giovedì 28 ottobre 2021

Il mostro della cripta

Bobbio (Piacenza), 1988. Giò Spada è un ventenne appassionato di cinema che si diletta, assieme agli amici nerd come lui, a girare film horror casalinghi. Appassionato di un fumetto indipendente italiano, disegnato da tal Diego Busirivici, si accorge che nell'ultimo numero sono disegnati con precisione luoghi di Bobbio, inclusa una tomba nella quale dovrebbe riposare un mostro. Quando nel paese cominciano ad avvenire strani eventi, che culminano con un orribile omicidio di cui è incolpato proprio Giò, gli avvenimenti precipitano.

Da spettatore, la mia adesione ad operazioni di questo tipo, che tentano di rilanciare il cinema di genere anche in Italia (dove è stato fortissimo fino agli ottanta), è totale. 
Di Misischia avevo visto in sala The end? - L'inferno fuori e avrei voluto vedere al cinema anche quest'ultima fatica (co-sceneggiata e prodotta dai Manetti). Purtroppo non ci sono riuscito, visto che è stato distribuito poco e per un orizzonte temporale insignificante, ma appena Sky l'ha messo in programmazione l'ho recuperato. 
Il mio giudizio finale media tra l'entusiasmo di cui sopra e l'esito finale della produzione, che, purtroppo, qualche falla ce l'ha. Partiamo comunque dagli aspetti positivi, che sono sicuramente la mano dietro la mdp di Daniele, eccezionale soprattutto quando si occupa delle sequenze cariche di suspance, il lavoro di indiscutibile efficacia di effettistica "analogica" del mitologico Stivaletti (se non sapete chi è fate ammenda) e il buon bilanciamento tra atmosfere horror e momenti di comicità, equilibrio che penso fosse uno degli obiettivi del progetto. 
Tra gli aspetti negativi, lo dico con molto affetto e simpatia, la prestazione amatoriale del cast, a tratti davvero respingente (si salva Lillo, ma anche lui appare a volte come spaesato) e qualche dialogo da rivedere. Insomma, se una pellicola esce al cinema è giusto pretendere un livello di professionalità maggiore, altrimenti si fanno salve le buone intenzioni e si pianta la bandierina dell'omaggio agli action/comedy degli anni ottanta, ma poi si torna esattamente al punto di partenza e il movimento non cresce. 
E sarebbe un peccato, perchè in operazioni come questa si respira forte una smisurata passione per un certo cinema, e io altri film di Misischia vorrei proprio vederli.

giovedì 21 ottobre 2021

Valerio Evangelisti, Il sole dell'avvenire - Vivere lavorando o morire combattendo

Romagna, 1881. Attilio Verardi, ex garibaldino, fa parte di quella vastissima fascia di popolazione che combatte ogni giorno per un posto di lavoro (da operaio o da bracciante) che gli permetta, nella miseria più nera, di mettere qualcosa in tavola e sperare in un domani migliore. In un contesto sociale tumultuoso, popolato da anarchici, rivoluzionari, socialisti di diverse gradazione di rosso, e, dall'altra parte della barricata, una repressione crudele e scientifica delle forze dell'ordine al servizio della protervia dei padroni, l'affiliazione ai movimenti che si propongono di tutelare i poveracci è quasi obbligatoria, ma non priva di conseguenze. 

La mia sinossi del romanzo si concentra su uno dei protagonisti del libro, in realtà l'autore divide la sua opera in tre soggettive, Attilio appunto, la moglie Rosa e il figlio Canzio. Attraverso gli occhi di un uomo, una donna e un ragazzo, Evangelisti ci narra vent'anni di storia italiana, dal punto di osservazione della Romagna, terra attraversata da un attivismo politico fortissimo, contraddistinto, come da sempre nell'ambito della sinistra, da profonde divisioni. Oltre che appassionante, la lettura è un importante remind (per me, per altri potrebbe essere una scoperta) su cosa erano i rapporti di classe nell'Italia post risorgimentale, con i lavoratori che si spaccavano la schiena per compensi che gli permettevano a malapena di sopravvivere, e che erano disponibili a viaggiare ovunque ci fosse una minima prospettiva di lavoro. In questo scenario, Attilio e i suoi sfortunati compagni si spostano dalle bonifiche di Ostia (quelle che di cui i nostalgici attribuiscono il merito al duce) alla Sardegna e fino alla Grecia, in una spirale verso il basso che sembra non avere fine, alla quale si sopravvive esclusivamente grazie ad una solidarietà commovente tra sventurati. Allo stesso tempo vediamo il sadico sfruttamento di braccianti e mezzadri (la famiglia di Rosa), che, oltre ai beni, si vedono privati della dignità, sottoposti come sono a soprusi di ogni genere. Co-protagonisti della narrazione, personaggi realmente esistiti, dai "big" Turati e Costa a figure magari meno note ma che hanno lasciato il loro segno sui libri di storia (e su wikipedia).

Il romanzo fa parte di una trilogia (i capitoli successivi sono Chi ha del ferro ha del pane e Nella notte ci guidano le stelle) che, attraverso il focus sulle generazioni dei protagonisti, copre la storia del Paese fino al 1950 e, se non si fosse capito, lo consiglio caldamente.

giovedì 7 ottobre 2021

Prince, Welcome 2 America

Spulciando un pò il blog, mi sono reso conto di aver parlato quasi nulla di Prince. Eppure c'è stato un periodo abbastanza ampio, diciamo dai primi ottanta ai primi novanta, nel quale l'artista di Minneapolis ha occupato una buona porzione dei miei ascolti. In più, nella comitiva di amici dell'epoca, spesso era l'anello di congiunzione che conciliava i diversi gusti musicali. Piaceva insomma ai fan di Springsteen come a quelli dei Duran Duran, a quelli degli U2 e a chi ascoltava Vasco Rossi. Molti album di quel periodo (ma non Purple rain, con il quale fece il botto in Italia), per motivi squisitamente soggettivi, potrebbero tranquillamente rientrare nella lista dei miei dischi da isola deserta (1999, Around the world in a day, Parade, Sign o' the times, Lovesexy). Da li in avanti mi sono spostato su altro e poi, beh, la storia di Prince è nota, le proteste contro le major, la rinuncia al nome, la bulimia discografica, i dischi finiti e bloccati, gli anni zero un pò in ombra, la morte nel 2016.

Welcome 2 America non è il primo suo disco postumo (il terzo, per la precisione) e, come spesso mi accade, non so esattamente perchè abbia deciso di ascoltarlo, a differenza degli altri, fatto sta che l'ho fatto e ci sono rimasto sopra anche parecchio. L'opera non è il capolavoro che da qualche parte ho letto, probabilmente in qualche giudizio prevalgono i sentimentalismi per l'uomo che non c'è più. La tracklist avrebbe bisogno a mio avviso di una sforbiciata di brani e, inoltre, alcuni pezzi dubito avrebbero visto la luce se Prince fosse ancora tra noi, tuttavia un nucleo di sei - otto pezzi è di assoluto valore. A partire dalla title track, uno spoken che rimanda, nelle modalità e nelle tematiche sociali trattate, alla buonanima di Gil Scott-Heron. Poi abbiamo il classico soul nero princiano di Born 2 die, il power pop di Hot summer, l'hip hop di Check the record, la ballatona a forti tinte erotiche When she comes e la perfetta gemma di chiusura One day we will all B free

Insomma, a giudicare da buona parte di queste canzoni, i cassetti lasciati da Rogers Nelson pare abbondino di roba buona. Purtroppo non è lui a selezionarla e deciderne il rilascio, ed eventualmente anche a metterci mano per correggerne in difetti, pertanto i diamanti vanno un pò separati dalla fuffa, ma anche così i (ritardatari) nostalgici degli anni che furono, dovrebbero trovare pane per i loro denti.

lunedì 4 ottobre 2021

Coyote (2021)

Ben Clemens, integerrimo agente di frontiera americano, va in pensione dopo una vita a respingere i migranti clandestini. Divorziato, conduce una vita sostanzialmente solitaria che era riempita dall'assoluta dedizione che metteva nel lavoro. Conclusa l'esperienza nella "migra" decide di dedicarsi a completare la costruzione di una casa che il collega e amico Javier, morto, aveva iniziato al di là del confine, in Messico. Incolpevolmente, sarà invece vittima delle attenzioni del "cartel".

Lo ammetto, mi ha fatto un enorme piacere rivedere in un progetto che confà alle  sue caratteristiche, Michael Chiklis (non vi devo dire quale sia stato il suo ruolo della vita, vero?) e le aspettative, leggendo in giro giudizi incoraggianti, erano state anche abbastanza alte. Alla fine questa nuova serie, la cui prima stagione consta di sei episodi (una scelta probabilmente dettata dal contenimento dei costi di produzione data l'incognita del responso del pubblico), vive di alti e bassi. Si regge su un buon bilanciamento ritmo/tensione e ha in Chiklis un personaggio tutto sommato credibile, invecchiato e un pò appesantito rispetto ai fasti di dieci/quindici anni fa (beh, un fuscello non lo è mai stato), ma, se i produttori intendevano conferirle un afflato realistico l'obiettivo non è raggiunto e, anche se è apprezzabile il tentativo di far emergere le contraddizioni della morale americana, non si sfugge  dai luoghi comuni e dall'immagine folkloristica dei messicani.

Vedremo se la seconda stagione raddrizzerà un pò il tiro. Per adesso una grande pacca sulle spalle a Michael, ma il voto è una sufficienza stiracchiata.

Disponibile su Sky e Now TV.