lunedì 27 giugno 2022

Touch, Tomorrow never comes (2021)


I newyorkesi Touch esordiscono col botto nel 1980 sfornando un disco eponimo divenuto nel tempo un cult assoluto tra i fan dell'AOR/Melodic HR. Un secondo album (II, va da sè), pronto nel 1981, resta in naftalina per poi vedere la luce solo nel 1998. Nel frattempo i due leader della band, Mark Mangold (tastiere) e Doug Howard (chitarre), non restano con le mani in mano, costruendosi una carriera non di primissimo piano (American Tears e Drive, she said il primo, Todd Rundgren, tra gli altri, il secondo) ma comunque degna di nota, sempre nel medesimo ambito musicale. 
Capisci bene che non può essere una release banale quella che vede la line-up originale riformarsi, oltre quarant'anni dopo, per dare un seguito a quel notevole debutto. 

Tomorrow never comes inizia -  title track e Let it come - esattamente nel modo in cui te l'aspetti, rock melodico fatto da dio, com'era normale (per quelli bravi) realizzarlo agli albori degli ottanta, con i settanta ancora sui polpastrelli della dita, e prima che il genere, per un breve periodo, diventasse mainstram. 
Però, proprio quando hai sintonizzato le tue orecchie su quel mood da comfort zone, ecco che arriva Swan song, un prog/pomp di quasi otto minuti alla maniera dei Queen (e di tanti altri, nei settanta). E' l'inequivocabile segnale che i Touch non vogliono darsi steccati. Dopo tutto questo tempo, e senza l'assillo di vendere dischi (come chiunque altro), vogliono godersela fino in fondo e prenderla come viene. 
E viene bene direi, se si passa dal pop di Trippin'over shadows al rockabilly di Lil bit of rock and roll (con un gustoso assolo di piano del leader Mangold), passando per l'hard rock seventies di Fire and ice, giù giù per dodici tracce fino alla conclusiva Run for your life
Sorpresa: siamo tutti lì ad attendere una ballatona, componente "doverosa" in un disco di melodic rock, che non arriverà mai. 
Forse perchè questo album vola più in alto di un banale disco di melodic rock.

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