martedì 27 gennaio 2015

I MIGLIORI DISCHI DEL 2014

POSIZIONE NUMERO TRE - VOTO 7

Foo Fighters, Sonic Highways
La pesantissima eredità dell'hard rock americano pesa come un fuscello sulle spalle della gang di Dave Grohl.
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Gaslight Anthem, Get Hurt
Songwriting di spessore, riff, cori killer ed introspezione. The Gaslight Anthem, who else?

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Old Crow Medicine Show, Remedy
Musica per il perfetto all night long redneck party.

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POSIZIONE NUMERO DUE - VOTO 7,5

Sturgill Simpson, Metamodern Sounds in Country Music
Il country del terzo millennio, tra tradizione e echi lisergici.
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Bob Wayne, Back to the camper
Anche gli outlaw più irriducibili hanno un cuore. Quello di Bob Wayne batte, a sorpresa, qui.
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POSIZIONE NUMERO UNO - VOTO 8

Blackberry Smoke, Leave a scar - Live in North Carolina
Anche se si tratta di un live senza inediti, Leave a scar si merita presenza in graduatoria e primo posto del podio oltre che per la sua qualità, per avermi aperto lo scrigno dei tesori dei Blackberry Smoke.
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Matt Woods, With Love From Brushy Mountain
La grande bellezza del country/folk.
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MENZIONE SPECIALE

Inside Llewyn Davis, Soundtrack
Grande merito ai Cohen per averci fatto (ri)scoprire Dave Van Ronk e la sua musica sofferente ed empatica.
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lunedì 26 gennaio 2015

ASPETTANDO LA LISTA DEI MIGLIORI DISCHI DEL 2014

Il gioco è sempre lo stesso ma le regole sono cambiate. 
Lo so, sembra il lancio di una serie tv arrivata spompata alla dodicesima stagione, però sintetizza bene i contenuti di quello che, almeno per me, è da sempre uno dei post più attesi e divertenti dell'anno.
Tutti gli eventi che hanno (s)coinvolto il mio 2014, primo fra essi il fallimento della mia azienda e l'aumento di responsabilità in ambito di attività sindacale, mi hanno sottratto non tanto il tempo impiegato per l'ascolto dei dischi (che essendo perlopiù legato ai viaggi in auto resta costante), quanto piuttosto le energie mentali da radunare per elaborare dei pensieri di senso compiuto da mettere su carta on line. Come conseguenza diretta il numero complessivo di post è diminuito, passando dalla media di tre a quella di uno a settimana  e, a ruota, lo stesso è accaduto per le recensioni.
Ho mollato un po', è vero, ma ho anche rinunciato a qualunque velleità da "critico professionista", prendendomela comoda con la sedimentazione degli album ed esprimendo le mie considerazioni anche a diversi mesi di distanza dall'uscita dei dischi. Mi sono dedicato solo a ciò che mi andava di ascoltare nel dato momento, non assecondando necessariamente i miei gusti canonici (per fare un esempio ho ascoltato pochissima americana, riuscendo a trovare l'ispirazione per mettere sotto il nuovo di Lucinda Williams, universalmente riconosciuto come capolavoro, solo in questi giorni), nella consapevolezza che per le cose di valore il tempo prima o poi si trova.
Volendo puntualizzare, la lista di dischi che seguirà non è nemmeno specchio fedele dei miei orientamenti musicali dell'anno, visto che il 2014 ha visto il prepotente ritorno dell' hard rock/heavy metal, ma quasi sempre invecchiato di almeno vent'anni e quindi non candidabile per la competizione.

Quindi, ecco come mi sono organizzato: una volta identificati i miei dischi preferiti, a differenza degli anni precedenti, non ho operato "forzature" per raggiungere il numero prefissato di dieci (o addirittura quindici) titoli e ho chiuso i giochi. Non avendo un disco che si staglia sugli altri, ho distribuito gli album per fasce contraddistinte da un giudizio espresso in voti da zero a dieci. Tutto qui.
So di ripetermi ma voglio ribadirlo: questa non è la classifica dei must have  del 2014, ma semplicemente la lista dei cd che ho più amato nel corso degli ultimi dodici mesi. I titoli che finiranno degli annuali per essere tramandati ai posteri sono ben altri. Questi, al massimo potrebbero trovare spazio nella mia personalissima capsula del tempo.
A domani.





venerdì 23 gennaio 2015

Anarchy Inc.: Sons of Anarchy 6 e 7


Nonostante per me restino una grande passione, ultimamente non sto scrivendo più di serie TV. Non posso però esimermi dall' esprimere qualche considerazione sulla conclusione di Sons of Anarchy, saga che ha sempre trovato spazio su queste pagine e che nel tempo è significativamente cresciuta in budget, audience, riscontri sulla pop culture e ...riflessi nella vendita di Harley.
Sputo subito il rospo: pur rendendomi conto che non sia facile, nemmeno per un fuoriclasse come Kurt Sutter, riempire i tredici episodi di ogni stagione avendo tra le mani un canovaccio abbastanza statico basato sulle gesta di una gang di criminali in motocicletta, è tanta la delusione per la qualità dello script delle ultime due stagioni del serial.
 
Molto si è detto sulla svolta negativa assunta da SoA con la dipartita di Opie, (Ryan Hurst) personaggio cardine per l'equilibrio psicologico di Jax (Charlie Hunnam), ma a mio avviso tutta l'impalcatura della storia ha subito un durissimo contraccolpo anche con le uscite di scena di Clay,  (Ron Perlman) che riempiva le inquadrature con la sola presenza fisica e, in misura minore, di Otto (interpretato dallo stesso Sutter), memoria storica del club e sorta di parafulmine per tutte le malefatte dei suoi soci.
Privata di questi personaggi, la sceneggiatura ha cominciato a farsi ripetitiva, a girare intorno a se stessa, e anche la sconvolgente conclusione della sesta stagione non è bastata per risollevare le sorti di una annata con troppo fumo attorno all'esiguo arrosto costituito del conflitto Tara / Gemma.
Troppi episodi, troppi filler, troppe sottotrame inconcludenti, troppa violenza non realmente necessaria allo sviluppo della storia.
Insomma di due stagioni se ne poteva tranquillamente produrre una e forse sarebbero comunque avanzati una manciata di episodi.
Nemmeno l'inevitabile scontro finale tra l'ape regina Gemma e il figlio Jackson regala particolari sorprese, così come la sorte di Jax stesso è troppo accondiscendente verso il personaggio, oltre ad essere realizzata tecnicamente in maniera imbarazzante.
Che abisso da The Shield, la precedente opera di Sutter. Anche in quel caso, nel corso delle sette stagioni, abbiamo assistito ad alti e bassi d'ispirazione, ma la media si è sempre mantenuta a livelli d'eccellenza e la stagione finale si è dimostrata lucidissima nel perseguire il proprio obiettivo che prevedeva la sistematica distruzione dei personaggi cardine della storia.
 
Ciò non toglie la bontà dell'intuizione dietro a Sons of Anarchy e la sua commistione vincente tra modern cowboy life, noir e intrecci shakespiriani, oltre alla creazione di una manciata di characters che, ne sono certo, rimarranno a lungo nell'immaginario collettivo degli amanti di questo genere di serial.
So long, SAMCRO.
Ora non resta che attendere cos'altro diavolo saprà inventarsi il buon Kurt.

lunedì 19 gennaio 2015

Pierpaolo Capovilla, Obtorto collo


Partiamo dall'apparenza. Dai colori. Le copertine dei tre album del Teatro degli Orrori avevano tutte una forte componente di tonalità scure, con una prevalenza di nero a rappresentarne inequivocabilmente i contenuti. Per questo la cover di Obtorto collo, il cd dell'esordio solista di Pierpaolo Capovilla, mi ha totalmente spiazzato. Dal buio siamo passati ad una deflagrazione di luce bianca talmente abbacinante e intensa da consumare i contorni della sagoma del cantante.
Sulle prime trovo la cifra stilistica dell'artwork molto fighetta e temo lo stesso per la direzione artistica dell'opera. Per fortuna mi sbaglio.

Invitami, la traccia di apertura del lavoro, è infatti incisa nella più solida tradizione degli opening del Teatro degli Orrori. Un pezzo minimale, notturno, recitato più che cantato. La musica è confidenziale ma le parole del testo sono sferzanti (La metropoli comincia a starmi stretta / In campagna la gente è troppo ignorante /  Io non mi riconosco più / In questi luoghi e in queste circostanze). 
Nel complesso la prima parte dell'album riesce nell'impresa di portare l'esperienza dei TdO ad uno step successivo, concedendo qualcosa ad una più ampia fruibilità delle canzoni ma senza rinunciare ad una forte connotazione identitaria. Non a caso nel primo gruppo di tracce si trovano i due singoli estratti dall'album: Dove vai e Come ti vorrei.
Stilisticamente l'impronta capovilliana è inconfondibile, anche se priva dell'aggressività della sezione ritmica dei TdO o della cazzimma post rock dei One Dimensional Man. Qui ci si muove su terreni più algidi, improvvisamente incendiati dalle asprezze di alcuni passaggi delle liriche e puntellati da raccordi di sax tenore che esplodono senza preavviso come autobombe nella notte silenziosa.
Nell'economia della distribuzione dei pezzi, Irene, la composizione più debole, è piazzata a metà tracklist, come fosse una camera di decompressione che precede un trittico di canzoni claustrofobiche, dalle quali emergono Quando, con l'autore che torna ad interpretare, stavolta in maniera inequivocabile, un personaggio femminile messo alla prova da una relazione degradante e Ottantadue ore, sviluppata sulla figura di Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare e anarchico, deceduto in circostanze mai chiarite. Il pezzo che dà titolo all'album è anche, con la sua melodia sghemba e dissonante ed un'interpretazione alla Nick Cave, uno uno dei picchi dell'opera.
La chiusura di Arrivederci è un altro tributo, stavolta dedicato al poeta Andrea Zanzotto.

Obtorto collo è un'opera sicuramente imperfetta, a tratti ridondante e non sempre efficace a livello di songwriting. Sarebbe però ingeneroso non riconoscere l'eccellenza di una manciata di brani come, ad esempio,  Invitami, Come ti vorrei, Quando e Obtorto collo rispetto al contesto del panorama musicale italiano e alla storia stessa del suo autore. E' inutile continuare a porre l'accento sull'arroganza artistica, croce e delizia della cifra stilistica di Pierpaolo Capovilla: questo tratto caratteriale è senza dubbio componente essenziale del suo talento. A volte può tracimare e rovinare il raccolto ma quando coglie nel segno è capace di scuotere ed emozionare come pochi altri. E quest'album, seppure in misura altalenante e discontinua, ne è l'ennesima dimostrazione. 


giovedì 15 gennaio 2015

Rolling Stones, Brussels affair Live 1973 (2011)


Da tempo non ascoltavo un disco dal vivo del Rolling Stones, probabilmente dall'acquisto di Stripped quasi vent'anni fa. A dirla tutta, è moltissimo che in assoluto non ascolto la band di Richards e Jagger. Durante il periodo natalizio mi è tornata la voglia di farlo e sfrucugliando un po' in rete mi sono imbattuto nella recensione entusiastica di Brussels affair,  official bootleg del 1973, pubblicato solo in versione digital download nel 2011.
Effettivamente non posso che confermare il giudizio estremamente positivo per una registrazione che cattura il momento del tutto particolare della formazione, reduce dall'auto esilio in Francia e dalla pubblicazione del seminale Exile on main street prima e dall'ottimo Goats head soup poi.
Jagger, perfettamente a suo agio nel rivolgersi al pubblico in francese, appare in forma strepitosa così come la band (ricordiamo, oltre a Richards Taylor, Watts e Wyman, senza dimenticare lo Stones aggiunto Billy Preston e un'ottima sezione fiati), che ha un tiro pazzesco.
Gli Stones accantonano per un attimo la propria componente blues (la recupereranno con gli interessi qualche anno dopo, in Love You Live del 1977)  concentrandosi su un groove dai forti connotati soul, errebì e rock and roll e rovesciando sull'audience un'esibizione incendiaria.

La scaletta, oltre agli immancabili pezzi da greatest hits, ma vivaddio senza Satisfaction, è suonata con un vigore lontano dal consumato mestiere, ed è impreziosita da una manciata di canzoni meno consuete che la rendono ancora più accattivante. La tripletta Starfucker (pubblicata su Goats head soup come Star star), Dancing with Mister D e Doo doo doo doo doo (Heartbreaker) spingono il motore a pieno regime e fanno accogliere come un balsamo lenitivo la successiva Angie, così come, più in là nella tracklist, l'uno-due All down the line e Rip this joint, eccita la folla prima del cumshot finale saldato attorno a Jumpin' Jack flash e Street fighting man.
Non potete vedermi ma sto facendo la linguaccia.

lunedì 12 gennaio 2015

Ian Christie, Sound of the beast




Se provate a chiedere a dieci metallari quali siano i loro dischi preferiti del 2014, sarete fortunati se nelle diverse liste troverete due-tre titoli in comune. Questo perchè il metal, più che qualunque altro genere, possiede una forte componente soggettiva,  nella quale percezione e sensibilità dell'ascoltatore spesso prevalgono sul (presunto o reale) valore oggettivo dell'opera. Caratteristica questa che si sposa frequentemente con la ricerca spasmodica da parte dei cosiddetti metalheads dei fenomeni underground più reconditi, da custodire gelosamente come una reliquia o, all'opposto,  da esibire come un vanto personale.

Ecco, partiamo proprio da questo aspetto per recensire Sound of the beast di Ian Christie, visto che lo scrittore svizzero usa il fenomeno dei tape traders come perno centrale della narrazione, ricordando come già dalla fine dei settanta eserciti di ragazzi di mezzo mondo alimentavano un sottobosco culturale estremamente ramificato attraverso il frenetico scambio di cassette duplicate, costituendo così, inconsapevolmente, le fondamenta per l'esplosione della musica metal e forgiando il tratto distintivo e fortemente identitario dell'essere metal kid.  Infatti, non solo gli adolescenti potevano ascoltare musica che faceva inorridire i propri genitori, ma questa musica era anche celata ai più e, almeno fino all'emersione pubblica delle band (dinamica che non sempre si verificava), introvabile nei negozi di dischi. In pratica un eccitante linguaggio segreto patrimonio di una tribù variegata e trasversale.

Gli artisti e le formazioni citate da Christie sono innumerevoli, ma un ruolo centrale nella sua visione d'insieme lo rivestono Black Sabbath prima e Metallica poi. Al gruppo di Lars Ulrich, dagli esordi all'imborghesimento, è concesso lo spazio più ampio del libro e qualche indulgenza di troppo relativamente al periodo successivo alla pubblicazione del black album.

Nelle quattrocento pagine che compongono l'opera c'è spazio per tutte le tappe cruciali di questo genere musicale, dai suoi inizi fino all'alba del nuovo secolo. Lo start up dall'Inghilterra con Sabbath prima e NWOBHM poi, lo sbarco negli USA, le fanzine, le prime compilation, il ruolo di MTV, la bigotta offensiva del Parent's Music Resource Center (PMRC), l'espansione mondiale del metal, i dischi di platino, le formazioni metal provenienti praticamente dall'intero pianeta.
Più di tutto emerge chiara la mission dell'heavy metal: suonare più forte, più veloce, più aggressivo, più tecnico, più oltraggioso, più blasfemo, più esplicito, più offensivo di qualunque altra musica esistente. Per fare questo, nel corso degli anni, migliaia di bands (composte spesso da giovanissimi: si pensi ad esempio ai Possessed o ai Death Angel che hanno realizzato pietre miliari del movimento alternando l'attività musicale alla frequentazione del liceo) hanno caricato strumenti e, idealmente, aspirazioni dentro un furgone scassato per raggiungere i posti dove, in quel preciso momento, se si suonava un determinato sottogenere, bisognava stare: la Bay Area di San Francisco per il thrash, la Florida per il death, Hollywood per il glam, Seattle per il grunge o ancora la Norvegia per il black, la Svezia per il melodic death o la Germania per lo speed.

Gli effetti causati dall'ascolto del metal, ovviamente contestualizzati ai costumi delle diverse epoche, non erano così dissimili da quelli che si erano registrati negli anni precedenti con l'avvento di be-bop, blues elettrico e rock and roll. Tutti questi generi avevano una tremenda, scatenante forza innovativa rispetto alla quale l'audience spesso perdeva i freni inibitori. Solo che al posto di isteria, balli convulsivi e movenze provocanti, il pubblico heavy-metal celebra il proprio coinvolgimento attraverso spettacolari esibizioni di stage diving, headbangin' o mosh pit. E ancora, come la musica metal, anche i precedenti generi di rottura dovettero affrontare le reazioni di una società impreparata, chiusa e bigotta che temeva che Charlie Parker, Elvis o Muddy Waters portassero alla dannazione le anime dei propri figli.
Chistie si sofferma anche su questi aspetti, sulle "persecuzioni" (termine che uso nella sua accezione più elastica) dei metallari, che in alcuni momenti e non solo nei paesi in cui erano presenti dittature religiose o politiche, hanno dovuto affrontare le conseguenze di quella che a conti fatti era solo una passione musicale, trovandosi spesso emarginati nei piccoli centri di periferia, obbligati a trattamenti sanitari in istituti psichiatrici e, in alcuni casi, coinvolti di agghiaccianti ingiustizie (il celebre caso dei tre di West Memphis).
 
Il libro è infine arricchito da numerose schede contenenti i titoli dei migliori album divisi per sotto genere e, come chiosa, dei migliori venticinque album in assoluto (ovviamente secondo il giudizio dell'autore).
 
 
Avendo vissuto, seppure in fasi alterne, l'epoca d'oro del metal ho sviluppato abbastanza giudizio critico per non condividere in toto le considerazione espresse da Ian Christie all'interno della narrazione. Al contrario, in più di un'occasione mi sono trovato a dissentire su come venivano illustrati alcuni argomenti (un esempio su tutti il trattamento riservato al glam, liquidato sostanzialmente come stile untrue). Nonostante ciò riconosco il valore dell'opera, una delle poche (almeno tra quelle disponibili in italiano) ad offrire una panoramica ampia e documentale di una scena che continua a rappresentare, anche e soprattutto dal punto di vista delle vendite, una componente essenziale della musica rock.
Se proprio vogliamo, il limite di Sound of the beast sta nei dieci anni trascorsi dalla sua pubblicazione, elemento questo che impedisce al libro di analizzare accuratamente il fenomeno dell'esplosione di internet, del file sharing (solo accennato per la controversia Metallica - Napster) e dei numerosi spazi che il web dedica all'heavy metal.
Ecco, un'appendice all'opera sarebbe quanto mai opportuna e gradita.
 

venerdì 9 gennaio 2015

Shaman's Harvest, Smokin' hearts & broken guns



Ci sono album che rimangono impressi nella memoria e che idealmente vanno a costituire la discoteca di una vita e poi ce ne sono altri che ti fanno trascorrere alcuni momenti piacevoli senza avere nessuna pretesa di lasciare tracce nella tua esistenza.
Come potete immaginare Smokin' hearts and broken guns degli Shaman's Harvest si colloca nella seconda categoria.
Il gruppo del Missouri, attivo sulla scena hard rock/nu metal da poco meno di dieci anni, in passato è riuscito a mettere la testa fuori dall'anonimato grazie ad un singolo di successo (Dragonfly, qui inserito come bonus track in versione acustica) e alcuni pezzi prestati al wrestling (Broken dreams, End of days), a testimoniare la vocazione musicale tutt'altro che omeopatica della band. Discograficamente fermi dal 2009 (anche a causa dei problemi di salute del singer Nathan Hunt), gli Shaman's Harvest hanno ricevuto nuovi impulsi e motivazioni a tornare in studio grazie all'interesse attivo manifestato nei riguardi della loro musica da Chad Kroeger dei Nickelback, che li ha aiutati a produrre questo Smokin' heart and broken guns.
L' album si apre con il possente e irresistibile Dangerous, pezzo ignorante quanto basta per raggiungere la nostra parte più buzzurra, e poi mette in fila disciplinatamente undici pezzi tra midtempo alla P.O.D. (Here it comes); immancabili ballate introspettive (The end of me; In the end); assalti da sfrenato headbangin' (Country as fuck); cover dalle quali era forse lecito aspettarsi una maggiore badass attitude (Dirty Diana di Michael Jackson).
Classico album con una manciata di pezzi buoni e altrettanti filler, divertente senza l'intenzione di essere memorabile.

mercoledì 7 gennaio 2015

Sturgill Simpson, Metamodern sounds in country music

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Quando la situazione in casa lo consente, il bagno in vasca diventa uno dei momenti di massimo relax della giornata. Me la prendo comoda preparando accuratamente l'acqua, spegnendo le luci e accendendo magari delle candele, comunque mettendo sempre della musica di sottofondo.
La prima volta che ho ascoltato Metamodern sounds in country music mi trovavo in questo stato, completamente immerso nell'acqua profumata e bollente, con la mente che vagava libera. Avvertivo la musica come provenire da un luogo lontano, imprecisato. In quel limbo tra coscienza e incoscienza, non mi sono accorto subito che la delicata melodia acustica di Just let go era già da qualche istante confluita in un impasto acido psichedelico fatto di riverberi, distorsioni e sovrastrati sonori non dissimili a quelli usati dai Led Zeppelin in Whole lotta love. Ero precipitato nella traccia numero nove della tracklist: It ain't all flowers. Un'esperienza quasi mistica, anche se non esattamente quello che ti aspetti da un album di traditional country.

D'altro canto la copertina dell'album (che in qualcosa richiama Red headed stranger di Willie Nelson) avrebbe dovuto instradarmi. Quello sfondo cosmico ad incorniciare l'immagine seppiata di Sturgill non poteva essere buttato lì ad minchiam.
E infatti Simpson, dall'alto di una voce perfettamente coerente con il genere honky tonk ma capace di spaziare praticamente in ogni stile, dopo aver fatto intravedere le sue potenzialità nell'esordio dell'anno scorso (o meglio del 2013), ha fatto emergere più pienamente la sua personalità e le sue sfaccettate influenze con un disco che appena sotto la patina di ottimi pezzi country nasconde tutto un universo allargato di mondi oscillanti e dissonanze.
L'ottimo attacco di Turtles on the way down e il successivo outlaw style Life of sin (Quality of life has got me down / Well sex is cheap and talk is overrated / And the boys and me still working on the sound) mettono subito in chiaro la disinvoltura con cui l'artista del Kentucky si muove nel campo da gioco del country tradizionale (che molto deve a Haggard e Jennings) e la sua ottima capacità di songwriting.
Come una formidabile sirena Simpson dipana le sue straordinarie melodie attirando l'ascoltatore in mare aperto grazie al fascino di pezzi come Living the dream (a dispetto del titolo una corrosiva critica sul vivere americano con versi come I don't have to do a goddamn thing / except sit around and wait to die), la cover di The promise della band inglese When in Rome interpretata con piglio da cantante confidenziale, il pure honky tonk di Long white line, il delizioso country gospel di A little light fino all'introspettiva Just let go di cui parlavo in premessa. A quel punto, l'incauto marinaio/ascoltatore non può più sottrarsi alle spire soniche che lo spingono giù, nel vortice psichedelico nei quasi sette minuti di It ain't all flowers. E se non proprio dolce, il naufragar in questo mare, è sicuramente molto sciamanico.

Ci sono vari modi di immettere linfa vitale nel country sottraendolo alla mercificazione spicciola propria di uno dei pochi generi rimasti (insieme al metal) a reggere le sorti del mercato discografico. Di certo è maledettamente complicato coniugare l'amore per questa musica con la spinta innovativa necessaria a tirarla fuori dai rassicuranti schemi moderni. Si rischia l'isolamento (come gli outsider Bob Wayne o Matt Woods) o di perdere la brocca (come purtroppo a volte capita a Hank III). Sturgill Simpson sta cercando la sua via al country percorrendo una strada che, sebbene sia solo agli inizi, già ha detto molto. La curiosità sulle scelte future di un così dotato artista è tanta: continuerà a produrre musica al tempo stesso confortevole e spiazzante o accetterà un produttore di successo e si consegnerà alla corazzata CMT
Probabilmente lo scopriremo presto. Intanto Metamodern sounds in country music è uno dei dischi più significativi dell'anno appena terminato.

lunedì 5 gennaio 2015

Ben Vaughn, Texas road trip


Ben Vaughn è in giro da un po'. Se non lo conoscete o il suo nome vi dice qualcosa ma non riuscite bene a metterlo a fuoco, è perché, pur avendo oltre trent'anni di discografia sulle spalle, l'indie americana suo marchio di fabbrica (presente, oltre che nei suoi album anche nelle diverse collaborazioni con cinema e tv), è sempre stata a margine del music business che conta. Perciò, per scelta o rassegnazione, l'artista di Philadelphia ha cominciato ad affezionarsi al suo isolamento e alla sua indipendenza,  smettendo di curarsi anche delle dinamiche promozionali che, in ogni caso, ormai esistono solo per i "top player". E' anche per questo che il ritorno dopo otto anni di assenza di Ben, celebrato con due dischi nuovi di zecca che rispecchiano le sue diverse anime, non viene celebrato nemmeno sul sito personale dell'artista. Una scelta, in un epoca in cui le notizie corrono sui social network alla velocità della luce, da beautiful loser.
Di Desert trailer sessions, registrato all'interno di una vecchia roulotte Silver Streak solo con l'accompagnamento della chitarra,  parleremo in seguito. In questa sede rivolgiamo la nostra attenzione allo scoppiettante Texas road trip, un fulminante ten tracks da trentuno minuti imbevuto della passione per quel melting pot musicale che agita il territorio tra gli USA e il Messico.
Tejano o se preferite Tex mex sugli scudi quindi, con i santini di Ry Cooder, Sir Douglas Quintet e Flaco Jimenez a sorridere sornioni già sull'attacco di Boomerang e a ridere di gusto davanti alle fisarmoniche, ai violini e alle vihuela che incendiano Miss me when I'm gone e Fox in the hole.
Texas rain rallenta i giri del motore attraverso un mood neanche a dirlo da highway polverosa e deserta, mentre le scarne ma poderose contaminazioni rockabilly di Sleepless nights, Seven days without love e Six by six tornano ad attivare la modalità più caciarona dell'album.
Un discorso a parte merita Heavy machinery, affasciante, spettrale e notturna, per la quale credo di non farla fuori dalla tazza nell'evocare lo stile notturno di Stan Ridgway con o senza i Wall of Voodoo.
Se amate il genere o volete avvicinarvici attraverso una nuova release (a seguire sarebbe doveroso il recupero dei classici), Texas road trip è il bignami perfetto: divertimento, atmosfera e rispetto della tradizione vanno festosamente a braccetto con una manciata di inediti nati dall'ispirazione di un artista schivo e appassionato che, speriamo, da oggi cominci a restarvi più presente.

venerdì 2 gennaio 2015

Chronicles 43

In casa siamo tutti amanti dei gatti. Niente di strano, non fosse che l'intera famiglia soffre di allergia specifica a questo animale. Dovessimo stilare una graduatoria dell'intensità della patologia, io mi stabilirei saldamente alla prima posizione con un'allergia all inclusive (un crescendo rossiniano di reazione epidermica, raffreddore, tosse e asma), la mia sweet half al secondo posto e Stefano al terzo. Col tempo dunque ci siamo rassegnati a non gratificare i gattari che albergano in noi. Poi qualche settimana fa qualcosa è cambiato. Mio figlio apprende da un programma televisivo su questi piccoli felini, che una specie precisa di gatto, il siberiano, a fronte della scarsa produzione della proteina Fel D1 (elemento presente nella saliva e a quanto pare causa scatenante dei sintomi allergici), sarebbe addirittura considerato anallergico.
La notizia è di quelle dirompenti e subito ci mettiamo in cerca di un allevamento selezionato di siberiani. Ne troviamo uno disponibile al test (cioè il contatto con gli animali) in provincia di Parma e così una domenica ci mettiamo in macchina carichi di aspettative e partiamo.
Giunti a destinazione mi si presenta una scena che normalmente mi farebbe scappare a gambe levate: in una stanza di meno di venti metri quadrati riposano pigramente una mezza dozzina di mici, che, probabilmente abituati al viavai di visitatori, si dimostrano subito molto affabili e disponibili alle carezze. Mentre scambiamo pareri e informazioni con i proprietari dell'allevamento, sfoghiamo speranzosi la nostra smania repressa di possedere uno di quei felini, accarezzandoli senza soluzione di continuità.
E più registriamo l'assenza di reazioni allergiche e più palpiamo e accarezziamo gatti come se non ci fosse un domani. La cosa va avanti per una decina di minuti, tempo che comunque per me è di tutto rispetto. Poi, come un orgasmo al contrario, sento arrivare da lontano i primi sintomi della reazione allergica che subito si traducono in starnuti e prurito alla gola, e la dura realtà irrompe spazzando via ogni illusione.
Fuori, andando verso l'auto, anche la sweet half comincia a pagare il prezzo di questa full immersion, mentre Stefano sembra l'unico ad essere uscito indenne da quella titanica prova di forza.
Le considerazioni finali dei proprietari dell'allevamento ("qui l'ambiente è saturo, bisognerebbe provare con un singolo gatto in un contesto neutro") mitigano solo parzialmente la delusione e per farci coraggio decidiamo di fare un secondo tentativo prima di rassegnarci definitivamente all'ingiusto destino.
Vabeh, come spesso ci capita, per consolarci abbiamo trovato una trattoria del posto e pranzato con tagliolini al tartufo e polenta e cinghiale che hanno affogato a dovere l'amarezza del sogno infranto.
Tutto sommato, in attesa di alzare il morale delle truppe e organizzare un secondo assalto ai siberiani, la giornata non è stata completamente sprecata.