martedì 23 luglio 2024

Sierra Ferrell, Trail of flowers


No, non è esattamente una novellina Sierra Ferrell. E' più vicina ai quaranta che ai trenta e prima di emergere si è sbattuta in giro con la sua musica per metà della sua vita. Lo preciso perchè, nella mia scala di valori, essere una che si è fatta una lunga gavetta, rispetto a tante chicks di bella presenza alle quali l'industria country di Nashville si capicolla a proporre un contratto, è decisamente rilevante. Sierra è nativa della West Virginia e si fa le ossa con tutta la old time music priva del prefisso "pop". True-country, bluegrass, ma anche dixieland-jazz e irish-waltz. Dopo due dischi autoprodotti, finalmente nel 2021 l'eccellente Rounder Records la assolda e Ferrell può fare uscire il suo debutto, Long time coming, ottimamente accolto da critica e appassionati di true country, che genera col tempo un grande hype per il successore, uscito lo scorso 22 marzo col titolo di Trail of flowers.

L'album è stato anticipato dal singolo Fox hunt che salda, se ce ne fosse stato ulteriormente bisogno, il forte legame di Sierra con il suo territorio, un pezzo che profuma di monti appalachi, condotto dal ritmo dei violini e dai cori evocativi dei nativi americani Cherokee. Un singolo atipico, non rilasciato certo per piacere alle masse (altro punto messo a segno nella mia considerazione), nonostante nell'album, di canzoni belle e potenzialmente performanti ce ne sia più d'una . A partire dall'open-track American dreaming, adagiata su di un testo in cui la songwriter racconta della difficoltà di raggiungere prima e gestire poi la notorietà. Una melodia irresistibile su parole che raccontano vita vissuta.

Trail of flowers brilla infatti, oltre che per le composizioni musicali, per liriche poetiche e personali. Persino io che, quantomeno, non sono alla ricerca spasmodica di pezzi che abbiano a tema l'amore (o l'abbandono) mi sono sciolto peggio che in questi giorni torridi di luglio inoltrato davanti a tracce celestiali come The letter, Why haven't you loved me yet, Lighthouse o la malinconica, arrendevole Wish you well ("Nothing could prepare me for the joy you took from me / Stole away the person that I was when I was free / Learnin' how to tell those lonesome feelin's not to dwell / Though you've hurt me, I still wish you well").

Anche se, assieme a Fox hunt, le mie preferenze vanno in assoluto alla cover di Chittlincookin' time in Cheatham County, traditional di Arthur Smith, qui riproposto da Ferrell in una versione soffice e sinuosa, in perfetto clima da jazz bar di New Orleans, e la murder ballad su basi vagamente irish-tango (questa me la sono inventata, ma spero renda l'idea) di Rosemary.

E' presto per sbilanciarsi sul disco dell'anno, ma concedetemi di definirlo quantomeno il (mio) disco dell'estate. Alla faccia dei The Kolors.

martedì 16 luglio 2024

Stevie Van Zandt, Memoir - La mia odissea, tra rock e passioni non corrisposte

 


Se pensiamo alla figura di un comprimario del grande circo del rock che sia "fedele nei secoli" al mitologico frontman, probabilmente il primo nome che ci balenerebbe in mente è quello del chitarrista del New Jersey nato Steven Lento, e poi, nel tempo, diventato Stevie Van Zandt, alias Miami Stevie, alias Little Steven. Il suo ghigno malizioso con il labbro inferiore sporgente, gli occhi insinuanti e la costante bandana colorata, nell'immaginario collettivo sembra trovi posto solo accanto a Bruce Springsteen, sui palchi di tutto il mondo. Giusto?

Sbagliato. Innanzitutto perchè la storia ci racconta di una lunga separazione tra i due, i quasi vent'anni trascorsi dal tour di The River (1980/81) alla reunion della E Street Band (1999), e, soprattutto, perchè Little Steven, in quel periodo ha fatto di tutto eccetto starsene con le mani in mano. 

Personalmente non mi serviva un'autobiografia per scoprire che Stevie ha sempre avuto molto da dire in campo musicale. Questo perchè ho seguito assiduamente le sue produzioni e i suoi concerti (memorabile quello al Rolling Stone di Milano, nel 1987) per tutti gli anni ottanta. Conoscevo anche, ed era una delle ragioni in più per cui lo apprezzavo, il suo forte impegno politico anti establishment repubblicano, contro l'imperialismo americano che si è manifestato per lungo tempo attraverso golpe telecomandati e brutalità delle multinazionali in America Latina, l'avversità alla presidenza Reagan, le iniziative a favore dei nativi americani. 
Se a ciò aggiungiamo i Soprano, già così ci sarebbe stato sufficiente materiale per scrivere due libri. In realtà dentro questa autobiografia c'è molto, molto di più, al punto che mi ha folgorato al pari delle migliori tre quattro lette nella mia vita. E ti assicuro che, essendo una mia peculiare passione, ne ho lette a pacchi.

Sì, perchè Stevie racconta di una vita con poco sesso e droga, parecchio rock and roll ma, soprattutto, un'infinita voglia di esplorare, intraprendere, incidere sulle cose, cambiarle, raddrizzare ingiustizie, che siano l'esclusione di un misconosciuto gruppo anni sessanta dalla notorietà fino all'apartheid. 

Proprio l'ambito di quell'abominio razziale del Sudafrica rappresenta forse la parte più avventurosa (per l'incolumità del nostro) ed avvincente del libro. Col senno di poi, quel fantastico progetto sfociato nel supergruppo Arists United Against Apartheid fu l'unico, nell'imperante moda delle canzoni benefiche (ricordate Do they know it's christmas e We are the world?), a raggiungere un obiettivo concreto, oltre che di emersione del problema. 

Per la canzone manifesto Sun City, testardamente e contro tutti, Stevie contaminò artisti diversissimi tra loro, raggruppando Miles Davis e Bono, Bruce e i Run DMC, Bob Dylan e George Clinton, Herbie Hankock, Joey Ramone, Peter Gabriel, Lou Reed e tanti, tanti altri. Il brano provocò un movimento d'opinione che si abbattè anche contro lo stesso music business (fino a quel momento più di un artista, ad esempio Sinatra e i Queen, andava serenamente a suonare a Sun City fregandosene della condizione della popolazione nera), contribuendo fortemente a fare opinione fino alla caduta del regime e alla liberazione di Mandela (a proposito del quale Stevie riporta giudizi al vetriolo su Paul Simon - peraltro detestato dai gruppi politici sudafricani che si opponevano alla dittatura afrikaner - , che riteneva il leader africano un pericoloso comunista e Whitney Houston, che in un concerto di tributo per la liberazione di Mandela non volle nessun riferimento politico alla sua esibizione. Entrambi passarono poi per paladini della liberazione del Paese africano, ma vabeh).

C'è poi il suo impegno nel veicolare e tributare il giusto riconoscimento a quello che ritiene essere il periodo di "rinascimento" della musica, i cinquanta e i sessanta, le trasmissioni radiofoniche e televisive a tema rock/pop di qualità, la sua etichetta discografica (la Wicked Cool Records, ancora in attività), il ritorno negli anni dieci in sala di registrazione e in tour, il recupero di artisti dimenticati, insomma, le mille imprese quasi sempre rischiate di tasca propria che l'hanno ridotto in costante perdita finanziaria, col suo ultimo obiettivo dichiarato, ironico ma fino a un certo punto, di andare almeno in pari prima di morire.  
Una condizione che Steve riassume così: "La maggior parte dei progetti che ho fatto non si sono mai avverati e la maggior parte di ciò che ho realizzato è rimasto praticamente invisibile (...)". 

E volendo, non è finita qui, c'è il rapporto fraterno con Springsteen, le produzioni televisive (I Soprano, Lilyhammer), le turnè nell'amata Europa, il suo ruolo di consulente e mediatore ad ampio spettro (cinema, televisione, musica). 

Una vera sorpresa insomma, questo Memoir, consigliata a musicofili, cinefili, appassionati di politica e curiosi della vita tout court.

lunedì 8 luglio 2024

The longest nite (1998)



Mentre Hong Kong si prepara all'handover (il passaggio da colonia del Regno Unito alla Cina), la regione di Macao vive una fase delicata dei rapporti tra le organizzazioni malavitose. C'è una taglia da cinque milioni sulla testa dei due boss locali che fa gola a molti killer dentro e fuori il territorio e, soprattutto, nessuno conosce chi abbia attivato questa ricompensa. Il poliziotto violento e corrotto Sam e il misterioso Tony si fronteggiano nella notte decisiva per evitare (o scatenare) una sanguinosa guerra tra bande.

Film realizzato a basso costo, girato in pochi giorni e utilizzando una manciata di location, The longest nite è davvero un gioiello noir, violento, spietato e senza possibilità alcuna di redenzione per i suoi protagonisti. Il regista accreditato è Patrick Yao, della factory Milky Way del grande Johnnie To (una miriade di film leggendari come Election 1 e 2, Breaking news, Vendicami, PTU, Drug war) che, col tempo, si è appropriato della pellicola, sostenendo che l'apporto di Yao è stato insignificante, se non controproducente. 
Ciò premesso, che siano state la tensione tra gli autori o le ristrettezze economiche ad aver messo ulteriore carburante alla macchina produttiva del film, il risultato è stupefacente, teso, feroce e nerissimo, con alcune sequenze memorabili, come l'inseguimento tra le due auto su corsie parallele divise da file di palazzi, la soluzione individuata da Tony per liberarsi del poliziotto che dovrebbe scortarlo fuori da Macao, o il tributo alla famosa scena finale de  La signora di Shangai di Orson Welles.
Non manca, come di regola nel cinema di genere asiatico, la denuncia sociale della condizione di povertà della maggior parte della popolazione, di una polizia corrotta e violenta che non ha ostacoli nella sua opera di coercizione e prepotenza, di tutta una fascia di criminali di basso rango che sono carne da cannone.

I due protagonisti principali, Tony Leung Chiu-Wai (tra gli altri Hard boiled, Chinese odyssey, Infernal affair) e Sean Lau, attori molto noti in patria, prima di questo film non avevano prestato la loro arte a personaggi negativi che si spingono oltre la figura dell'anti-eroe, laddove le loro azioni di eroico non hanno davvero nulla e anzi.

Grandi atmosfere notturne, una tensione costante, violenza e ralenty da scuola del cinema (honkongese). 
Mancavo da un pò dal noir asiatico e recuperarlo è stata una quanto mai necessaria e salutare boccata d'ossigeno 

lunedì 1 luglio 2024

My Favorite Things, Maggio Giugno 2024

ASCOLTI

Lankum, False lankum
Slash, Orgy of the damned
Billie Eilish, Hit me hard and soft
Pet Shop Boys, Nonetheless
Zakk Sabbath, Doomed forever forever doomed
Sonic Universe, It is what it is
AAVV, Petty Country - A country music celebration of Tom Petty
Johnny Cash, Songwriter
Gatecreeper, Dark superstition
The Mavericks, Moon & stars
Pearl Jam, Dark  matter
Job for a cowboy, Moon healer
Slash, Orgy of the damned

Monografie

Little Steven
Zakk Wylde
Iggy Pop 2009/2019



VISIONI

Unknown - Senza identità (2,25/5)
Kill Boksoon (3/5) 
Rambo III
(1/5)
Nebraska (4/5)
Il fornaio (2,25/5)
Palazzina LAF (3,75/5)
Road House (1,5/5)
L'altra verità (2010) (2,5/5)
Vivarium (3,5/5)
La rosa purporea del Cairo (3,5/5)
Il giorno della civetta (3,5/5)
Adrenalina (1996) (3/5)
Enea (2,75/5)
Furiosa: A Mad Max saga (3,5/5)
La parola ai giurati (1997) (3,5/5)
The company men (1/5)
La signora scompare (1938) (3,5/5)
Per la pelle di un polizotto (2,5/5)
November - I cinque giorni dopo il Bataclan (2,75/5)
Holy spider (3,75/5)
All cheerleaders die (2,5/5)
La stanza degli omicidi (2,25/5)
Le vite degli altri (3/5)
Twixt (3,5/5)
The bikeriders (2,75/5)
La chimera (3/5)

Visioni seriali

The offer (3/5)
Il re (2,75/5)

LETTURE

Little Steven, Memoir
Jim Thompson, Bad boy



lunedì 24 giugno 2024

The offer (2022)

 


La storia dietro alla realizzazione de Il Padrino è una delle più avventurose, incredibili e coinvolgenti della storia del cinema. Con il tempo la narrazione di quegli eventi ha assunto i contorni epici del mito, anche grazie al libro di Mark Seal 'A pistola lasciala, pigliami i cannoli. Allora perchè non provare la strada della serie tv, che, oltre a riaccendere un faro sul film più famoso di sempre, compie un'operazione di rilancio del brand Paramount?

Operazione non banale, a grosso rischio di cadute parodistiche, se pensiamo che per rielaborare le vicende che portarono al Capolavoro bisognava mettere in scena attori che interpretassero Al Pacino, Marlon Brando, Coppola, Puzo... E allora la prima considerazione da fare in relazione a questa produzione è che quel pericolo è stato evitato, in qualche caso anche in modo brillante. Qualche esempio: Anthony Ippolito nel ruolo di Al Pacino è sorprendentemente efficace, sia nelle espressioni e nel linguaggio non verbale quanto nella parlata (ovviamente mi riferisco alla versione originale); l'accoppiata Francis Ford Coppola (Dan Fogler) Mario Puzo (Patrick Gallo) non so quanto sia confacente gli originali, ma di certo funziona. Tuttavia la scelta migliore che potessero compiere gli sceneggiatori attiene alla rinuncia di replicare una qualsiasi scena de Il Padrino: vediamo le location, assistiamo ai ciak, al massimo li viviamo attraverso la sedia del regista , ma non si va mai oltre. Mi è sembrata una decisione saggia.

Il ruolo principale, quello dell'allora neo produttore Albert Ruddy, è affidato al bravo Miles Teller (tra gli altri Whiplash, il franchise Divergent, Too old to die young), che gigioneggia alla grande, assieme a Juno Temple (la segretaria tuttofare Bettye), e ad un divertentissimo Matthew Goode (Robert Evans, produttore apicale). Ci sono anche, tra gli altri, Burn Gorman (Charlie Bluhdorn, CEO di Paramount), Colin Hanks (il "capo contabile"), Giovanni Ribisi (il mafioso Joe Colombo). Tutta gente dal fitto curriculum da caratterista che svolge con professionalità, chi un pò sopra le righe - ma il ruolo lo permette - chi no, il ruolo assegnato.

Insomma una serie godibile senza essere ovviamente un capolavoro (gli ho assegnato 3/5), in cui forse sarebbe stato opportuno sforbiciare qua e là riducendo i dieci episodi almeno a otto, e dove assistiamo a aneddoti arcinoti ai cinefili, ma anche a chicche e nozioni meno celebri. Il tutto sicuramente romanzato, ma senza dubbio ben realizzato e piacevole, anche per quanti, come me, centellinano le serie televisive.

lunedì 17 giugno 2024

Zakk Sabbath, Doomed forever forever doomed


Ups... I did it again. 
Il simpaticissimo Zack Wylde invece di lasciare, raddoppia. Se nel 2020, con Vertigo (qui la recensione), aveva voluto reincidere il mitologico e fondamentale album di debutto dei Black Sabbath (1970) oggi propone, su unico disco, i due album cronologicamente seguenti: Paranoid e Master of reality.
La band è la medesima di Vertigo (i dettagli in quella mia review) e che vi devo dire? disco artisticamente inutile ma che gasa all'inverosimile, pur avendo noi consumato gli originali, così come d'altro canto hanno fatto intere generazioni di metallari.

La tracklist di Paranoid, qui fedelmente ripropostafa tremare i polsi: War pigs/Paranoid/Planet caravan/Iron man/ Electric funeral/Hand of doom/Rat salad/Fairies wear boots. Una bomba atomica che i Zakk Sabbath ripropongono con tostissima devozione e un suono analogico pieno e fomentante. 

Master of reality (1971) cominciava a mostrare un'altra faccia dei Black Sabbath, e riascoltandolo in questa riproposizione, si capiscono tante cose, ad esempio dove i Metallica più selvaggi abbiano trovato ispirazione per i loro intro/break acustici o come un pezzo quale Children of the grave abbia letteralmente costituito le fondamenta dell'ottanta per cento del metal ottantiano. Un altro disco mostruoso con meno pezzi dai titoli leggendari ma, se possibile, ancora più amato dai musicisti metal (come i tre tribute album dedicati ai BS dimostrano chiaramente).

Se portassero in tour dalle nostre parti questo progetto...

lunedì 10 giugno 2024

Lankum, False lankum (2023)



Il nucleo degli irlandesi Lankum, i fratelli Lynch (polistrumentisti), è in attività da oltre vent'anni, avendo i due iniziato come Lynched, e sotto questo monicker, pubblicato un paio di album. Con l'ingresso della singer Radie Peat e di un quarto elemento (Cormac Mac Diarmada) nasce la band che conosciamo oggi, musicalmente collocata nel solco stilistico dei Lynch, quello della musica tradizionale irlandese, ma che oggi innesta forti elementi prog, psichedelici, sperimentali, "post" e rumoristi. 

Per chi dovesse approcciarsi a False Lankum avendo ancora nelle orecchie l'ottimo The livelong day del 2019, l'impatto sarebbe totalmente straniante. Nell'incipit dell'opener Go dig my grave la voce di Radie ci prende per mano conducendoci in luoghi dolcissimi e tenebrosi (come il l'irish folk insegna), per poi lasciare spazio a rumori ossessivi, lisergici, percussioni industriali e melodie dissonanti. 
Non è l'unica differenza con quanto fin qui registrato dalla band. Infatti la scelta dei Lankum (perchè di scelta presumo - spero - si tratti) è di produrre il disco sporcandone la resa audio con un sound compresso, dai volumi bassi, al punto che sembra stiano suonando in una country fair a chilometri di distanza e le note ti arrivino stremate alle finestre spalancate di casa, in una serata estiva resa umida e appiccicosa da una leggera e improvvisa pioggia. E no, non è un problema di cattiva resa dovuta alla scarsa compressione dei files sulle piattaforme, il CD, suonato su un impianto stereo, si comporta allo stesso modo.

Eppure devono averci creduto molto in questa soluzione, i Lankum, perchè il disco è riempito quasi al massimo delle sue capacità: settanta minuti per dodici tracce la cui media di durata viaggia sui sei minuti abbondanti con picchi di oltre otto fino alla conclusiva The turn che di minuti ne assomma tredici. 
Sì, sono struggimento e malinconia il filo rosso che collega le composizioni dell'album, ma trovano spazio le immancabili reel, la più divertente, paradossalmente, è dedicata all'oscuro esoterista Aleister Crowley (Master Crowley's) e il classic folk chitarristico irlandese (The New York trader).
Nel corso dell'intera tracklist le voci dei quattro membri si inseguono, si alternano, si intrecciano, si armonizzano (Lord abore and Mary Flynn) sempre in maniera evocativa e quasi sacrale, creando una sorta di spirale ascensionale che viaggia tra i Planxty e i Quicksilver Messenger Service. 

Disco incantevole con in più il merito di aver messo i quattro Lankum definitivamente sulla mappa delle band per cui vale la pena continuare ad ascoltare musica.

lunedì 3 giugno 2024

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me (1998)


Approfittando dell'assenza del marito, all'estero per lavoro, Maria accoglie in casa Victor per una cena preludio di una possibile scappatella extraconiugale. Con lei il figlio piccolo. Terminata la cena e giunta la coppia in camera da letto, Maria ha un malore e in breve, nello sconcerto di Victor, muore. Il quasi amante si trova di fronte ad un dilemma: chiamare qualcuno e danneggiare post mortem la reputazione di Maria o lasciare la casa e il piccolo rischiandone l'incolumità?


Senza averlo scientemente deciso, procede la mia operazione di recupero di romanzi che giacciono sulle mie librerie (nel senso che sono così vecchi da averne cambiate tre in altrettante case) da non meno di vent'anni/ un quarto di secolo. Dopo Educazione di una canaglia di Bunker è la volta di questo libro che all'epoca comprai, posso dire? attratto dal titolo e dalla breve sinossi, ma che lasciai dopo una ventina di pagine non riuscendo ad allinearmi con lo stile dello scrittore.

Sì perchè Marìas sceglie di esprimersi dentro una sorta di flusso di coscienza, sebbene non radicale in quanto intervallato qua e là da linee di dialogo, fitto di considerazioni filosofico esistenziali, rispetto alle quali serve un'attenzione nemica della lettura superficiale. Anche così, posto l'interesse per il pretesto narrativo, non posso onestamente parlare di scorrevolezza, tuttavia in più di una sezione il romanzo - tutta la prima parte in casa di Maria ad esempio - risulta al tempo stesso avvincente e profondo. Altri passaggi, come ad esempio la lunga sezione sul destino della ex-moglie, mi sono sembrati non indispensabili ai fini della narrazione. Ma è ovviamente una valutazione totalmente soggettiva.

Domani nella battaglia pensa a me è un romanzo che è diventato in breve un classico della letteratura spagnola. Posso capirne la ragione, per come si presta al dibattito e per l'approfondimento della psiche e dei comportamenti umani. In questo senso sarei rimasto su questo piano di lettura, evitando forse lo spiegone finale, che ho trovato troppo "basso" per come invece vola alto il resto della narrazione. 

martedì 21 maggio 2024

I miei film preferiti del 2023 (beh, che c'è?)

Davvero un'ottima annata, quella del 2023. Forse per la prima volta da quando mi diverto a compilare i consuntivi di fine anno (non molto, per la verità) ho faticato ad escludere dei titoli che mi avevano appassionato, e infatti mi sono visto costretto ad allargare l'elenco dalle canoniche dieci posizioni a dodici. 
Perchè posto alla fine di maggio un tipo di classifica che di norma esce a gennaio? Semplice, gli ultimi film che mi ero ripromesso di vedere prima di deliberare sono riuscito a recuperarli solo qualche giorno fa.

Un'unica indicazione: diversamente dal solito i titoli non sono tutti ad ex aequo, ma divisi in due fasce, in una sorte di primo e secondo posto in coabitazione.

Prima posizione

Babylon (19 gennaio 2023)
Ma sì, ognuno ha la sua opinione su Chazelle. Divisivo lui, come polarizzante, tra chi lo ha amato e chi lo ha detestato, questo Babylon. A me per esempio ha fatto impazzire. Anche alla visione numero due, tre... 

L'ultima notte di amore (9 marzo 2023)
Film della madonna: un crime italiano sensazionale. Avere tutte queste definizioni nella stessa frase sembrava utopistico. E invece, grazie a Andrea Di Stefano (E Savino. E Caridi. E Di Leva...) l'impossibile è realizzato.

Palazzina Laf (30 novembre 2023)
Non esente da difetti, l'esordio in regia di Michele Riondino, ma ricco di quella passione civile e politica che infarciva tanto cinema dei sessanta/settanta. E questo per me vale più di qualunque incertezza. 

Adagio (14 dicembre 2023)
Altra pellicola poco fortunata e a mio avviso travisata. Sollima, che ha quota parte di responsabilità nella divulgazione del criminale nazional-popolare, qui ne racconta senza sconti il tramonto indecoroso, tra fatiscenza, povertà, puzza di morte, e... un ultimo battito di vita. 

Seconda posizione

Decision to leave (2 febbraio 2023)
Ecco spiegato ancora una volta perchè Park Chan-wook e (molto) del cinema coreano sono a livelli irraggiungibili per l'attuale industria hollywoodiana. 

Gli spiriti dell'isola (2 febbraio 2023) 
Grottesco e surreale ma anche filosofico e attuale. Le ferite emotive e fisiche dei cambiamenti radicali. Non solo quelli del rapporto tra Gleeson e Farrell, ma anche il portato della guerra civile irlandese.

Beau ha paura (27 aprile 2023)
Un trip colossale, grottesco e assurdo. Ma che rifaresti.

Oppenheimer ( 23 agosto 2023)
Per poter tornare io ad apprezzare Nolan, il regista inglese doveva trasformarsi nell' Oliver Stone dei tempi buoni. Missione compiuta.

Talk to me (28 settembre 2023)
Finalmente un horror mainstream (estraneo cioè al filone "intellettuale") che ha qualcosa da dire. Vincente l'dea della mano mummificata. Efficace l'utilizzo delle sedute come trip collettivo da droghe. Spero abbiano altro da dire, i Philippou bros. 

Asteroid City (28 settembre 2023)
Un film dal quale coi soli fermo immagine si possono ricavare quadri alla Hopper o fotografie artistiche. Come nella tradizione di casa Anderson follia e surrealismo mai fini a sè stessi ma propedeutici a spiegare un pezzo di storia (americana).

Anatomia di una caduta (26 ottobre 2023)
Un processo per omicidio che in realtà è un'indagine sulla mancata aderenza alle convenzioni sociali imperanti. Cioè il peggiore dei crimini. Sandra Huller, dopo questo e La zona d'interesse (2024) potrebbe anche smettere, viste le vette raggiunte.

The Old Oak (16 novembre 2023)
Lo metto qui non solo in quanto ultimo film (dichiarato) da Loach. Ma perchè, se epilogo doveva essere, la premiata ditta Ken the Red & Laverty lo realizza all'insegna del più convincente, retorico ed autorevole marchio di fabbrica.

lunedì 13 maggio 2024

Recensioni capate: The killer inside me (2010)


Dopo la lettura di L'assassino che è in me (qui la recensioneho scoperto del recente adattamento cinematografico del miglior libro di Jim Thompson, e ho voluto dargli una possibilità recuperando il dvd. Purtroppo, come avevo letto in giro (ma non mi fido a prescindere delle recensioni) il film è poca cosa, ed è un vero peccato, perchè il cast, a livello di nomi potenziali, a partire dalla regia di Michael Winterbottom, al normalmente bravissimo Casey Affleck, alle star Jessica Alba e Kate Hudson, prometteva bene. Purtroppo però l'esito finale lascia la sensazione di un lavoro sciatto, svogliato e di una direzione attori assente, con risultati dal demoralizzante al comico involontario, in particolar modo in relazione alle interpretazioni di Alba e Hudson, mai in parte. Anche Affleck, pur avendo in qualche modo la faccia giusta sembra capitato lì per caso. La scelta degli sceneggiatori è quella di seguire pedissequamente lo svolgimento del libro, ivi comprese le linee di dialogo, e questo film è forse la dimostrazione più emblematica di come detta opzione non sempre paghi e anzi, forse le trasposizioni più riuscite sono proprio quelle che hanno coniugato opera di riferimento e visione del regista. Qui totalmente assente. 

lunedì 6 maggio 2024

Mick Mars, The other side of Mars (2023)


Dopo la farsa del tour d'addio del 2015, ognuno dei componenti dei Motley Crue aveva annunciato l'intenzione di volersi dedicare ai propri progetti solisti. Su tre dei quattro debosciati, viste le performance del passato, il mio interesse era pari a zero. Il chitarrista Mick Mars era l'unico, forse anche a causa dei suoi gravi problemi di salute, che, al netto di qualche ospitata, non si era mai cimentato in un side project di alcun tipo. Ma Mars (al secolo Robert Alan Deal) era anche il solo tecnicamente dotato, all'interno del gruppo, al punto che, di fatto, il suo ingresso in formazione ha permesso ai Crue di salire di livello e di riuscire ad emergere. Ragion per cui un pò di curiosità il suo annunciato debutto me l'aveva scatenata. Immaginavo un ricongiungimento col blues, con l'hard rock di stampo british, insomma un tuffo nelle suggestioni musicali del giovane Robert.

Invece, mentre di anni, dal fake farewell tour del 2015, ne sono passati quasi dieci, questo The other side of Mars ci presenta un sound metal mainstream moderno, non distante da quelli dei recenti lavori di Dee Snider after Twisted Sister (li trovate tutti recensiti nel blog). Suoni pompati, voci potenti (Mick si è affidato a due vocalist, Jacob Bunton e Brion Gamboa, che non conosco e di cui la rete non è proprio satura di informazioni), sezione ritmica che spacca, ma insomma, il tutto un pò senz'anima e, soprattutto, senza la centralità di un disco che porta il nome di un guitar hero. Qualche pezzo è anche divertente (Loyal to the lie, Undone e Right side of wrong), ma se in un album (presunto) chitarristico, si toppa anche l'unico strumentale del lotto (LA Noir), loffio e inoffensivo, c'è proprio qualcosa che non funziona.

giovedì 2 maggio 2024

My Favorite Things, aprile 2024

ASCOLTI

AA/VV, Red hot and blue
Mick Mars, The other side of Mars
Cody Jinks, Change the game
English Teacher, This could be Texas
JJ Grey and Mofro, Olustee
Lankum, False Lankum
Mark Knopfler, One deep river
Michael Jackson, Invincible
Pearl Jam, Dark matter
Rod Stewart, Swing fever
Saturnus, The storm within
Studio Murena, Wadirum
OST, The hot spot
OST, Homeboy
The Murder Capital, Gigi's recovery


VISIONI

Una sterminata domenica (3,5/5)
Il gatto con gli stivali 2 (3,5/5)
Zamora (3/5)
Arrival (3,5/5)
C'è ancora domani (3/5)
Chi segna vince (2,5/5)
Delta (3,5/5)
Asteroid City (4/5)
Cattiverie a domicilio (3,25/5)
Povere creature! (4/5)
Civil war (4/5)
Guy Ritchie's The covenant (3/5)
The killer inside me (2,25/5)
The palace (2,75)
Nove regine (3,25/5)
The Old Oak (4/5)

in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Antidisturbios: Unità antisommossa (3,75/5)
Call my agent, 2 (2,5/5)

LETTURE

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me

lunedì 29 aprile 2024

Civil war (2024)



Stati Uniti, futuro ipotetico. Impazza la guerra civile, le città sono allo stremo, la violenza dilaga, molti territori sono in mano a milizie auto-organizzate e Washington è sotto attacco. Seguiamo un gruppo di giornalisti e fotografi che decidono di raggiungere una Casa Bianca sotto assedio per un'intervista impossibile al Presidente.


Civil war non è il film che ti aspetti se pensi alle minchiate distopico apocalittiche in cui esplode tutto, caratteristiche di certo cinema hollywoodiano che una volta liquidavamo in una parola: americanata. Civil war non è il film che si aspettavano i fruitori ma-solo-se-danno-il-blockbuster della sala, che, infatti, una volta capita l'antifona (il passaparola tra loro simili) hanno disertato i cinema. No, Civil war non è decisamente il film che ti aspettavi, soprattutto non conoscendo il regista dietro al progetto, quell'Alex Garland che poco tempo fa aveva girato Men, un altro film inaspettato, folle, disturbante e metafisico, a causa del quale le persone scappavano letteralmente dalla sala  e che io, giuro, non per snobismo, ho messo tra i miei preferiti del 2022.

Peraltro, da antitrumpista convinto, devo ammettere di essermi fatto l'idea che Civil war non sia nemmeno quell'attacco diretto al pericoloso complessato (pseudo) miliardario candidato alla presidenza anticipato dai più, ci sono diversi indizi nella sceneggiatura che mi hanno portato a questa conclusione, a partire dalla decisione, che condivido, di non dare troppo spazio alle ragioni per cui alcuni Stati degli USA si sono rivoltati contro il potere centrale (tra l'altro due stati politicamente e sociologicamente agli antipodi come Texas e California), dando il via ad una rivolta che poi si è allargata, e quindi agli errori del presidente che in ogni caso si vede per poche sequenze solo nel prologo e nella conclusione del film.

Il battleground è dunque l'America, ma io, forse a causa di un'età che mi ha portato a vivere con angoscia e in tempo reale la guerra civile dei Balcani, vedendo scorrere le immagini di violenza gratuita, ingiustificata, ottusa e brutale, non ho potuto che fare una connessione immediata con quanto accaduto nell'ex Jugoslavia negli anni novanta. Certo, di molto molto americano c'è il cittadino medio con l'arsenale in casa, una condizione che lo porta ad essere più che pronto, quasi in trepidante attesa del primo conflitto possibile, un contesto che non ha pari in nessun altro Paese occidentale. 

Tuttavia, le torture inflitte dallo stupido hillbilly ad un altro americano come lui solo perchè gli è sempre stato sul cazzo ("al liceo manco mi salutava") o la sequenza più agghiacciante del film (affidata ovviamente a Jesse Plemons, chi altro?) in cui, di nuovo, il cittadino medio assume un potere di vita e di morte cui non è antropologicamente destinato, mi rimanda non ai rischi di una guerra intestina sul suolo americano, ma alle tante realmente avvenute nel passato, su terre a noi vicine (l'ex Jugoslavia, appunto) e lontane (l'Africa, il Sud Est Asiatico).

La regia di Garland è di quelle che ti lasciano immobile sulla poltrona del cinema mentre scorrono i titoli di coda (anche quelli, su un'immagine fissa che lentamente da sfocata diventa nitida, con il sottofondo di Dream baby dream degli immensi Suicide, strepitosi) a domandarti ma che cazzo ho visto. 
La direzione degli attori, l'inserimento in montaggio degli scatti fotografici in bianco e nero in puro stile reportage di guerra, le scene on the road, le inquadrature fisse, sovente più esplicative di lunghe spiegazioni, come ad esempio i primi piani della fotografa veterana Lee Smith (Kirsten Dunst) nel terzo atto del film, efficaci nel farti comprendere come il personaggio abbia raggiunto un livello di saturazione tale da non tollerare più nemmeno un istante di quella professione, di quella vita. 
E a proposito della Dunst, un'attrice che avevo perso di vista, qui ci regala quella che banalmente possiamo definire l'interpretazione della vita, spero della rinascita. Mai sopra le righe, dolente, credibile, cinica in maniera riluttante, in una parola: perfetta.

L'avrei visto subito daccapo.

lunedì 22 aprile 2024

George Simenon, L'uomo che guardava passare i treni (1938)



Kees Popinga, impiegato e contabile di un'azienda navale di Groningen, riceve dal suo datore di lavoro una notizia ferale: la ditta è in bancarotta e il suo capo gli anticipa che si darà alla fuga per godersi i soldi trafugati nel corso degli anni. Lo stesso Popinga, che da contabile non si era mai accorto di nulla, oltre a restare disoccupato rischia di andare a processo, ed è pressochè certo che perderà la sua bella casa, oltre che il rispetto della famiglia. Dopo una notte insonne, l'uomo decide come reagire.


Una volta entrati nella grammatica simenoniana si perde un pò dello stupore delle prime volte (ma non accade anche per altre forme d'arte, la musica soprattutto?), in particolare relativamente alla modernità degli accadimenti dei suoi romanzi: il realismo, la violenza, il desiderio che esplode improvviso, violento, ottuso, inarrestabile. Il caso che cambia le esistenze. E pur tuttavia, anche senza quel fanciullesco senso di sorpresa nel leggere roba di settanta, ottanta anni fa così sovrapponibile ai nostri tempi, resta comunque la spirale irresistibile in cui ti intrappola lo scrittore belga che si conferma comunque fenomenale nella consapevolezza di quali corde toccare, soprattutto nei riguardi del medio borghese e della sua illusione che casa, moglie e figli, essendo i requisiti indispensabili a soddisfare le convenzioni sociali (ora come allora), possano anche dare compiutezza e felicità.

E invece, analogamente al personaggio di Lettera al mio giudice, anche a Kees Popinga, protagonista de L'uomo che guardava passare i treni, accade qualcosa che, imprevedibilmente e in maniera repentina, gli rivoluziona la vita, con effetti che vanno ben oltre la mera causa. Se nell'altro romanzo era la conoscenza di una donna, qui è il fallimento del datore di lavoro di Popinga a provocare un'escalation che salda assieme desideri repressi e fuga, crimini ed ingenuità del grigio impiegato.

I compagni di viaggio che Kees troverà sulla sua strada di fuggiasco e clandestino sono tracciati da Simenon senza una netta dicotomia. Dalla parte dei reietti della società (malviventi, prostitute e imbroglioni) l'ex impiegato trova sia aiuto che fregature, nella polizia che lo insegue più incompetenti che segugi, dalla stampa (come nel caso di Lettera al mio giudice) banalità ed irritanti semplificazioni in merito ai suoi atti.

Fin qui, senza aver mai letto nulla di Maigret, i noir psicologici di Maigret non mi hanno mai deluso ne lasciato indifferente. L'uomo che guardava passare i treni rispetta in pieno la regola.

lunedì 15 aprile 2024

Grian Chatten, Chaos for the fly (2023)

Per quello che mi riguarda, i Fontaines DC hanno rappresentato la novità più interessante nell'ambito del recente panorama musicale internazionale. Considero i tre album fin qui rilasciati (Dogrel, A hero's death e Skinty fia) esempi di una trasversalità musicale non comune e fatico davvero a considerare anche uno solo dei brani ivi contenuti banali filler. Un'onda poderosa insomma, dotata di una forza tale da farmi accantonare un intero movimento (quello metal), che era tornato ad accompagnarmi da lustri, e che mi ha incuriosito al punto da indurmi a scandagliare il vasto panorama del revival post punk (senza peraltro mai riuscire a replicare l'epifania raggiunta con il gruppo irlandese).

Nonostante ciò, a riprova del fatto che sto perdendo colpi, non sapevo che il cantante/frontman della band avesse pubblicato un album solista. Me ne sono accorto solo controllando le liste dei migliori dischi del 2023 delle varie riviste, dove, in qualche caso, veniva citato questo Chaos for the fly. La prima cosa che ho fatto, prima di recuperarlo, è stato cercare informazioni sul futuro dei Fontaines DC e solo dopo le rassicurazioni di rito (sarebbero al lavoro sul successore di Skinty fia) mi sono concentrato sull'ascolto di questo solo project, che deve il suo titolo ad una battuta della Morticia della famiglia Adams: "What's normal for the spider...is chaos for the fly".

Non ho mai capito il senso dei progetti solisti in cui membri di band ancora in attività si prendevano una pausa per... replicare l'identico sound della formazione di provenienza. E guardate che è quasi sempre così. Chatten non lo fa, e già qui ci siamo. Il disco a suo nome è un patchwork straniante di stili e umori che hanno forse come unico denominatore comune un'oscurità e una malinconia di fondo, anche laddove, apparentemente, le atmosfere sono rilassate, quasi spensierate.

L'attacco è per The score, un brano che ci riporta a quel movimento new folk che ha attraversato gli anni zero (Midlake, Fleet Foxes, Grizzly Bear), che non brillava certo per allegria. La combo testo musica è comunque estremamente valida e probabilmente la scelta di aprire il lavoro con un brano così esprime una precisa volontà di imprinting. La successiva Last time every time forever, è forse quella inizialmente più assimilabile alle cose Fontaines DC, ma ecco che quando entra un controcanto femminile la percezione muta radicalmente.

Pochi brani e risulta evidente come l'approccio a queste canzoni da parte di Grian sia crooneristico, da cantante confidenziale, ben lontano quindi dai suoi inizi legittimamente sgraziati e post punk sull'esempio di Ian Curtis. Questa modalità viene esaltata soprattutto in brani dal sapore quasi lounge come Bob's Casino (dove il nostro, novello Dean Martin, ospita la fidanzata Georgie Jesson per un duetto che riporta alla mente i vari che si sono succeduti nel tempo per Somethin' stupid)  nel quale trova spazio anche una tromba che tanto ricorda Herp Alpert. Lo stesso dicasi per un'altra traccia che viaggia leggera sulle stesse ali dell'easy listening anni sessanta: East coast bed.

C'è poi lo skiffle-folk di Salt thowers off a truck e di Fairlies ad intervallare i momenti più introspettivi, perchè, come scrivevo, il disco è pervaso da una sua anima nera, oscura, che emerge quasi a prescindere dalle intenzioni dell'autore e che si nasconde in brani come l'opener o All of the people, I am so far, per poi manifestarsi, bellissima e malinconica, nella conclusione di Season for pain.

Nessun caos qui dentro. Semplicemente un disco che si farà ricordare.


lunedì 8 aprile 2024

Antidisturbios: Unità antisommossa (2020)

Torno dopo tanto tempo a commentare una serie, ma ne vale davvero la pena. Si tratta di Antidisturbios (Unità antisommossa l'aggiunta nella versione italiana), produzione spagnola ideata, scritta e, in parte, girata, da Rodrigo Sorogoyen, regista dietro la mdp per, tra gli altri, gli ottimi film Che dio ci perdoni e Il regno, nonchè del recente As bestas, di cui ho letto un gran bene, ma che non sono riuscito a recuperare su nessuna delle piattaforme a cui sono abbonato.

La vicenda trae spunto dallo sfratto di una palazzina a Madrid occupata da immigrati clandestini e abusivi spagnoli, operazione di polizia attraverso la quale facciamo la conoscenza dei sei "celerini" incaricati dello sgombero. Ecco, il pilota della serie (ognuno dei sei episodi complessivi porta il nome di un character, il primo è Osorio), è girato (da Sorogoyen) in maniera magistrale e totalmente ansiogena, immersiva. Le sequenze dello sfratto, dall'attesa alla fase della trattativa con gli inquilini fino all'azione, ti portano dentro quel complesso residenziale con un'angoscia e una soggettiva non comune, non solo nelle produzioni televisive, ma anche in tanto cinema di genere. Qualcosa di veramente raro ed eclatante. Inevitabilmente nelle puntate successive questo picco qualitativo cala un pò, mantenendo tuttavia un livello più che alto, grazie, soprattutto, alla scelta degli interpreti dell'unità antidisturbios, alle loro facce, tutte credibili e "ordinarie", alla loro fisicità, soprattutto quando è sofferente, e alla bravura degli sceneggiatori, che ti portano a solidarizzare con una squadra della celere spagnola composta da probabili nostalgici franchisti, inconsapevole ingranaggio di una macchina politico-finanziaria molto più reazionaria e spietata di loro.

Protagonista è Laia Urquijo, l'agente degli Affari Interni che indaga sui fatti dello sgombero, interpretata da una convincente Vicky Luengo, che ci restituisce un personaggio idealista, ma al tempo stesso intransigente e disposto a sacrificare ogni cosa per raggiungere i suoi scopi. Dovendo scegliere uno degli attori protagonisti della squadra, Osorio/Hovik Keuchkerian, Diego/il veterano Raùl Arèvalo e Ubeda/Roberto Alamo lasciano il segno. 

La Urquijo e Keuchkerian si ritroveranno come protagonisti in un'altra riuscita produzione spagnola, più orientata al puro intrattenimento di genere: Regina rossa, tratta dai romanzi di Juan Gòmez-Jurado. Magari parlerò anche di questa, ma se avete tempo solo per una serie, non fatevi sfuggire Antidisturbios.

Disney +

giovedì 4 aprile 2024

My Favorite Things, marzo 2024

ASCOLTI

Sierra Ferrell, Trail of flowers
Beyoncè, Cowboy Carter
Cody Jinks, Change the game
Rod Stewart with Jools Holland, Swing fever
The Black Crowes, Happiness bastards
Gossip, Real power
Judas Priest, Invincible shield
The Jesus and Mary Chain, Glasgow eyes
Low Cut Connie, Art dealers
Mick Mars, The other side of Mars
Eric Clapton, Homeboy (OST)
Howard Jones, Human's lib / Dream into action
Cò Sang, Chi more pè me
Michael Jackson, Invincible
Reload, A collection of short stories
Grian Chatten, Chaos for the fly
Herbie Hancock, Head hunters
Michael Jackson, Invincible
Turnpike Troubador, A cat in the rain
Zakk Sabbath, Doomed forever Forever doomed

Mono/Playlist

Depeche mode
Kraut rock


VISIONI

Ai calci di rigore (3/5)
The Caine mutiny court martial (3,5/5)
No blood no tears (3,5/5)
La sala professori (3,75/5)
It comes at night (3,5/5)
Dune - parte due (4/5)
American fiction (3,5/5)
La società della neve (3/5)
Equalizer 3 (2/5)
The haunted - La preda (2,5/5)
Thanksgiving (3/5)
Un altro ferragosto (2,5/5)
Quinto potere (3,75/5)
Totally killer (3/5)
Big bad wolves (3,5/5)
La zona d'interesse (4/5)
The burial - Il caso O'Keefe (2,75/5)
Ogni cosa è illuminata (3,75/5)
50km all'ora (2/5)
Gran Turismo - La storia di un sogno impossibile (2,5/5)
May December (3,5/5)
L'assoluzione (1981) (2,75/5)

in grassetto i film visti in sala

Visioni seriali

Una famiglia quasi perfetta (2,75/5)
Regina rossa (3,5/5) 



LETTURE

Javier Marìas, Domani nella battaglia pensa a me




lunedì 1 aprile 2024

Depeche Mode - Milano, 28/03/2024

foto adnkronos https://www.adnkronos.com/spettacoli/depeche-mode-conquistano-milano_2RdzeZ4GaemOfNOKP0OooJ

Osservo il grande palco prima dell'inizio del set e noto la totale assenza di strumenti, al netto di tre postazioni, una di batteria e due di tastiere/sintetizzatori. Il resto è tutto spazio libero che Gahan si prenderà da consumato entertainer. 

Mancavo i Depeche Mode in concerto da oltre un quarto di secolo, era il settembre del 1998 per il tour che accompagnava la pubblicazione dell'antologia The singles 86-98. Fu un concerto estremamente piacevole, anche perchè, in assenza di brani inediti da promuovere, la band si concentrò esclusivamente su vecchi classici e recenti hit già assimilate.

A distanza, appunto, di oltre cinque lustri, molto è cambiato. Su tutto ovviamente la prematura scomparsa del membro fondatore Andy Fletcher. Ma molto è rimasto uguale a sè stesso. Giurerei ad esempio che Gahan, dalle scarpe bianche al gilet, passando per la giacca, abbia indossato nei dettagli lo stesso outfit del '98. 
Tornando seri, a non essere cambiata, se non in meglio, è la voce del frontman dei DM, potente, pulita e profonda, a dimostrazione di una vita ora condotta nel segno della corretta condotta salutistica e del professionismo.

Dopo un canonico, breve set di apertura dei Deeper, band di Chicago che viene a dirci quanto la lezione dei Cure sia ancora pedissequamente mandata a memoria dai giovani virgulti, con una puntualità da me sempre apprezzatissima (in quanto forma di rispetto per chi magari è lì dal mattino e poi sotto il palco da ore - non il mio caso che sono col culo sulle poltroncine del secondo anello - ) parte, con uno stage immerso nella penombra, l'open track dell'ultimo Memento mori, il cupissimo industrial-gospel distopico ed evocativo My cosmos is mine. Con la successiva Wagging tongue, sempre dall'ultimo lavoro, si chiude la doppietta iniziale che permette all'ugola di Gahan di raggiungere la giusta fasatura.

Da lì in avanti ci saranno solo altri due brani, sui ventuno complessivamente eseguiti, da Memento mori (Ghosts again e l'ottima Before we drown) e poi via col revival delle musiche più adorate dalle masse (cit.) , da Walking in my shoes alla conclusiva Personal Jesus, in mezzo, tra le altre, Policy of truth, Black celebration (dedicata, forse un pò freddamente, a Fletcher), Enjoy the silence, Stripped, Never let me down again, per una setlist, quella del leg 2024 del tour, sostanzialmente bloccata.

Curiosamente, l'highlight della serata è però uno degli unici due pezzi cantati da Martin Gore, che si è esibito in una versione solo piano (suonato dal tour member, anch'egli ormai storico, Peter Gordeno) e voce di Strangelove. Un'interpretazione che mi ha riempito il cuore di emozione e gli occhi di lacrime. Subito dietro, in ordine di apprezzamento soggettivo, il pezzo che più aspettavo, A pain that I'm used to, una canzone che adoro, regalata in una versione molto più carica e aggressiva dell'originale e peraltro l'unica in cui Gordeno abbandona la confort zone di tasti e pulsanti per imbracciare il basso (strumento assente per il resto del concerto, ovviamente "compensato" dal lavoro di campionamento e sintetizzatori).

Alla fine saranno oltre due ore di show impeccabile, ad alto livello di intrattenimento, anche per la consueta trascinante partecipazione del pubblico, costantemente coinvolto nei cori da Martin e Dave, che in più di un'occasione ha portato l'esibizione dei brani ai "tempi supplementari" trascinando oltre il previsto il sing-along (in un'occasione, per l'assonanza del coro al pezzo dei Doors, Gahan ha accennato a Riders of the storm), al punto da far esclamare a David: "so much better than Torino!", la precedente serata italiana dove, si deduce, evidentemente l'accoglienza è stata meno entusiastica.

Qualche considerazione sparsa tra il personale e lo statistico. I Depeche Mode non sono mai stati un mio riferimento. E pur tuttavia, inevitabilmente, hanno attraversato una parte della mia vita, in particolare i primi novanta (ricordo ancora in quale occasione comprai la MC di Violator) quando produssero due dei dischi, a posteriori, tra i più influenti di sempre: Violator, appunto, e Songs of faith and devotion, un lavoro dal travaglio traumatico e doloroso che però, nel 1993, si guadagnò persino il rispetto del movimento grunge, in quel periodo al massimo della sua radicale espressione. Negli stessi anni arrivò l'ulteriore affermazione grazie alla cover di Personal Jesus di Johnny Cash e il resto, come si dice, è storia.

I DM sono insomma una delle pochissime band nate al tramonto dei settanta, sull'onda di un nascente, grande contenitore musicale comunque collocato nel vasto movimento post punk (l'elettronica e il synth-pop), che più sono progredite ed evolute (quanti gruppi con un pezzo come Just can't get enough sarebbero morti da one-hit-wonder?) e che nel corso del tempo meno hanno toppato le scelte artistiche, al punto che, a memoria, non ricordo un loro album completamente cannato, e anzi. 
Oggi Gahan/Gore sono sì una micidiale macchina da soldi che attraverso le turnè muove masse oceaniche all over the world, ma  con un repertorio ultraquarantennale che ha pochi eguali nell'intero music biz e, come detto, con una progressione continua di musiche e testi tale da far stonare, nel contesto artistico attuale, l'irrinunciabile (per i fans) interpretazione di una canzoncina come Just can't get enough che, rispetto a pezzi moderni quali A pain that I'm used to, Before we drown o Precoius, sembra un'elementare melodia composta da un bimbo con la pianola giocattolo della Bontempi.


foto da rockol: https://www.rockol.it/gallerie-fotografiche/7612/28-marzo-2024-forum-assago-mi-depeche-mode-in-concerto/543750

lunedì 25 marzo 2024

L'ammutinamento del Caine: corte marziale (2023)


Davanti ad un tribunale militare, il capitano della marina Queeg sostiene le ragioni della denuncia al suo sottoposto, tenente Maryk, per ammutinamento, avendolo quest'ultimo sollevato dall'incarico, per presunta instabilità mentale. La corte dovrà esprimere  un giudizio, con il dibattimento affidato, per la difesa, ad un estremamente riluttante ma leale Barney Greenwald e, per l'accusa, all'aggressiva Katherine Challee. 

Confesso di non aver visto (almeno a mia memoria) nessuna delle precedenti riduzioni dell'opera teatrale di Herman Wouke. Probabilmente non avrei visto nemmeno questa, non fosse che si tratta dell'ultima regia di William Friedkin (scomparso ad agosto 2023) e, ma questo l'ho scoperto solo dai titoli di coda del film, l'ultimo ruolo dell'attore Lance Reddick (marzo 2023): una lunga carriera sia nel cinema che, in particolare, nelle produzioni televisive. Curiosamente, essendo Reddick scomparso subito dopo le riprese e la post-produzione del film, i titoli dedicano la pellicola alla sua memoria e non a quella di Friedkin.

L'ammutinamento del Caine: corte marziale pare dovesse uscire nelle sale, tant'è che viene presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, poi però finisce in un limbo distributivo, non vede mai i cinema e arriva in sordina su Paramount plus e nelle schede del cast finisce sotto la voce film tv.

Pur ammettendo che lo stile rimanda a quel tipo di prodotto, essendo il film girato sostanzialmente in un unico ambiente, il buon cast, la messa in scena, i dialoghi, la tensione e il ritmo non c'è dubbio siano da classe superiore. 
La vicenda si apre con il tenente Greenwald (il caratterista Jason Clarke, davvero in parte), nel ruolo di avvocato difensore, che informa l'imputato di aver accettato la sua difesa per dovere, ma che, avendo potuto scegliere, non lo avrebbe fatto, per il disonore recato alla marina. 
Già qui ci troviamo di fronte ad un incipit anomalo, rispetto a tanti legal drama, al punto che il giudice Blakely chiede al tenente Maryk (Jake Lacy) se abbia intenzione di cambiare legale. Lacy viene rassicurato da Greenwald e il processo continua, tra gli interrogatori all'assalto della procuratrice Challee (Monica Raymund) e la strategia difensiva di Greenwald. In mezzo un capitano Queeg, interpretato magistralmente da Kiefer Sutherland, che, inesorabilmente, passa dal ruolo di vittima a quello di accusato.

La tecnica di Friedkin è una lectio magistralis di primi piani, campi e controcampi che assecondano l'incremento della tensione, anche grazie alle prove attoriali (segnalo quella molto espressiva della Raymund, anche lei tante serie tv - Lie to me la principale - ). La conclusione del film, non mi riferisco all'esito del processo, quanto alla coda, è l'ennesimo colpo d'autore di Friedkin, che opera un costante ribaltamento dei ruoli, tra vittime e carnefici, definendo l'integrità militare, forse anche un pò reazionaria, di Greenwald.

Da vedere. Non solo per un doveroso saluto di commiato ad un grande regista.

Paramount +


giovedì 21 marzo 2024

Piana/Vesco, Dammi un segno (una recensione)

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, la recensione di Vale Sapisi di un romanzo romantico che affronta il tema della sordità.

Quando, qualche anno fa, iniziai a studiare la Lingua dei Segni ne ero totalmente affascinata, grazie ad essa scoprii una comunità e la sua cultura. Cominciai a partecipare alle attività organizzate dalle associazioni di sordi, m'impegnai in una serie di attività di volontariato e scrissi anche qualche racconto con l'intento di trasmettere il mio entusiasmo e far conoscere la condizione dei sordi. Rileggendoli però, non mi piacquero, avevano qualcosa di artificiale, falso. Li misi da parte e non ci pensai più. Oggi sono abbastanza convinta che per scrivere di disabilità bisogna conoscerla molto, molto bene, e avere delle capacità letterarie solide. Se poi a scrivere è un disabile, ancora meglio. Al primo anno di corso LIS lessi “Il grido del gabbiano”, l'autobiografia dell'attrice sorda Emanuelle Laborit e, anche se non era un capolavoro a livello letterario, mentre lo leggevo sentivo di comprendere almeno un po' dei sentimenti che l'autrice provava la sua condizione.

 “Dammi un segno” è la storia d'amore tra un ragazzo sordo (Brando) e una ragazza udente (Sofia). Si incontrano sul tram ogni sera ma nessuno dei due ha il coraggio di fare la prima mossa. Quando infine riescono a dichiararsi entrano uno nel mondo dell'altra. Sofia e la sua coinquilina Nina conosceranno gli amici di Brando, Daniele e Mauro, e la comunità sorda alla quale appartengono. L'idea non è nuova, tutti ricordano “Figli di un dio minore” in cui si seguiva la nascita di un sentimento tra un insegnante udente e una giovane sorda, però non è detto che la stessa trama non possa svilupparsi in modo nuovo, dato che la società è cambiata e, anche se tuttora l'inclusione non è stata raggiunta, la sordità è più conosciuta.

Però, devo dire, sono rimasta abbastanza delusa da questa lettura, principalmente perché non ho trovato una narrazione soddisfacente della disabilità: anche se in queste pagine se ne parla e ci sono dei lunghi monologhi dei protagonisti rispetto al loro passato (infanzia e prima giovinezza), non ho avuto la percezione di cosa comporti essere sordo, quali siano le conseguenze nella vita quotidiana. I ragazzi sordi comunicano perfettamente e non hanno mai un problema; Sofia e Brando si capiscono troppo bene, io e il mio ragazzo siamo entrambe udenti e ogni tanto litighiamo, magari travisiamo quanto ha detto l'altro, come può essere che tra due giovani che vengono da realtà così diverse sia sempre tutto tanto perfetto?

E poi, non viene esplicitato il modo in cui i personaggi comunicano. Io che ho fatto i corsi  Lis so che i sordi possono segnare o leggere il labiale e parlare, ma mi chiedo cosa possa capire chi non conosce la sordità. Ci sono anche momenti che mi hanno lasciata molto perplessa, come quando si scopre che Sofia non ha mai fatto incontrare Brando ai suoi genitori e (spoiler) questi scopriranno che il futuro marito della figlia è sordo solo il giorno del matrimonio. “Non volevo creare imbarazzo” dice lei, ma a me non sembra una cosa molto carina, soprattutto verso il povero Brando, tenuto nascosto ai futuri suoceri, come se ci si vergognasse di lui.

A parte questo, la storia si svolge in modo poco realistico (spoiler), il viaggio dei tre ragazzi sordi in Giappone, India, Sud America va troppo liscio, tutti li capiscono al volo e tutti sono gentili e disponibili, va sempre tutto bene, come se si trovassero a Milano o Venezia. Sofia, dal canto suo, impara la LIS  nel tempo in cui Brando è in viaggio: mi viene in mente che forse io e tutti gli altri allievi dei corsi dobbiamo essere poco svegli, visto che ci abbiamo messo almeno 3 anni. Insomma, nel racconto c'è molta approssimazione. La Cultura Sorda non viene mostrata, ma spiegata in lezioni didascaliche che Sofia e Nina impartiscono a malcapitati (amici, parenti...) ogni volta che hanno l'occasione.
 A coronare tutto questo un finale che definire prevedibile è poco.

Mi dispiace doverlo dire, ma questo libro è semplicemente brutto, affronta un tema importante in modo goffo e superficiale, con una scrittura veramente povera e infantile, e questo è tanto più grave considerato che i protagonisti sordi sono ispirati a persone reali e Daniele e Mauro hanno collaborato con le loro storie al romanzo. Le loro esperienze, come quelle delle persone che fanno parte della comunità riportate al termine del volume, avrebbero meritato ben altra scrittura. Un vero peccato.


lunedì 18 marzo 2024

Brad Mehldau, Your mother should know (2023)

La liason del jazz con la musica cosiddetta leggera è solida, antica e strutturata, non inizia certo negli anni ottanta (che però sì, sono il decennio in cui del connubio si è più tristemente abusato) con Miles Davis che rifaceva Human nature e Time after time. A riprova di ciò le cronache ci riportano nei primi settanta un Miles, che al grande successo di massa ha sempre anelato, segnarsi nell'agenda degli impegni una jam con Jimi Hendrix, purtroppo giusto qualche giorno prima che il più grande chitarrista di tutti i tempi trovasse la morte con una modalità così dannatamente idiota. Il disco jazz con i pezzi di Jimi lo realizzerà poi (1974) il pianista Gil Evans assieme ad un'orchestra di venti elementi (qui una mia breve, indegna recensione). Tralasciando peraltro l'intuizione più spettacolare di tutte ad opera di John Coltrane, che da una banale canzoncina da musical ha tirato fuori uno dei pezzi jazz per cui vale la pena vivere, My favorite things

Perciò, ecco, forse non è più nemmeno il caso di parlare di liason, piuttosto di matrimonio duraturo, e al critico rimane solo da capire se tra i due (generi) si tratti di vero amore o piuttosto di mero interesse. 
Brad Mehldau, pianista americano della Florida, che dal 1993 ad oggi ha al suo attivo più di quaranta album (per dire, ha già dato due successori all'album del 2023 oggetto di questa recensione) con il pop e il rock ha sempre limonato, a titolo esemplificativo e non esaustivo basterebbe sfogliare le tracklist dei cinque volumi, distribuiti nel tempo, di The art of  the Trio, dove ascoltiamo rapiti esecuzioni che passano da brani di musical, Radiohead, Nick Drake, classici da crooner, fino ai Beatles. 
I Beatles, appunto. Dopo quella gemma di Blackbird (The art of  the Trio, volume 1 - 1997 - ) che, vabè, è solo il mio pezzo dei fab four preferito di sempre, il buon Brad decide di dedicare un intero lavoro alla musica della mitologica band (giudizio che prescinde dal mio gusto personale).

In una tracklist di undici pezzi, dieci sono dedicati alle composizioni della ditta Lennon McCartney (uno per amore di verità è del solo George Harrison) pescando, con condivisibile saggezza, nel repertorio meno noto dei Beatles, al netto di due pezzi, I saw her standing there e I am the walrus, che comunque definirei mediamente conosciuti. Per il resto, dalla title track a For no one, a Golden slumbers o Maxwell's silver hammer, si naviga nel repertorio più nascosto e raffinato della band, scandagliando soprattutto Revolver (tre brani) e Abbey road (due) che permettono a Mehldau di dipingere i consueti sapienti arazzi armonici, questa volta con sfumature anche blues (Golden slumbers) o boogie/ragtime (I saw her standing there). 
Il disco è registrato dal vivo assemblando una serie di serate a Parigi, e si chiude con un pezzo che dei Beatles non è, ma che, porca miseria, risulta il più bello, malinconico e struggente del lotto: Life on Mars? di David Bowie. 
Quale che sia il motivo della scelta in controcorrente sulla filosofia dell'operazione, affinità alle melodie beatlesiane o banalmente non voler disperdere un'interpretazione magistrale, una conclusione satura di poesia ed emozione per un disco sicuramente da ascoltare e riascoltare.