giovedì 31 gennaio 2019

Seven Seconds (serie tv 2018)

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Dopo un lungo periodo nel quale mi sono tenuto lontano dalle serie televisive (nelle bozze del blog conservo un post - saggiamente mai pubblicato - nel quale comunicavo la decisione radicale di non seguirne più, a vantaggio dei film), e complice il classico mese di prova di Netflix, attivato all'unico scopo di vedere Springsteen on Broadway, vista l'ampissima scelta della piattaforma ho colto qualche consiglio in giro (nello specifico quello del blog amico Come un killer sotto il sole) e ho ricominciato a dedicare del tempo a questa forma di intrattenimento.
Ho scelto dunque Seven Seconds, senza sapere che fosse opera della stessa sceneggiatrice di The killing (Veena Sud). Ed effettivamente mi sono ritrovato nelle dinamiche narrative della sua serie più famosa, anche se in quel caso l'uccisione di una ragazza era avvolta nel mistero e qui invece il responsabile della morte di un ragazzino nero è mostrato chiaramente nei primi minuti del pilot, ma ci ho visto anche echi di un'altra gran bella serie, della quale non ho mai scritto: The night of, con un indimenticabile John Turtrurro.

La storia parte da un tragico incidente stradale, nel quale il poliziotto Peter Jablonski, mentre sta percorrendo in preda al panico una strada innevata che porta all'ospedale dove è ricoverata la moglie, investe qualcosa che scopre poi essere un ragazzino nero in bicicletta. Peter, nuovo arrivo nella narcotici, impaurito, invece di chiamare i soccorsi, contatta la sua squadra di Jersey City, il cui capitano Mike DiAngelo lo persuade a non fare nulla e lasciare il corpo nel fosso dove è stato sbalzato dall'urto, convinto che il ragazzo sia morto e che si tratti dell'ennesimo membro di gang criminale.
Il ragazzo viene trovato molte ore dopo agonizzante, ma vivo, e trasportato in ospedale. Da questo momento cominciano a svilupparsi diverse storylines ad intreccio, che coinvolgono l'onestissima famiglia della vittima, la squadra anti narcotici che ha coperto Jabloski e, soprattutto, il team dei "buoni", composto da due improbabili eroi: K.J. Harper, vice procuratrice distrettuale e Joe "Fish" Rinaldi, investigatore della omicidi.

Seven Seconds depista in continuazione lo spettatore seminando indizi e piste che, nella prassi del genere, dovrebbero condurre in una direzione e che invece vengono abbandonate o che portano da tutt'altra parte. La serie è, a mio avviso, girata molto bene, con una fotografia bellissima, grigia, fredda, sporca, che rimanda a luoghi dove ogni speranza è persa e trasmette sensazione di declino, di ineluttabilità, di tradimento dell'american dream. Non a caso la statua della libertà che si scorge dal New Jersey è sempre di spalle, come ad ignorare ogni richiesta di aiuto. 
Il cast è superlativo, l'angoscia che vive il poliziotto Jablonski (Beau Knapp) ti si appiccica addosso nonostante il crimine di cui si è macchiato, l'empatia verso la viceprocuratrice Harper (Clare-Hope Ashitey), giovane, ma psicologicamente a pezzi ed alcolizzata cronica, è fortissima, così come l'affetto per il suo partner, quel "Fish" Rinaldi (Michael Mosley) che non tiene per sè nemmeno il più corrosivo dei pensieri.
Nonostante non sia stata rinnovata per una seconda stagione, decisione che a mio avviso accresce il valore di una storia che è sacrosanto concludere come è stato fatto, Seven Seconds è una delle serie che più mi ha emozionato e tenuto incollato allo schermo negli ultimi anni, con una sceneggiatura solida e un plot in crescendo, con personaggi e situazioni realistiche, e attraverso i drammi esistenziali di tutti i suoi protagonisti. In aggiunta a ciò ho apprezzato il valore sociale della storia, espresso attraverso le denunce implicite alla società americana (in tema di sanità, corruzione, povertà, derive di intere fasce della popolazione). 
L'amarezza e la rabbia derivanti dalla conclusione della vicenda è il miglior propellente a garanzia della qualità della serie, il fosso e il rialzo del terreno, luogo del supplizio del giovane nero, sono un tragico altare alle storture della società USA.
Davvero Consigliato.

Doveroso post  scriptum: Jonathan Demme (Il silenzio degli innocenti e Philadelphia, solo per citare due titoli della sua lunga filmografia) figura tra i registi che si alternano dietro la macchina da presa (episodio 1X02), ma proprio durante la lavorazione viene a mancare a causa di una lunga malattia. 
A lui è dedicata la serie. 


lunedì 28 gennaio 2019

Whitey Morgan and the 78's, Hard times and white lines (2018)

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Col tempo la memoria comincia a fare cilecca, e allora ultimamente mi impongo di rileggere le mie vecchie recensioni prima di tornare a scrivere dello stesso artista.
Per fortuna l'ho fatto anche per Whitey Morgan, altrimenti vi avrei propinato paro paro l'incipit di Sonic ranch del 2015. Perciò, se lo desiderate, andate e leggerlo e passiamo oltre.
A 38 anni Eric Allen aka Whitey Morgan, assieme ai suoi ormai consolidati 78's, rappresenta quanto di meglio il country/honky tonk possa esprimere. 
Musica densa, sincera, pregna di vita, emozionante, suonata e interpretata come se da questo dipendesse la sopravvivenza dei musicisti coinvolti.
Insomma, una garanzia granitica confermata ancora una volta quando parte la melodia dimessa, malinconica di Honky tonk hell, che apre l'ultimo lavoro del gruppo: Hard times and white lines.
Le classiche caratteristiche del genere outlaw sono tutte presenti nelle liriche di Morgan, il male di vivere affogato nel whiskey e in qualunque altra sostanza (Bourbon and the blues; Hard to get high), la frustrazione derivante dal non avere un posto dove stare (Around here), le storie d'amore (ovviamente) tormentatissime (What am I supposed to do) e l'autentica passione nel suonare la musica del sud degli states, che sfocia in una cover meravigliosa del classicissimo blues degli ZZ Top Just get paid e di Carryin' on del maestro Dale Watson.
Lunga vita a chi tiene duro in questo modo. Lunga vita a Whitey Morgan.


giovedì 24 gennaio 2019

Glass (2019)

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Nel 2000 M. Night Shyamalan mandava nei cinema Unbreakable, un film ideato, girato, prodotto e sceneggiato dal regista indiano naturalizzato statunitense, un atto d'amore verso i fumetti di supereroi, che inconsapevolmente anticipava l'avvento delle multimilionarie saghe dei cine comic, di cui lo Spider-Man di Raimi è stato l'apripista.
L'ottimo lavoro di Shyamalan ci mostrava un uomo qualunque (David Dunn, interpretato da Bruce Willis), che scampa miracolosamente ad uno spaventoso disastro ferroviario e che in seguito, grazie alla conoscenza di un benestante proprietario di un museo di fumetti rari (Elijah Price/Samuel L. Jackson), scopre di essere quasi invincibile. L'esatto contrario di Price, che invece ha una rara malattia delle ossa che le rende fragilissime. Dunn, come da prassi supereroistica diventa un vigilante, che scopre di avere la sua più grande nemesi proprio in Elijah, responsabile del disastro ferroviario e di altre stragi, messe in atto con l'obiettivo di trovare un suo doppleganger, che fosse quindi buono e invincibile.
Nel 2016 Shyamalan gira (oltre a sceneggiare e coprodurre) Split, la storia dello psicopatico  Kevin Crumb (James McAvoy) che, a causa di un disturbo dissociativo dell'identità, possiede almeno ventitre distinte personalità. Kevin rapisce ragazzine considerate impure, con l'intenzione di ucciderle per punirle di non aver mai, nella loro vita, patito sofferenza.
Il film è un thriller psicologico teso e angosciante fino alle sequenze finali, quando, prima sfocia nel sovrannaturale (o almeno ne instilla il dubbio) e poi, in maniera clamorosa e imprevedibile,  crea un collegamento con Unbreakable di sedici anni prima, mostrandoci David Dunn (Willis) che apprende dalla televisione dell'esito della vicenda dello psicopatico Crumb.

Con queste due pellicole quel folle di Shyamalan crea senza clamore e, anzi, quasi occultandolo, un proprio universo supereroistico, nel quale tra il primo e il secondo episodio passano oltre tre lustri e che, soprattutto, arriva allo spettatore con modalità totalmente inedite. A questo universo andava però data una conclusione, perchè, si sa, le saghe devono (o dovrebbero...) sempre concludersi con una trilogia.

Ecco allora che, dopo il primo capitolo intitolato all'eroe (Unbreakable) e il secondo al folle disadattato (Split), il terzo non poteva che richiamare il mastermind criminale, quel Mr. Glass nome d'arte di Elijah Price (Samuel L. Jackson).
Dopo un incipit che ci mostra Dunn e Kevin contrapposti, nel rispetto dei ruoli, l'azione si sposta all'interno di una clinica psichiatrica, dove i due, precedentemente catturati, raggiungono Price. Lo strano gruppo è sottoposto alle cure della dottoressa Ellie Staple (Sarah Paulson) che intende convincerli di non avere super-poteri ma sono di essere fortemente autosuggestionati.
Ovviamente Price, che inizialmente appare in uno stato catatonico, ha capito il vero obiettivo della psicologa e mette in atto il suo piano, come sempre strutturato nei minimi dettagli.

Se ancora non mi era capitato di affermarlo, lo faccio ora: M. Night Shyamalan è uno dei migliori e più completi registi viventi. Al di là dei fisiologici alti e bassi della sua filmografia, il cineasta riesce quasi sempre a trasmettere una visione personale di cinema, dove sono presenti gli elementi che probabilmente l'hanno formato come uomo e artista. In questa visione i comics book hanno evidentemente rappresentato una grande parte, e Glass (ma il discorso si può allargare all'intera trilogia) ne rappresenta l'omaggio più sincero ed emozionante. 
Non è un caso che il filo rosso tra la filosofia supereroistica e la storia di questo universo sia tenuto dal villain Mr Glass: è lui l'unico ad ad avere il quadro completo della situazione, a spingere perchè gli altri personaggi escano dal proprio bozzolo e prendano coscienza dei propri doni, ed è lui a mettere in fila gli eventi (anche eversivi) perchè tutto accada. In questa ottica è perfettamente logico che sia ancora lui a chiudere il capitolo, in attesa del successivo, da qui il suo lascito: "questa non è un'edizione limitata, ma una storia di origini". 

Per chi, come il sottoscritto, è cresciuto leggendo avidamente quelle meravigliose tavole colorate che aprivano una finestra su universi incredibili e meravigliosi, con la visione di Glass, tutto torna magicamente. 
Ma, e qui sta tutta la differenza del mondo con le saghe dei cine comics, Glass risulta godibile ed avvincente anche per lo spettatore a digiuno di meccanismi fumettistici. 

lunedì 21 gennaio 2019

Van Morrison, The prophet speaks (2018)

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Sfida impossibile per il recensore di Van Morrison. Parlare della sua musica senza riferirsi ad essa ricorrendo alla locuzione "di classe". 
Proviamoci. 
Il settantatreenne artista nordirlandese arriva a quota quaranta dischi in carriera (quarantadue, se consideriamo anche quelli con i Them) in uno stato di forma portentoso.
Non sono tra quelli che appena c'è una nuova release di Van the Man si scapicolla ad ascoltarla o che, a prescindere, si spertica in lodi preventive.
Di fatto, non ascoltavo materiale nuovo di Morrison dai tempi di Down the road (2002), mentre, e non potrebbe essere altrimenti, le pietre miliari del passato ciclicamente fanno capolino nelle mie playlist (devo citarle? Astral week; Moondance; Saint Dominic's preview; la collaborazione coi Chieftains Irish heartbeat;il live It's too late to stop now...).

Non so come il dio della melodia ha voluto che inciampassi in questa sua ultima fatica, ma, ancora una volta, grazie a lui il miracolo della vera musica dell'anima mi ha investito con la sua luce rigenerante.
Dentro The prophet speaks Van Morrison riarrangia otto standards, sommandoli a sei inediti, regalandoci un compendio straordinario di old time music che, a volte anche all'interno dello stesso brano, passa con naturalezza dal blues al jazz al soul all'errebì.
Supportato da una band non meno che straordinaria (nella quale spicca il polistrumentista Joey De Francesco), Van vola altissimo su composizioni, tra gli altri, di John Lee Hooker (Dimples), Solomon Burke (Gotta get off my mind); Sam Cooke (Laughin' and clownin') e Willie Dixon (I love the life I live), oltre a regalarci una manciata di brani nuovi che riportano le lancette dell'orologio indietro di quarant'anni (Got to go where the love is; Ain't gonna moan no more; Spirit will provide). 
E quando parte 5 am Greenwich mean time, con quel celestiale vocalizzo "dan-de-dan-dana" il tempo si ferma, e ovunque tu sia, vorresti che quel momento non finisse mai.

Mamma mia, Van, che classe!
Ups...

mercoledì 16 gennaio 2019

Ghost, Prequelle (2018)

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Il dibattito sull'effettivo valore degli svedesi Ghost è sempre aperto, nonostante dal loro esordio "anonimo e mascherato" del 2010 molte cose siano cambiate, a partire dalla rivelazione delle identità dei componenti della band e dalla causa intentata (e persa) dai primi componenti del combo contro il leader Tobias Forge, motivata da mere questioni economiche.
Per quello che mi riguarda però, con questo Prequelle le discussioni stanno a zero. I Ghost tirano fuori un disco incredibile ed intenso, ricco di sfumature stilistiche, senza steccati musicali, dove l'ambito metal centra più per un certo tipo di immaginario proposto (il look, la copertina del disco) che per contenuti.
Per un disco così vario dovrei riprendere le vecchie abitudini e scrivere una recensione "track by track", tanto il mood è spiazzante canzone dopo canzone. 

L'inizio porta sulle spalle la maggiore eredità del filone hard rock nel quale la band continua ad essere inserita, grazie alla potente ma malinconica Rats che ci introduce nel mondo Ghost. Una volta però chiuso il cancello d'ingresso e mosso qualche passo (Faith)  la strada si rivelerà meno decifrabile e più imprevedibile che mai.
L'album infatti trova il suo picco artistico a partire da metà tracklist, con lo strumentale Miasma, ricco di pathos e suggestioni, e nella cui parte finale esplode inaspettato e meraviglioso un sassofono (strumento assolutamente fuori dal canone metal). A seguire arriva Dance macabre un pezzo, che per quanto sia follemente arioso e debitore di certo AOR di fine settanta (Journey?), già a partire dal titolo induce a pensare che la linea di testo "voglio stare con te sotto la luce della luna" sia un pò più oscura di quanto normalmente sia lecito aspettarsi. 
Per quanto a noi italiani ricordi direttamente l'immortale battuta del film Non ci resta che piangere, Pro memoria è un altro apice del disco, con l'ineluttabilità dei suoi versi (don't you forget about dying / don't you forget about your friends death / don't you forget that you will die) e l'incedere struggente, richiamato successivamente anche dal secondo strumentale Helvetesfonster, avvolge l'ascoltatore in una densa foschia sulfurea.
C'è spazio ancora per una traccia classic rock settantiana (Witch image) che avercene oggigiorno e per la funerea conclusione di Life eternal, altro big one dell'opera.
La finisco qui, aggiungendo solo che nell'edizione deluxe del CD sono presenti due bonus track, la scolastica ma divertente It's a sin dei Pet Shop Boys, e la ben più intensa Avalanche di Leonard Cohen.

Per Bottle of Smoke il dibattito sui Ghost si chiude qui, grazie ad un album che fa quello cui la musica dovrebbe essere deputata: regalare mille suggestioni in maniera trasversale a generi ed etichette, ma sempre ad alto tasso emozionale.

giovedì 10 gennaio 2019

All eyez on me, Il film (2017)

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Tupac Shakur è una delle figure più note, ambigue e controverse della scena musicale tutta. Prima di morire, nel 1996 a soli 26 anni, aveva fatto in tempo a diventare l'artista rap con più dischi venduti, raggiungendo il primo posto delle classifiche americane con tre dischi consecutivi (Me against the world, All eyez on me e The Don Killuminati: the 7 days theory, registrato in vita e uscito postumo) nonchè il primo a pubblicare un doppio album di questo genere, ma, al tempo stesso, è stato anche l'artista che più ha diviso pubblico e media a causa delle contraddizioni dei suoi testi, che andavano da tematiche politiche e sociali (i genitori erano attivisti radicali per i diritti dei neri) ad argomenti misogini e gangsta.
Difficile dunque il compito che spettava al regista Benny Boom (scelto probabilmente per la sua vicinanza al mondo hip hop dovuta ai diversi video girati, più che per la sua esperienza cinematografica), che ha cercato di mettere in scena la breve vita del rapper newyorkese.

Nato da genitori attivisti delle Pantere Nere (la madre Alice Faye Williams, a cui 2pac era legatissimo, il padre naturale, ma, soprattutto il patrigno, quel Mutulu Shakur, che per anni figurava tra i primi dieci ricercati dell'FBI) e dopo un'infanzia continuamente in fuga da un lato all'altro degli States (New York, Baltimora, Los Angeles), grazie soprattutto alla permanenza al corrispettivo del nostro liceo artistico a Baltimora (dove conosce e cementa l'amicizia con Jada Pinkett, futura attrice e moglie di Will Smith), Tupac sviluppa il suo talento per lo stile musicale del rap, che lo porterà ad esordire a nemmeno vent'anni con l'album 2pacalypse now.
Da qui un crescendo continuo, condito da conflitti con l'autorità di polizia, fino ad una condanna per molestie sessuali (da lui sempre negate, e il film sposa questa tesi) per le quali sconta nove mesi in un carcere di massima sicurezza, da dove uscirà solo pagando una cauzione da un milione e mezzo di dollari, anticipata da Suge Knight, boss della Death Row Records, altra figura mitologica della scena di quei tempi ("compare" anche nel film Straight outta Compton), noto per i suoi metodi spicci e la sua condotta violenta.
Proprio la firma con la Death Row sarà, indirettamente, l'origine dei problemi che causerà l'epilogo della storia di 2pac, dentro la nota faida tra rapper della east e della west coast, alla quale lui stesso contribuì, principalmente a causa dei dissidi con l'ex amico Notorius BIG, sospettato di aver organizzato un agguato a colpi di pistola contro lo stesso Shakur.

All eyez on me non è a mio avviso un film riuscitissimo. Lo è sicuramente meno, per fare un parallelo che resta nel genere, di Straight outta Compton
A tratti si avverte qualche indecisione nel tratteggiare i momenti più controversi della vita di Shakur, mentre si indugia in altri francamente evitabili. La regia, più adatta ad un tv movie, non aggiunge nulla all'illustrazione della storia, al pari degli altri elementi tecnici (fotografia, montaggio), abbastanza scolastici. Persino la musica non è valorizzata quanto avrebbe potuto e dovuto essere, e questo, in un film così, è probabilmente il difetto maggiore.
Si salva la prova attoriale del quasi debuttante Demetrius Shipp Jr nella parte di Tupac, che ha dalla sua una formidabile somiglianza con l'artista interpretato.
Per il resto, da vedere giusto per chi ignori la storia e voglia farsi un'idea di massima sul personaggio. 

lunedì 7 gennaio 2019

Eminem, Kamikaze (2018)

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Ho sempre pensato che la migliore ispirazione dei rapper bruci più forte di quella degli altri artisti e che, come conseguenza diretta, si esaurisca anche prima. Sono tanti gli esponenti di questo genere che dopo il secondo-terzo album hanno cominciato ad arrancare vivendo del loro fulgido passato prossimo, sfornando lavori insinceri, privi della cattiveria, del veleno di strada che, assieme all'urgenza comunicativa, fungevano da potentissimo propellente iniziale.
Anche Eminem è scivolato in questa spirale. Infatti, nonostante l'affetto dei fan sia rimasto forte e i suoi dischi si siano sempre venduti bene, è indubbio che nei lavori più recenti (soprattutto quelli a cavallo tra gli anni zero e i dieci) la straordinaria verve di Marshall Mathers fosse annacquata tra produzioni troppo pulite e featuring non sempre azzeccati.
E' allora strabiliante come, a pochissimi mesi dal mestiere di Revival (dicembre 2017), ad agosto 2018, questo Kamikaze (album uscito, praticamente a fari spenti) ci restituisca un Eminem in forma smagliante, avvelenato ed ispirato come da tanti anni non lo si sentiva.
Dietro ad una copertina tributo al grandioso Licensed to III dei compianti Beastie Boys, il rapper del Missouri torna a spiegare le vele del suo inconfondibile flow per tredici pezzi e tre quarti d'ora di musica che tolgono il fiato (letteralmente: come nel caso di Lucky you), tengono botta senza annoiare mai con il loro inevitabile carico di dissing (quello contenuto in Not alike, contro il rapper Machine Gun Kelly, ha dato vita ad un botta e risposta in rime che è andato avanti settimane) misoginia e omofobia. 
Ma questo è Eminem e non lo scopriamo oggi.
E comunque io di rap non ne capisco un cazzo.

giovedì 3 gennaio 2019

My Fuckin' Tips: novembre dicembre

ASCOLTI

Whitey Morgan and The 78's, Hard times and white lines
AA/VV, Winds of time - The New Wave of British Heavy Metal 1979/1985
Salmo, Playlist
Bloodbath, The arrow of Satan is drawn
Tyla's Dogs D'Amour, In vino veritas
John Mellencamp, Other people's stuff
Beth Hart, Live at Royal Albert Hall
Van Morrison, The prophet speak
State of Salazar, Superhero
Christine and the Queens, Chris
Tesla, Gold
Assalti Frontali, Profondo rosso
Stratovarius, Visions
Bob Dylan, More blood more tracks (ed. 1 CD)
Danzig, ST 1988
Austin Lucas, Immortal americans
Volbeat, Let's boogie! Live from Telia Parken
Graham Parker, Cloud symbols
Satan, Cruel magic

VISIONI

Amore al primo morso
Polizia accusa: il servizio segreto uccide
Angeli con la faccia sporca (1937)
Seven sisters
Murderock - Uccide a passo di danza
L'uomo sul treno
Fandango
Il buono, il brutto, il cattivo
Demoni 2
La bestia uccide a sangue freddo
La chiesa
L'uomo che sapeva troppo
Un lupo mannaro americano a Londra
Marnie
La ragazza della nebbia
American assassin
Nel nome del male
Benvenuti ma non troppo
Mari del sud
7 uomini a mollo
All eyez on me
Inception
The disaster artist
Arsenico e vecchi merletti
Rimetti a noi i nostri debiti
La ragazza che sapeva troppo
The believer

VISIONI (seriali)

Rocco Schiavone S2
Suburra S1
Luther S1

LETTURE

Vittorio Foa, Questo novecento
Bob Batchelor, Stan Lee - Il padre dell'universo Marvel