendenti e corrosivi che il nostro paese ricordi, uno dei pochi tra l'altro, che riusciva a coniugare questa sua vene ribelle con colossali successi commerciali. E' stato un precursore in molti aspetti. Il primo a pubblicare contemporaneamente due album (Uffà Uffà e Sono solo canzonette nell'80) e il primo a dare alle stampe un disco unplugged (lo strepitoso Rinnegato, nel 90). Certo, l'ispirazione più luminosa l'ha abbandonato da una ventina d'anni buoni, ma con una chitarra in mano e una platea davanti, ancora oggi,a 65 anni da poco compiuti, non sbaglia un colpo.

Lo hanno intuito quelli di MTV, che gli hanno dedicato una puntata di Storytellers, lo show nel quale gli artisti ripercorrono la loro carriera e suonano dal vivo una selezione dei loro brani. Non ho visto il dvd, ma ho ascoltato l'ottimo cd che da quelle registrazioni è tratto e che ci regala un Bennato in forma smagliante già dall'iniziale Cantautore. Molto intense anche Venderò e Non farti cadere le braccia, tra le mie preferite di sempre, mentre Rinnegato è suonata in una versione rock-blues torrenziale e treascinante, al punto che la sorpresa è tanta quando scopri che a coadiuvare Edo ci sono i (sigh) Finley.

Giuliano Palma & The Bluebeaters sono invece ospiti per E' stata tua la colpa, che prende ovviamente una piega ska e Roy Paci incornicia con la sua tromba una suadente versione di Un giornoi credi. C'è spazio anche per la produzione più recente, con il pezzo Wannamarkilibera, che nonostante l'allegro piglio rock&soul paga pesantemente pegno rispetto alla produzione storica. Ultima ospitata, quella di prezzemolino Morgan, che strimpella il piano sulle conclusive Perchè e Lo show finisce qua.

A me pare che l'album Storytellers sia un ottimo tributo ad un artista che tanto ha fatto per rinnovare la tradizione popolare italiana nonchè un live molto coinvolgente. In questi casi però non so in che misura la componente nostalgica incida sul mio giudizio.








From Dude to Cowboy of Love



La station wagon fuori moda viaggia sorniona seguendo una direzione in cui l'highway è completamente deserta. Nel senso di marcia opposto il traffico è invece intenso. La vecchia familiare si ferma nel parcheggio di un bowling. L'uomo al suo interno esce, ha i pantaloni slacciati. Si stira e poi svuota sull'asfalto il contenuto di una borraccia di plastica. Il colore del liquido e la sua quantità fanno pensare si tratti di urina, rilasciata nella bottiglia per evitare di perdere tempo con una sosta. L'uomo, capelli lunghi e stetson in testa, fissa con disappunto il locale. "Un merdoso bowling. Mi fanno suonare in un merdoso bowling."



Questo è il malinconico inizio (mi piace pensare che contenga una sorta di inside joke con The big Lebowski, dove la vita di Bridges/Dude ruotava attorno al bowling) di Crazy Heart, film tratto dall'omonimo romanzo di Thomas Cobb sulla figura immaginaria (ma che ha una pletora di corrispondenze con la realtà) di Bad Blake, artista country caduto in disgrazia, soprannominato Il Cowboy dell'Amore. Sin dalla presentazione della pellicola il soggetto solleticava la mia curiosità per la possibilità che ci intravedevo di assistere ad una storia che parlasse della musica country e dei suoi eroi minori, che desse autorevolezza e dignità ad un genere molto bistrattato fuori dai confini del sud degli states.



Questo avviene solo in parte, per il resto la storia racconta della discesa verticale di un uomo che una volta aveva talento ed era stato accarezzato dal successo, ma che oggi ha un problema serio di dipendenza dall'alcol che oltre alla poca gloria residuale rischia di portarsi via anche la sua vita. Delle sue ultime chances di avere degli affetti (sprecate) e di avere un'ultimo shot of glory (colte). Camei piacevoli ma senza guizzi di Colin Farrel e Robert Duvall.


Per gli appassionati della musica roots U.S.A. un gradevole cameo di Ryan Bingham (bravo autore di americana ma a mio avviso anche molto "raccomandato"), qualche riferimento ai grandi e a chi suona vero country rispetto a quello pop che imperversa nella radio e infine una buona colonna sonora nella quale spiccano, tra le tracce composte appositamente per il film, I don't know; Somebody else, The wearing kind e i classici Hello trouble di Buck Owens, Are you sure Hank done it this way di Waylon Jennings e If i needed you di Townes Van Zandt. Ci sarebbe stata bene anche la title-track, che è il titolo di un successo di Hank Williams. A sovraintedere alla commistione con il country, la produzione di T-Bone Burnette, di norma ricercatissimo producer di americana.


Film piacevole, al di là delle forse eccessive aspettative. Di sicuro conferma quella che era da tempo una mia certezza: se mai ci arriverò, a sessant'anni voglio essere figo come Jeff Bridges.