giovedì 30 giugno 2022

MFT, maggio e giugno 2022

ASCOLTI

Michael Monroe, I live too fast to die young
Ministri, Giuramenti
Fontaines D.C. , Skinty fia; Dogrel
Def Leppard, Diamond star halos
Liberato, Liberato II
Wilco, Cruel country
Aslan, Feel no shame
Thunder, Dopamine
Touch, Tomorrow never comes
Lyle Lovett, 12th of june
Red Hot Chili Peppers, Unlimited love
Scorpions, Rock believer
John Mellencamp, Stricktly one-eyed Jack
Eddie Vedder, Earthling
Warrior Soul, Out on bail
Old Crow Medicine Show, Paint this town
Raul Malo, Quarantunes vol 1
John Coltrane, Ballads



VISIONI

(in grassetto i film visti in sala)

La truffa è servita (s.v., vale il medesimo discorso fatto qui)
The northman (4/5)
L'ombra della vendetta (3,25/5)
Liberaci dal male (2020) (3/5)
Fire City (3,25/5)
Doctor Strange nel multiverso della follia (3,25/5)
Tropa de elite (3,5/5)
Malignant (3/5)
Quel lungo venerdì santo (3,25/5)
L'ultimo uomo sulla terra (3,75/5)
The time machine (2,75/5)
Come fare carriera molto disonestamente (3/5)
Gli occhi della notte (3/5)
La regola del silenzio (2,75/5)
Mollo tutto e apro un chiringuito (2,5/5)
La ragazza di Stillwater (2,75/5)
Yoga Hosers - Guerriere per sbaglio (3,5/5)
Vite segrete (2018) (3,25/5)
Aniara (3,5/5)
Patto di sangue (2016) (2,5/5)
The box (2,5/5)
Al di là della vita (3,75/5)
Top gun (2,5)
Burn (2019) (3,25/5)
I Molti Santi del New Jersey (3,5/5)
Tueurs (3,5/5)
Spiderhead (2,5/5)
A quiet place (3,75/5)
Un eroe (3,5/5)
Funeral party (3/5)
La signora di Shangai (4/5)
Snakes on a plane (2,5/5)
Mr. Nice (2,5/5)


Visioni seriali

Ozark 4, seconda parte (2,5/5)
WandaVision (3,25/5)
La mala - Banditi a Milano (docuserie) (2,75/5)
La storia dei cult movies (docuserie) (3/5)
Better call Saul 6, prima parte (2,75/5)
Bang bang baby (3,25/5)


LETTURE

Victoria Mary Clarke, Una pinta con Shane MacGowan
James Cain, Falena


lunedì 27 giugno 2022

Touch, Tomorrow never comes (2021)


I newyorkesi Touch esordiscono col botto nel 1980 sfornando un disco eponimo divenuto nel tempo un cult assoluto tra i fan dell'AOR/Melodic HR. Un secondo album (II, va da sè), pronto nel 1981, resta in naftalina per poi vedere la luce solo nel 1998. Nel frattempo i due leader della band, Mark Mangold (tastiere) e Doug Howard (chitarre), non restano con le mani in mano, costruendosi una carriera non di primissimo piano (American Tears e Drive, she said il primo, Todd Rundgren, tra gli altri, il secondo) ma comunque degna di nota, sempre nel medesimo ambito musicale. 
Capisci bene che non può essere una release banale quella che vede la line-up originale riformarsi, oltre quarant'anni dopo, per dare un seguito a quel notevole debutto. 

Tomorrow never comes inizia -  title track e Let it come - esattamente nel modo in cui te l'aspetti, rock melodico fatto da dio, com'era normale (per quelli bravi) realizzarlo agli albori degli ottanta, con i settanta ancora sui polpastrelli della dita, e prima che il genere, per un breve periodo, diventasse mainstram. 
Però, proprio quando hai sintonizzato le tue orecchie su quel mood da comfort zone, ecco che arriva Swan song, un prog/pomp di quasi otto minuti alla maniera dei Queen (e di tanti altri, nei settanta). E' l'inequivocabile segnale che i Touch non vogliono darsi steccati. Dopo tutto questo tempo, e senza l'assillo di vendere dischi (come chiunque altro), vogliono godersela fino in fondo e prenderla come viene. 
E viene bene direi, se si passa dal pop di Trippin'over shadows al rockabilly di Lil bit of rock and roll (con un gustoso assolo di piano del leader Mangold), passando per l'hard rock seventies di Fire and ice, giù giù per dodici tracce fino alla conclusiva Run for your life
Sorpresa: siamo tutti lì ad attendere una ballatona, componente "doverosa" in un disco di melodic rock, che non arriverà mai. 
Forse perchè questo album vola più in alto di un banale disco di melodic rock.

lunedì 20 giugno 2022

L'ultimo uomo della terra (1964)


In un futuro imprecisato lo scienziato Robert Morgan sembrerebbe l'ultimo sopravvissuto ad un'epidemia mondiale che ha trasformato tutti gli uomini in morti viventi. Morgan di notte si barrica in casa assediato da questi vampiri zombie, e di giorno, quando gli esseri sono semi-incoscienti, li caccia per ucciderli. La sua solitudine è angosciata dal ricordo della moglie e della figlia, entrambe colpite mortalmente dall'epidemia.

Se, a quasi sessant'anni di distanza, L'ultimo uomo sulla terra è ancora universalmente considerato la migliore trasposizione dell'epocale romanzo di Matheson (conosciuto con due titoli: I vampiri oppure Io sono leggenda) un motivo ci sarà. 
E non solo perchè questa produzione italo-americana, dal budget risicato (altro che il fallimentare blockbuster con Will Smith, per dire), girata a Roma nel quartiere EUR, si è avvalsa anche della sceneggiatura dello stesso Matheson (lo scrittore in un secondo momento, insoddisfatto per alcuni cambiamenti, chiederà di apparire nei crediti attraverso uno pseudonimo).
Piuttosto, la ragione principale della tenuta storica del film è da attribuire all'atmosfera della pellicola, ottenuta grazie al lavoro dietro la macchina da presa di Ubaldo Ragona, di location incredibilmente efficaci, di un crescendo angosciante ed, ultimo ma non ultimo, un'interpretazione del protagonista da parte di Vincent Price, tanto per cambiare, perfetta. 

Davanti a film così emerge un misto di orgoglio e nostalgia nel riscoprire cosa eravamo in grado di fare nel periodo d'oro della nostra industria cinematografica.

Disponibile su Prime Video

lunedì 13 giugno 2022

Fontaines D.C., Milano 8 giugno 2022


Non per essere banale citando la famigerata nuvola dell'impiegato di fantozziana memoria, tuttavia era ampiamente prevedibile che il mio ritorno ad un concerto potesse essere funestato da qualche evento esterno incontrollabile. Infatti in quel del Club Magnolia di Segrate che affaccia sul "mare di Milano" (l'Idroscalo), prima dell'inizio dello show si scatena un bell'acquazzone che mi allunga la Guinness e si aggiunge ai crauti dell'hot dog, facendo presagire un altro rinvio di un'esibizione già rimandata un paio d'anni fa per covid. 
Ma facciamo un passo indietro.

I Fontaines D.C. li scopro leggendo le recensioni del loro primo album (Dogrel) da parte di critici con l'orecchio buono e molto attenti alle novità di qualità, quindi quanto più possibile lontano dalle mie aree d'interesse, molto più terra terra e consolidate. Ormai, avendo un età, capisco abbastanza d'istinto quando non è roba per i miei denti e lascio perdere, tanto è vero che, magari sbagliando, ma non ho mai assecondato tutto il filone di revival post-punk new wave della prima parte degli anni zero. Qui però, non so se per la provenienza della band (Dublino, quel D.C. nel nome sta proprio per Dublin City) o per qualche assonanza coi Pogues (che respingo) individuata dai critici togati di cui sopra, mi ci sono messo di buzzo buono. E anche laddove non mi spingerei a parlare di folgorazione, sicuramente di colpo di fulmine (che per antonomasia potrebbe essere effimero), beh, quello sì. Fatto sta che ho consumato i CD dei primi due album (al debutto ha fatto seguito A hero's death) e mi sono fiondato su Skinty fia, il terzo, appena pubblicato (tre dischi in quattro anni, una media d'altri tempi).

Insomma, il tutto per dire che appena ne ho avuto l'occasione li ho voluti testare dal vivo. I ragazzi erano da poco stati a Milano (sold-out all'Alcatraz, a marzo) ma, come accennato, dovevano recuperare una data rinviata al Magnolia, e quindi rieccoli. Arrivo presto, diciamo un paio d'ore prima dell'orario previsto di inizio, parcheggio lontano per evitare gli imbottigliamenti all'uscita dal parcheggio di prossimità e scruto le nuvole nere sopra la mia testa. Per fortuna: a) quando inizia il temporale ho quasi finito di consumare il junk food di rito b) il Circolo ha un discreto spazio coperto che mi consente di limitare i danni. La temperatura è comunque scesa, io sono con una polo bianca impiegatizia che stona a fianco del tanto nero sfoggiato (white is the new black?), farei la follia di comprare una felpa brandizzata con nome della band ma, curiosamente, non c'è banchetto con merchandising nè ufficiale nè tarocco.

Ci si guarda come di rito attorno e la fauna è abbastanza variegata. Noto con piacere numerosi ultracinquantenni con magliette vintage (a sorpresa Bahahus batte di misura Joy Division) che non lesinano racconti su concerti storici di Milano primi anni ottanta. In generale, per essere un concerto rock, l'età non è comunque verdissima, direi una media tra i trenta e i quaranta. Il bill annunciava degli ospiti, che, con l'approssimarsi delle nove, è parso chiaro a tutti che non ci sarebbero stati. Con la schiarita intanto il posto si è affollato, bene ha fatto chi, avendone le possibilità (cioè il fisico), non ha mollato le transenne nemmeno nel massimo dell'acquazzone, come un novello capitano Achab. 
Non si capisce se per abitudine o per un check approfondito di palco e strumenti dopo la pioggia, fatto sta che i Fontaines D.C. salgono sul palco con un bel tre quarti d'ora di ritardo sullo schedulato. 
Look random della band: bassista in improponibili shorts da spiaggia, chitarrista solista ineccepibile in outfit da rocker figo, cantante agghindato come se avesse dimenticato di fare il bucato e avesse recuperato panni abbinandoli a caso dal cesto della biancheria sporca prima di scendere al pub. Al netto di queste frivolezze, l'attacco di Lucid dream è sconquassante. 


Mi aspettavo, forse temevo, una band statica e un pò cupa che proponesse i suoi pezzi in modalità catatonica e mi ritrovo al contrario un frontman (Grian Chatten) che non spiaccicherà una parola per tutto il concerto ma che attraverso una fisicità tanto epilettica quanto comunicativa interpreta adeguatamente versioni molto più potenti e aggressive delle composizioni, coadiuvato in questo da un drumming poderoso e da un efficace utilizzo delle luci.

Si capisce che il pubblico ha ben recepito non solo i pezzi, ma anche il mood lirico del gruppo, che, talvolta, supplisce all'assenza di ritornelli con strofe-mantra ripetute ossessivamente, rimandate entusiasticamente verso il palco. Non sembra ci siano preferenze particolari tra le tracce di un album o di un altro, che si tratti di Sha sha sha, Roman Holiday o I don't belong, il ritorno in termini di entusiasmo è sempre garantito. Detto dell'istrionismo del frontman - i Fontaines D.C. si stanno progressivamente affrancando dal modello Joy Division, ma devo dire che nelle movenze Grian ricorda ancora il povero Ian Curtis - , la band tiene il palco in maniera molto cool, vale a dire nessuna moina particolare da parte degli altri componenti, ognuno fermo al suo posto. 


Superata da poco la metà del concerto, proprio al termine di un'esaltante Too real, il chitarrista Carlos O'Connell, richiama l'attenzione di tutti indicando un punto tra la folla. Qualcuno si è sentito male. Il gruppo decide di fermare il concerto per "l'incolumità generale", dando modo al personale sanitario di soccorrere il malcapitato. Devo dire che in tanti anni di concerti non mi era mai capitato di assistere ad un gesto di questo tipo (anzi... ho visto lasciar correre situazioni ben più gravi): un altro punto a favore della genuinità dei ragazzi.

Lo stop dura una quindicina di minuti e quando la formazione rientra sul palco, quasi per "giustificare" l'interruzione, annuncia un brano aggiuntivo in scaletta. Inoltre, senza che questo venga comunicato, la seconda parte dello show non avrà la classica interruzione prima dei bis e il concerto arriva pertanto senza ulteriori stop alla sua conclusione. Il brano aggiunto alle scalette fin qui suonate (piuttosto immutabili, per la verità) è la suggestiva opener di Skinty fia, In à gCroìthe go deo
La band ha il controllo totale della situazione, manca solo l'acme, il tripudio finale, che arriva senza sforzo con Jackie down the line e The boys in the better land prima della conclusiva I love you.

Mi sono dilungato nella premessa, non lo farò per le conclusioni. Era da tempo che non assistevo ad un concerto che mi lasciasse così tante scorie emotive nella testa e nel petto, soprattutto non trattandosi di una band di cui conosco a memoria tutte le canzoni e così fuori dalla mia canonica sfera d'interesse (anche se poi, mettendo in pausa la commiserazione, quando la musica è buona non mi pongo steccati). 
E' valsa la pena vincere pigrizia e sfidare il maltempo per non perderseli. 
Mi estraneo dal dibattito perennemente in corso: che diventino i nuovi U2 o che si perdano col passare del tempo, personalmente lo ritengo irrilevante. Carpe diem.


lunedì 6 giugno 2022

WandaVision (2021)



Dopo gli eventi di Avengers Endgame ritroviamo Wanda Maximoff e Visione (che sappiamo essere morto nel corso degli eventi legati a Thanos) vivere assieme in un contesto che richiama quello delle sit-com americane degli anni cinquanta. Come può essere possibile?

Sono arrivato alla visione di questa serie dopo aver visto l'ultimo buon film di Sam Raimi su Doctor Strange, che ha un collegamento, non indispensabile per apprezzare il film, ma comunque importante con WandaVison. Con mio stupore mi sono trovato davanti un serial che per almeno due terzi dei suoi nove, brevi, episodi si segnala come uno dei più audaci, spiazzanti e geniali visti di recente, soprattutto se si pensa al pesante vincolo della countinuity con il Marvel Cinematic Universe. 

Praticamente impossibile evitare gli spoiler in fase di commento, quindi ti consiglio, se non l'hai visto, di fermarti qui. 
L'innovativa idea degli sceneggiatori è quella di far elaborare a Wanda  (un personaggio che per molti anni nei fumetti è stato minore, quasi folkloristico, per poi assurgere ad un ruolo centrale in bilico tra il bene il male, con poteri enormi) il lutto per la perdita di Visione facendole assumere, grazie alle sue capacità telepatiche/sovrannaturali, il controllo degli abitanti di un'intera cittadina del New Jersey, Westview, nella quale ricreare un suo mondo perfetto modellato sulle sitcom americane con cui è cresciuta e nel quale riesce a ricreare il marito Visione e persino due figli.
Si genera così un senso di meraviglioso sbigottimento nell'assistere, episodio dopo episodio, assieme all'evoluzione degli eventi, a quella storica delle serie americane, con gli annessi cambiamenti di sigle e di stile, dai cinquanta fino agli anni zero, 
Quasi un esperimento televisivo per almeno quattro dei nove episodi della serie, solo nel quinto infatti gli autori cominciano ad allargare il plot all'esterno di Westview, e da questo punto in avanti il crescendo fino all'inevitabile scontro finale, questo sì canonico, ma che risulta meno ovvio delle ultime produzioni Marvel, proprio in virtù della lunga e straniante fase di avvicinamento ad esso.

E' nota la strategia della Marvel di allargare la continuità dei suoi film anche alle serie, un intento che mira a fidelizzare ancora di più gli spettatori. Questa cosa pare che funzioni (non nel mio caso, ho mollato per noia al secondo episodio Hawkeye e Moon Night) ma attenzione, perchè è la stessa dinamica che la Marvel aveva adottato nei fumetti e che l'aveva portata ad implodere: per capire un albo dovevi averne letti altre decine prima e l'effetto era la fuga dei lettori verso lidi meno cervellotici. 
WandaVision mi sembra però faccia storia a sè, in virtù di un'idea tra il nostalgico e il rivoluzionario e nondimeno grazie di due interpreti semplicemente strepitosi, Elizabeth Olsen (Wanda), in grado di passare da un registro all'altro con una naturalezza fuori dal comune, e Paul Bettany (Visione), che trasforma la freddezza di un androide in coolness d'altri tempi. 

Segnalo per i Marvel-nerd dei fumetti, la puntata 1x6 a tema Halloween, nella quale i due protagonisti si vestono come i characters dei fumetti anni settanta/ottanta. Un colpo basso che strappa un nostalgico sorriso.