I Fontaines D.C. li scopro leggendo le recensioni del loro primo album (Dogrel) da parte di critici con l'orecchio buono e molto attenti alle novità di qualità, quindi quanto più possibile lontano dalle mie aree d'interesse, molto più terra terra e consolidate. Ormai, avendo un età, capisco abbastanza d'istinto quando non è roba per i miei denti e lascio perdere, tanto è vero che, magari sbagliando, ma non ho mai assecondato tutto il filone di revival post-punk new wave della prima parte degli anni zero. Qui però, non so se per la provenienza della band (Dublino, quel D.C. nel nome sta proprio per Dublin City) o per qualche assonanza coi Pogues (che respingo) individuata dai critici togati di cui sopra, mi ci sono messo di buzzo buono. E anche laddove non mi spingerei a parlare di folgorazione, sicuramente di colpo di fulmine (che per antonomasia potrebbe essere effimero), beh, quello sì. Fatto sta che ho consumato i CD dei primi due album (al debutto ha fatto seguito A hero's death) e mi sono fiondato su Skinty fia, il terzo, appena pubblicato (tre dischi in quattro anni, una media d'altri tempi).
Insomma, il tutto per dire che appena ne ho avuto l'occasione li ho voluti testare dal vivo. I ragazzi erano da poco stati a Milano (sold-out all'Alcatraz, a marzo) ma, come accennato, dovevano recuperare una data rinviata al Magnolia, e quindi rieccoli. Arrivo presto, diciamo un paio d'ore prima dell'orario previsto di inizio, parcheggio lontano per evitare gli imbottigliamenti all'uscita dal parcheggio di prossimità e scruto le nuvole nere sopra la mia testa. Per fortuna: a) quando inizia il temporale ho quasi finito di consumare il junk food di rito b) il Circolo ha un discreto spazio coperto che mi consente di limitare i danni. La temperatura è comunque scesa, io sono con una polo bianca impiegatizia che stona a fianco del tanto nero sfoggiato (white is the new black?), farei la follia di comprare una felpa brandizzata con nome della band ma, curiosamente, non c'è banchetto con merchandising nè ufficiale nè tarocco.
Non si capisce se per abitudine o per un check approfondito di palco e strumenti dopo la pioggia, fatto sta che i Fontaines D.C. salgono sul palco con un bel tre quarti d'ora di ritardo sullo schedulato.
Mi aspettavo, forse temevo, una band statica e un pò cupa che proponesse i suoi pezzi in modalità catatonica e mi ritrovo al contrario un frontman (Grian Chatten) che non spiaccicherà una parola per tutto il concerto ma che attraverso una fisicità tanto epilettica quanto comunicativa interpreta adeguatamente versioni molto più potenti e aggressive delle composizioni, coadiuvato in questo da un drumming poderoso e da un efficace utilizzo delle luci.
Si capisce che il pubblico ha ben recepito non solo i pezzi, ma anche il mood lirico del gruppo, che, talvolta, supplisce all'assenza di ritornelli con strofe-mantra ripetute ossessivamente, rimandate entusiasticamente verso il palco. Non sembra ci siano preferenze particolari tra le tracce di un album o di un altro, che si tratti di Sha sha sha, Roman Holiday o I don't belong, il ritorno in termini di entusiasmo è sempre garantito. Detto dell'istrionismo del frontman - i Fontaines D.C. si stanno progressivamente affrancando dal modello Joy Division, ma devo dire che nelle movenze Grian ricorda ancora il povero Ian Curtis - , la band tiene il palco in maniera molto cool, vale a dire nessuna moina particolare da parte degli altri componenti, ognuno fermo al suo posto.
Superata da poco la metà del concerto, proprio al termine di un'esaltante Too real, il chitarrista Carlos O'Connell, richiama l'attenzione di tutti indicando un punto tra la folla. Qualcuno si è sentito male. Il gruppo decide di fermare il concerto per "l'incolumità generale", dando modo al personale sanitario di soccorrere il malcapitato. Devo dire che in tanti anni di concerti non mi era mai capitato di assistere ad un gesto di questo tipo (anzi... ho visto lasciar correre situazioni ben più gravi): un altro punto a favore della genuinità dei ragazzi.
La band ha il controllo totale della situazione, manca solo l'acme, il tripudio finale, che arriva senza sforzo con Jackie down the line e The boys in the better land prima della conclusiva I love you.
E' valsa la pena vincere pigrizia e sfidare il maltempo per non perderseli.
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