lunedì 31 agosto 2015

MFT, agosto

ASCOLTI

La seconda metà di agosto è stata incredibilmente prolifica di nuove uscite discografiche, soprattutto dal punto di vista della musica hard/metal. Dentro una manciata di giorni sono state compresse le release di Lamb of God, Five Finger Death Punch, Ghost, Fear Factory, Iron Maiden, Motorhead e l'attesissimo (almeno da queste parti) nuovo lavoro dei texani The Sword.
Tutto questo proprio mentre la recente (ultima di una lunga, ricorrente serie) sbornia da rock duro sta cominciando ad abbandonarmi. Infatti da qualche giorno sono tornato prepotentemente sull'altra mia grande passione, cioè la musica root americana in tutte le sue innumerevoli interpretazioni.
Determinanti in questo senso una manciata di album che mi hanno permesso di riscoprire il fascino del blues, del country e del folk grazie a raccolte di canzoni sicuramente non rivoluzionarie ma enormemente affascinanti. I dischi di cui parlo rispondono a Warren Haynes (Ashes and dust), Buddy Guy (Born to play guitar), Chris Stapleton (Traveler) e Lindi Ortega (Faded gloryville), mentre non ho ancora trovato il momento opportuno per calarmi in Something more than free, il successore dell'incantevole Southeastern di Jason Isbell.

The Sword, High country
Vintage Trouble, 1 hopeful rd
The Strypes, Little victories
Lindi Ortega, Faded gloryville
Buddy Guy, Born to play guitar
Warren Haynes, Ashes and dust
Lamb of God, VII Sturm und drang
Jason Isbell, Something more than free
Chris Stapleton, Traveler
Five Finger Death Punch, Got your six
Southside Johnny, Soultime!
Motorhead, Bad magic
Level 42, Standing in the light
Iron Maiden, The book of souls
Gaelic Storm, Matching sweaters
Ghost, Meliora
PeeWee Moore, American outlaw

VISIONI

Per una serie di intoppi e combinazioni che non sto qui a citare, ho dovuto modificare la mia road map sulle serie tv. Ho visto le intere prime stagioni di Power, Low winter sun e Mozart in the jungle, la seconda di True detective, la terza di Justified e, finalmente, ho dato una bella scrollata a Mad Men arrivando fino alla sesta stagione.
 


LETTURE

In attesa della migliore ispirazione che mi permetta di cambiare genere letterario, sono all'ennesimo libro a tema musicale: l'autobiografia di Eric Clapton.

giovedì 27 agosto 2015

80 minuti of my favorite eighties pop songs

Sarà la nostalgia, come cantava Sandro Giacobbe (giusto per restare in topic), ma ci sono una manciata di canzoni del passato che si rifiutano di deporre le armi e di riconoscere la loro manifesta inferiorità rispetto all'evoluzione dei nostri gusti musicali costruita nel tempo. Sono pezzi che, ancora oggi, se intercettati alla radio ci fanno sorridere sornioni e alzare il volume, avvolgendoci in una piacevole malinconia.
Grandi artisti, gente che ha ballato una sola estate, perdenti, personaggi costruiti a tavolino dall'industria musicale: poco importa. Quella canzone, per un complicato intrecciarsi di elementi irrazionali, ha creato danni permanenti al nostro delicato sistema cerebrale.
Qualcuno li chiamerebbe guilty pleasures, stavolta la definizione non mi convince appieno.

1. Spandau Ballet, I'll fly for you
2. George Michael, Faith
3. Duran Duran, Skin trade
4. Frankie Goes To Hollywood, The power of love
5. Soft Cell, Tainted love 
6. Tiffany, I think we're alone now
7. Propaganda, Duel
8. Mr. Mister, Broken wings
9. Madonna, Live to tell
10. Toto, Stranger in town
11. Gino Vannelli, Black Cars
12. Rick Astley, When I fall in love
13. Jermaine Jackson & Pia Zadora, When the rain begins to fall
14. ABC, When Smokey sings
15. Richard Marx, Right here waiting
16. Level 42, Lessons in love
17. Cameo, Word up!
18. Cock Robin, The promise you made
19. Murray Head, One night in Bangkok
20. Bangles, Eternal flame
21. Curiosity killed the cat, Misfit
22. Jim Diamond, I should have known better
23. David Bowie, Loving the alien
24. Nikka Costa, On my own


lunedì 24 agosto 2015

Carol King, Tapestry (1971)

Un disco folk dotato di un potente allure soul. Questo è sempre stato per me, Tapestry di Carol King. E non solo per la scelta della cantautrice di reimpossessarsi di successi composti insieme all'ex marito Gerry Goffin nei sessanta, e divenuti presto classici soul senza tempo come Will you love me tomorrow delle Shirelles o (You make me feel) Like a natural woman sublimata da Aretha Franklin, ma proprio per il mood che avvolge l'album, a partire da I feel the earth move, deputato ad aprire questa meravigliosa raccolta di canzoni con una prepotente dimostrazione di come, quando si è accarezzati dalla migliore ispirazione, si può toccare le corde più profonde dell'ascoltatore senza tanti fronzoli o arrangiamenti fragorosi.
 
Il capolavoro indiscusso della King nasce dopo il divorzio (sia artistico che affettivo) da Gerry Goffin, con il quale si era fatta un nome componendo perlopiù per altri artisti, e a seguito del suo trasferimento in California, a Lauren Canyon, dove entra in contatto con James Taylor e Joni Mitchell, vale a dire il meglio del west coast folk degli appena nati anni settanta.
Della sinergia che si viene a creare tra questo gruppo di musicisti ne beneficeranno tutti i soggetti coinvolti, non ultimo Taylor che si innamorerà di You've got a friend, una delle tante gemme di questo lavoro, al punto da reinciderla e ottenere uno dei suoi più grandi successi di sempre.
Ma tutta la tracklist di Tapestry si può definire con l'ossimoro di greatest hits di inediti, non potendo prescindere il recensore dall'ignorare nessuna delle dodici tracce (quattordici nell'edizione in cd) presenti in scaletta, ognuna delle quali abbaglia di luce propria, come So far away, It's too late o Where you lead (utilizzata nel serial Gilmore girls - Una mamma per amica).
 
Alla fine, le parole meglio spese riguardo a Tapestry non sono quelle contenute in una delle innumerevoli recensioni che dal 1971 hanno avuto come soggetto l'album, ma quelle che accompagnano il semplice invito ad utilizzare il disco come infallibile soul healer.
 

giovedì 20 agosto 2015

Lita Ford, Live & deadly (2014)

 
Non è elegante indicare l'età di una signora, e allora mi limiterò a ricordare che Lita Rossana Ford ha inciso il suo primo album con le Runaways a diciotto anni, nel 1976.
Discreta cantante e ottima chitarrista, la Ford viene aggregata a questa all female band costruita a tavolino, riuscendo a farsi notare nell'ambiente quel tanto necessario a permetterle (dopo quattro album) di lanciarsi in una carriera solista che le regalerà poche soddisfazioni commerciali ma una buona visibilità nell'ambito del metal melodico.
Insomma, con tutto il dovuto rispetto, non certo una artista imprescindibile. Una però che ci ha sempre messo onestà e anima, riuscendo, nel tremendo mondo del music biz americano, a costruire rapporti solidi e duratori con i colleghi artisti.
Live & deadly , pur pubblicato nel 2014, testimonia in realtà un concerto registrato nel 2000 e pertanto comprende esclusivamente materiale risalente ai primi sei lavori di Lita (1983/1995), vale a dire il periodo migliore della suo percorso artistico, successivamente al quale seguirà una pausa lunga quattordici anni prima di tornare ad incidere materiale nuovo.
Non possono dunque mancare tutti i suoi classici più noti (Kiss me deadly, Rock candy, Black widow, Hungry, Shot of poison), i regali degli amici Ozzy Osbourne (Close my eyes forever) e Nikki Sixx (Falling in and out of love), ma anche solide dimostrazioni di tecnica chitarristica (lo strumentale The ripper).
 
Inguaribili nostalgici e aficionados del metal più educato sicuramente apprezzeranno.

lunedì 17 agosto 2015

Justified, stagioni 1 e 2

 
La mia passione per il sud degli Stati Uniti è prevalentemente legata alla musica di quelle parti: blues, folk, country, tejano, blugrass, anche se, con il tempo, e anche grazie ad uno storico viaggio coast to coast nel quale ho attraversato in macchina Tennesse, Mississippi, Arkansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona, Nevada e California, ho cominciato a subire il fascino di quella gente e quei luoghi, nonostante l'orientamento politico che lì va per la maggiore sia quello di destra tendente al reazionario e malgrado il viscerale legame con le armi da fuoco.
Ecco, chiunque, come me, provi questo tipo di attrazione verso quelle parti non può assolutamente perdersi Justified, serie trasmessa dal canale americano FX dal 2010 e ispirata ad una serie di racconti di Elmore Leonard.
Volendo fermarsi alla superficie, si tratta di una buona produzione genere crime, una di quelle in cui, tra alterne fortune dei protagonisti, il lieto fine è garantito e i buoni trionfano sempre. Per tracciare una linea di confine: non siamo dunque dalle parti di True detectiveThe Wire o The Shield.
 
Quello che fa amare la serie, oltre ai dialoghi che alternano sapientemente ironia e smargiassate da vecchio west, i plot semplici ma avvincenti e un cast azzeccato, nel quale spicca il protagonista Timothy Oliphant (così handsome & cool nel suo ruolo da US Marshall da provocare attacchi incontrollati di invidia maschile) ma emerge anche un Walton Goggins misurato e spettacolare, è l'ambientazione della storia: le montagne Appalachi, la città di Lexington e la contea di Harlan, nel Kentucky dove, tra miniere di carbone, povertà, fucili, razzismo e delinquenza assortita, le famiglie (i Givens, i Crowder, i Bennett) si fanno la guerra da generazioni, attraverso faide spesso sanguinose e interminabili.
 
Insomma, un poliziesco al tempo stesso classico e atipico, con una spiccata personalità che lo fa emergere dalle tante produzioni americane di analogo tenore.
Sono felice di avere ancora (almeno) quattro stagioni davanti a me.

giovedì 13 agosto 2015

80 minuti di The Strokes

Ero convinto di essermi già occupato degli Strokes nell'ambito di questa rubrichetta e invece mi sbagliavo. Rimedio oggi con un bel twenty tracks che ripercorre cronologicamente la discografia della band newyorkese attualmente in tour in Europa. La parte del leone, con sei pezzi sugli undici complessivi della tracklist, non può che farla This is it, album che nel 2001 ha letteralmente spaccato e che è indicato unanimemente come tra i più importanti del primo decennio del nuovo secolo.
A quel disco ne sono seguiti altri quattro (oltre agli immancabili progetti solisti del frontman Julian Casablancas e del chitarrista Albert Hammond jr - sì, figlio di quel Albert Hammond - ) che non sono mai riusciti a ripetere la magia del primo.

1. The modern age
2. Someday
3. Last nite
4. Hard to explain
5. New York City cops
6. Take it or leave it
7. Reptilia
8. 12:51
9. Under control
10. The end has no end
11. I can't win
12. You only live once
13. Juicebox
14. Heart in a cage
15. Under cover of darkness
16. You're so right
17. Taken for a fool
18. All the time
19. One way trigger
20. All the time

lunedì 10 agosto 2015

Motley Crue, Motley Crue (1994)


Nel 1994 il glam-metal era molto e sepolto. Nuove forme di musica dura avevano preso il suo posto nel cuore degli appassionati, il trend imperante era la contaminazione e persino il cosidetto grunge aveva esaurito la sua spinta propulsiva. In questo contesto musicale i Motley Crue erano esageratamente fuori posto. Sembrava passato un secolo dal successo travolgente di Dr Feelgood e dall'interminabile tour mondiale che ne era seguito, ma in realtà erano trascorsi solo pochi anni. Anni nel quali la band era contemporaneamente al massimo della creatività, al minimo della tossicodipendenza e allo stremo delle forze. L'acrimonia e i rancori accumulati nel tempo soprattutto dal duo Sixx-Lee nei confronti del singer Vince Neil erano deflagrati quando il biondo singer si era dimostrato poco interessato alle registrazioni del nuovo album disertando ripetutamente la sala registrazione. Questo comportamento, che di norma era tollerato vista la poca professionalità complessiva dei membri della band, improvvisamente diventa motivo di licenziamento in tronco di Neil. La ricerca di un nuovo frontman si ferma quando viene intercettato John Corabi, cantante degli emergenti Scream, che si erano fatti notare grazie al loro debutto Let it scream.

Con l'entusiasmo del novellino Corabi e la ritrovata voglia di lavorare duro del resto dei Crue, la rinnovata line-up dà vita a quello che risulterà essere l'album più atipico dell'intera discografia della formazione e al tempo stesso il migliore dal punto di vista della convinzione, della compattezza e dell'impegno profuso da tutti.
Se qualche critico dell'epoca, pigramente, aveva definito il disco grunge, non è perché l'album necessariamente lo fosse, ma perché il mood della canzoni va a pescare nello stesso bacino in cui gettavano le lenze Alice in Chains o Soundgarden, cioè l'hard-rock dei settanta. In particolar modo nella matrice blues che stava a capo di band come i Led Zeppelin o i Bad Company, come emerge chiaramente dai riff di chitarra di Mick Mars, finalmente capaci di librarsi oltre il pesante fardello dei pattern della casa e trasformarsi in affilati rasoi sonici che fendono le composizioni.
Per non parlare dello scarto tra Corabi e Neil. Pur trattandosi di stili vocali completamente diversi (sporco il primo, acuto il secondo), basta la partenza di Power to the music per capire che i Motley Crue hanno finalmente un cantante vero che surclassa il precedente. Non solo. John infatti era anche un valido chitarrista e la formazione a due asce permetteva un'ulteriore evoluzione al sound dei Crue.
E poi i testi, che, grazie a dio, finalmente escono dagli steccati stereotipati e misogini che avevano fin qui caratterizzato i brani della band, per infilarsi in tematiche più ampie, che accarezzano il sociale e l'attualità.
Persino la durata dei pezzi è in discontinuità rispetto alla tradizione della casa. Laddove infatti la durata media delle composizioni viaggiava sui tre minuti e mezzo, qui i due terzi della tracklist viaggia tra i cinque e gli oltre sei minuti. Hooligan's holiday e Misunderstood sono i singoli chiamati a rappresentare il lavoro, ma a mio avviso Poison apples, Hammered e l'esplosiva Smoke the sky hanno qualche marcia in più.

La coesione, grande forza del disco, diventa, volendo trovargli un difetto, anche il suo punto di debolezza, mancando effettivamente quei due tre pezzi radiofonici (o appetibili da MTV) in grado di veicolarlo ai piani alti delle classifiche. Forse per questa ragione, unita all'incapacità di aprirsi una linea di credito con nuovi ascoltatori, il lavoro si è rivelato un flop colossale, che ha avuto la coda disastrosa della cancellazione del tour a supporto e, di lì a poco, del licenziamento del buon Corabi. 
Non credo che, nell'anno in cui venivano pubblicati album quali Vitalogy e Superunknow, i Motley Crue avessero comunque mezza chance di riaffermarsi. Erano come un gruppo prog che cercava di sopravvivere nel 1977, dopo l'esplosione del punk. Surclassati. 

Strano scherzo del destino per una band che fino a Girls girls girls ha avuto successo per canzoni che i membri non ricordano nemmeno di avere inciso, a causa del perenne stato di incoscienza causato dalle varie tossicodipendenze, e che viene dimenticata e umiliata quando produce il massimo sforzo per rimanere sobria e pubblicare un disco di qualità. Impareranno la lezione i Motley Crue e con il ritorno di Vince dietro il microfono registreranno uno dei peggiori dischi mai ascoltati: Generation swine.
Ma questa è un'altra storia.

giovedì 6 agosto 2015

80 minuti di Bruce Springsteen, parte 2

L'anno scorso, proprio di questi tempi, postavo una playlist di Springsteen, l'ennesima in oltre trent'anni di militanza nella Bruce-Army, promettendo (o minacciando a seconda dei punti di vista del lettore) un seguito. Beh, ci ho messo un po', ma alla fine eccola qui. I criteri di selezione sono i medesimi della prima. Non c'è altra logica che il piacere di riascoltare determinate canzoni, dalle mitologiche a quelle di secondo piano, alle dimenticate e anche, perché no, ai brani che probabilmente piacciono solo a me.
Fine (per ora).

01. The ghost of Tom Joad
02. Lonesome day
03. Prove it all night
04. My best was never good enough
05. Leap of faith
06. Pink Cadillac
07. Used cars
08. Human touch
09. I'm a rocker
10. Open all night
11. All that heaven will allow
12. My beautiful reward
13. Man at the top
14. Adam raised a Cain
15. Youngstown
16. Car wash
17. Loose change
18. Loose ends
19. Night
20. I'm going down
21. Rendezvous
22. Born in the USA (first acoustic version)

lunedì 3 agosto 2015

The Mavericks, Mono

E' stato difficile riprendersi dallo stupore: i Mavericks, una delle mie band preferite, dopo aver impiegato quindici anni per rilasciare due album (dal post-Trampoline del 1998 sono usciti The Mavericks nel 2003 e In time nel 2013), a meno di due anni di distanza dall'ultima fatica tornano con un nuovo platter: Mono, pubblicato ad inizio 2015.
E il lavoro centra nuovamente il bersaglio, con dodici sfavillanti pezzi contraddistinti da grande gusto retrò, divertimento e nostalgia. Curioso in questo senso che in USA insistano invece imperterriti ad inserire il gruppo nel filone country, nonostante le evidenze conducano, da tempo, da tutt'altra parte.
Il titolo dell'album è suggerito dalle tecniche di registrazione e missaggio: per entrambe infatti è stato utilizzato un unico canale audio (senza che ne risentisse la qualità, a differenza di quanto fatto da Mellencamp per No better than this), in modo da conferire al suono quell'ulteriore gusto vintage che evidentemente stuzzicava i nostri.

Sotto la riconosciuta autorevolezza vocale di Raul Malo, gli storici sodali si muovono con scioltezza e classe, proiettando l'impressione di trovarsi, a seconda del mood dei pezzi, all'Havana, Cuba, dentro al Tropicana, in qualche club fumoso ad Harlem negli anni cinquanta o, nello stesso periodo, in una dance hall della uptown a vedere Elvis o Frank Sinatra.
Così la sensuale partenza latina di All night long ti prende per mano e ti porta al centro della pista da ballo, mentre il melodic ska di Summertime ti fa venire voglia di spiagge bianche, acque verdi e cocktail colorati adornati con frutta e canonico ombrellino.
Raul Malo è davvero unico nella sua capacità di mutare registro e tonalità, passando da interpretazioni tenorili a fraseggi baritonali senza mai perdere la bussola, così da vestire su misura ballate zuccherine come Pardon me, evergreen style come What am I supposed to do, shuffle alla Stories we could tell, blues anni cinquanta The only question is, sempre in maniera convincente.
Mono non spara le sue cartucce tutte nello start up del disco, così come è purtroppo consuetudine in questa epoca di ascolti frettolosi e bulimici, dove, se non catturi l'attenzione dell'ascoltatore entro la traccia numero due il disco finisce nel cestino. Qui potete approcciare la tracklist da qualunque punto vogliate: ad attendervi ci saranno comunque melodie semplicemente perfette, refrain killer, un dolcissimo gusto vintage e, dietro una tecnica mostruosa, una contagiosa sensazione di spensieratezza.
In una parola: i Mavericks.