ASCOLTI
Blood Incantation, Absolute elsewhere
JD McPherson, Nite owls
King of killers (1,5/5)
ASCOLTI
In premessa lasciami esporre un concetto che mi guida in relazione ai film che si pongono un obiettivo di denuncia politico-sociale: non sempre l'encomiabile proposito degli autori si traduce in cinema di qualità. Si potrebbero fare davvero tanti esempi di pellicole "impegnate" che si sono rivelate mediocri o proprio brutte. In ogni caso, specialmente in un periodo storico come quello che stiamo attraversando, con la marea nera delle peggiori destre che sta avanzando come il Nulla de La storia infinita, è senza dubbio apprezzabile il coraggio di esporsi.
In questo caso di esporsi con una persona che, se da qui a circa due settimane dovesse tornare ad essere presidente degli Stati Uniti (prospettiva purtroppo probabile, visto un meccanismo elettorale risalente al 1787), ha già ampiamento anticipato che il suo sarà un governo di "retribution", vale a dire ritorsivo e vendicativo nei confronti dei suoi avversari. E di certo Ali Abbasi, regista iraniano naturalizzato danese (si parla tanto di Holy spider, grande film, meno del disturbante, gotico, fiabesco Border) di motivi per scatenare la faida trumpiana, con questo The apprentice, ne offre tanti, all'ossigenato ex palazzinaro newyorkese.
Com'è noto, la storia prende in esame la formazione di Trump, partendo dalla New York sporca e decadente della metà dei settanta, fino alla notorietà e alla costruzione della Trump Tower (chiaro esempio di compensazione fallica, se mi passi la battuta). Molto spazio, nella fase giovanile del futuro presidente, è data alla figura di Roy Cohn, ex procuratore sciovinista e maccartista nei cinquanta e successivamente avvocato di successo che usa spregiudicatamente ricatti e minacce. Lo impersona Jeremy Strong, un attore che, al netto della notorietà derivata da Succession, è probabilmente qui al suo primo ruolo davvero caratterizzato e non butta via l'occasione, con una prova che si fa ricordare. Lo stesso vale per Sebastian Stan che, soprattutto nella seconda parte del film, quella in cui emerge il Trump cinico e spietato che abbiamo imparato a conoscere, ci regala un'interpretazione maiuscola, eludendo con bravura il rischio parodia.
Il film vola senza momenti di stanca, infatti, al suo epilogo dopo due ore, quando si arriva al Trump spietato, cinico e senza scrupoli che detta la sua biografia ad un giornalista, vorresti averne ancora.
The apprentice, arrivato nelle sale dopo battaglie legali che hanno tentato di impedirne la diffusione, pare sia stato fin qui un flop (annunciato), la speranza è che lo streaming gli restituisca la visibilità che penso meriti, e non perchè possa essere uno strumento per la sconfitta elettorale di Trump (al contrario, io penso che in questo senso l'operazione sia controproducente), ma perchè ci troviamo di fronte ad un titolo che salda impegno e qualità. E come scrivevo in premessa, non capita spesso.
Pietro Vella è un professore di liceo benvoluto da tutti per la sua capacità di appassionare e coinvolgere gli alunni. Durante un ultimo anno è colpito in particolare da Teresa, una sua studentessa, forse non la più seducente, ma molto promettente, dotata di un'intelligenza vivace, e dalla forte personalità. Un anno dopo la maturità, Pietro viene a sapere che Teresa, contrariamente a quanto tutti si aspettavano, ha "mollato" e fa la cameriera in un ristorante. Egli la cerca e i due si mettono insieme. Qualche tempo dopo, allo scopo di cementare indissolubilmente la loro unione, Teresa gli propone di confidarsi vicendevolmente il segreto più inconfessabile e recondito che custodiscono. Pietro è perplesso, ma cede. Quella rivelazione cambierà per sempre le loro vite.
Al di là del gusto personale e della soggettività, elementi che di norma contribuiscono a plasmare il giudizio che esprimiamo su quasi ogni opera, ci sono delle forme d'arte (film, in questo caso) che più di altre agiscono sul nostro io più sommerso, stimolandoci e facendoci riflettere, condizionando la nostra opinione al punto da condurla oltre l'esclusivo merito "oggettivo".
Un ottimo film, dunque, che nel suo essere terapeutico trova la spinta ad elevarsi e diventare, per Bottle of smoke, uno dei migliori dell'anno.
La biografia romanzata di Carrere ci racconta di un personaggio che si stenta a credere essere reale: spigoloso, che trae la sua forza da un risentimento ad ampio spettro (contro elite, establishment, sistema sovietico, ma anche veicolato all'opposto, contro chi a questi poteri si oppone) con una sconfinata autostima, un'indubbia incoscienza e sprezzo delle conseguenze. Un personaggio che, da sovietico in terra sovietica si oppone al regime dell'URSS frequentando poeti e artisti dissidenti (che intimamente disprezza, a partire da Solzenycin) ma che, quando diventa un esule, si trasforma in un intransigente nazionalista a difesa del politburo.
Carrere ci racconta di un personaggio che antepone le esperienze dirette, anche le più sordide, e l'azione - la rivoluzione! - alle chiacchere da salotti liberal. Concetto questo portato fino alle estreme conseguenze, come la militanza nell'esercito serbo durante la guerra dei balcani nei primi novanta, con le famigerate milizie di Karadzic e la fondazione, assieme a quel Aleksandr Dugin che diventerà fidato consigliere di Putin, di un movimento "rossobruno" - tristemente in anticipo sui tempi attuali - : il Partito Nazional Bolscevico (nazbol) in cui riunisce soprattutto giovani emarginati che creano con lui un legame ombelicale, al punto di essere pronti a tutto per il loro leader, fino a morire o farsi la galera siberiana, dentro un furore epico che li ammanta e li acceca, ma, al tempo stesso gli offre una ragione di vita. Anche a causa di questa forza politica eversiva, Limonov sconta diversi anni di galera, accrescendo così (nell'ottica di cui sopra) il proprio mito. Esce in tempo per andare a combattere per Putin e la popolazione russofona in Ucraina, nel Donbass, nel 2014
Sul film di Kirill Serebrennikov sarò molto più capato. Posta la difficoltà dieci dell'operazione, penso che il risultato sia sufficientemente apprezzabile, anche nelle sue parti pop. Ben Wishaw è in parte, ma senza gridare al miracolo, come ho letto in giro. A mio avviso vale maggiormente la messa in scena complessiva di Serebrennikov che l'interpretazione dell'attore inglese. La pellicola peraltro ha vissuto una gestazione complessa e articolata, iniziata in Russia e poi, a causa della guerra in Ucraina, la produzione si è interrotta per poi continuare diversi mesi dopo in Lettonia, dove sono stati incredibilmente riprodotti gli esterni di New York.
Come sarebbe potuto essere realizzato meglio, un film così difficile? A mio avviso, ma capisco sia un suggerimento anti commerciale, con almeno un'ora/un'ora e mezza in più di girato, magari dividendo il film in due parti, oppure attraverso una mini serie tv. Penso che vedere l'infanzia di Eduard e la parte come miliziano serbo sia determinante per una fotografia nitida del personaggio.
Anche così non mi lamento, sarebbe potuta andare molto peggio.
Slater King, un affascinante imprenditore di successo con un passato da farsi perdonare a causa dell'emersione pubblica di comportamenti violenti ed eccessivi, si è ritirato da tempo dalla scena pubblica. In occasione di una festa in suo onore, conosce Frida (che lo venera) e la sua amica e le invita ad unirsi a lui e al suo entourage su di un'isola sperduta di sua proprietà. Le amiche accettano e una volta arrivate lì, in una condizione di lusso sfrenato, tra sostanze psicotrope e bizzarri compagni di viaggio, tutto sembra idilliaco come sui rotocalchi del parrucchiere. Ovviamente non è così.
Già cantante e attrice, Zoe Kravitz, aggiunge al suo curriculum di artista anche la regia, e lo fa in maniera tutt'altro che banale, con un film di genere (di cui co-firma anche soggetto e sceneggiatura), girato con sorprendente personalità, che mette al centro l'intrigo, il terrore e la violenza, ma senza lesinare il messaggio femminista, affidato in particolare a Sarah (una convincente Adria Arjona), che accompagna la protagonista Frida (Naomi Ackie) alla ricerca della verità, e la critica alla società moderna nella quale siamo oltre i tre minuti di popolarità preconizzati da Warhol, e dove ognuno vuole una fetta della high life dei vip che legge su Chi e guarda a Verissimo.
Tuttavia, analogamente a Trap, altro film che ho apprezzato e che spero di riuscire a recensire, è un attore maturo che ha solo sfiorato l'enorme popolarità e che di norma non è incline ai ruoli da villain, a regalarci un'interpretazione indimenticabile nella sua ferocia. Se nell'ultima pellicola di Shyamalan era Josh Hartnett, qui è Channing Tatum a dare corpo all'imprenditore miliardario Slater King, nel cui esclusivissimo cerchio magico tutti vogliono entrare, anche a costo di perdere l'umanità o, all'opposto, per dare libero sfogo ai propri impulsi più reconditi, nella certezza di farla franca. Nella finzione del film grazie ad un particolare escamotage chimico, e, purtroppo, nella realtà in virtù della protezione garantita da livelli di potere economico inimmaginabile.
Il film vive del consueto patto non scritto tra regista e spettatori sul quale vive l'intrattenimento di genere: concedetemi qualche elemento di inverosimiglianza e vi ripagherò con una buona dose di thrilling e suspence. In Blink twice non tutto ha logica ed è verosimile, ma la Kravitz gestisce bene la tensione crescente e il mistero, disseminando la narrazione di frammenti di indizi visivi, trasmettendo un malessere costante, anche nelle scene apparentemente all'insegna del divertimento della combriccola. C'è da dire che il risultato è raggiunto anche grazie anche alle musiche e soprattutto ad una superba fotografia, che ammanta le location di una luce sempre minacciosa, sia nelle scene di giorno che in quelle di notte, negli spazi aperti e in quelli chiusi. Imprevedibile il plot twist del pre-finale così come inaspettata la conclusione del film, a conti fatti forse la trovata in assoluto meno realistica dell'opera, ma che, a mio parere, in virtù del patto con lo spettatore di cui sopra, ci appare come il più congruo dei contrappesi.
Devo confessarlo, non sono mai stato un die hard fan di Tom Petty. L'ho sempre ascoltato a piccole dosi e raramente per la durata di un intero album (con qualche eccezione, ad esempio Full moon fever e Wildflowers - casualmente entrambi senza gli storici sodali Heartbreakers - e Southern accents). Ciononostante mi sento legato ad una manciata di sue canzoni che appartengono di diritto ad una mia ipotetica playlist della vita. Inoltre questo disco tributo, che mette un pò il meglio del country americano mainstream, autoriale e storico davanti al compito di ricordare l'uomo di Gainsville, Florida, attraverso la reinterpretazione del suo songbook, era troppo ghiotta per non addentrarcisi. Aggiungo che la filosofia del tributo (i musicisti country che omaggiano la produzione di Tom) ha senso, visto che Petty è stato, inconsapevolmente, il pioniere di quel genere, chiamato poi "americana", che saldava assieme country, folk e rock.
Come funzionano gli album di tributo? In maniera abbastanza schematica. Ci sono gli artisti che vi partecipano per autentica riconoscenza al soggetto celebrato, quindi, in genere le loro interpretazioni risultano anche essere le più appassionate ed efficaci, e sovente i pezzi scelti non sono i più noti dalle masse. Poi c'è chi partecipa perchè ha uno status di musicista per cui "è meglio esserci", e in questa circostanza di norma ascoltiamo elaborazioni scolastiche dei brani di maggior successo del caro estinto. Infine ci sono le band emergenti, cui le major - almeno fino a quando esisteva il mercato discografico - cercavano di allargare la platea inserendoli, nella tracklist, tra i tanti big.
Petty Country segue questa prassi, sia nella distribuzione delle tracce che nella qualità delle interpretazioni. Premettendo che davvero in pochissime, tra le band partecipanti, hanno inciso sull'architettura delle canzoni, limitandosi quindi ad una riproposizione fedele delle armonie originali, non è una sorpresa constatare come gli artisti più autorevoli e meno interessati a finire ad ogni costo nelle rotazioni di CMT (la potente televisione country USA) siano anche quelli che ci regalano più brividi. A partire da Chris Stapleton, che prende un brano poco noto (e anche il più recente, tra quelli presenti), I should have know it, da Mojo del 2010, e lo fa suo. Così la traccia numero uno è già, se non la migliore, nella short list delle migliori.
A seguire vanno, a mio avviso, raggruppate tutte quelle versioni piacevoli ma innocue e pedisseque agli originali, delle grandi hit (ci sono tutte) di Petty. Running down a dream (Luke Combs), American girl (Dierks Bentley), I won't back down (Brothers Osbourne), Learning to fly (Eli Young Band) e Free falling (Cadillac Three) scivolano via senza lasciare particolari residui emozionali, perlomeno Thomas Rhett, ci porta una versione di Wildflowers impreziosita da un apprezzabile violino western.
Ora. Personalmente reputo Southern accents una delle canzoni più belle di sempre, che dovrebbe essere eletta a inno dei meridionali di tutto il mondo. Un meraviglioso fiore di campo creato da Tom Petty per l'album omonimo del 1985 ed elevata a standard nell'indimenticabile versione di Johnny Cash per Unchained del 1996. Ascoltarla qui in una versione, scegliete voi, da residence a Las Vegas o festival di Sanremo, da parte di una Dolly Parton incartapecorita fa male al cuore.
Per riprendersi bisogna tornare a chi cerca di creare un ponte autoriale tra il true-country del passato e il presente. Un ponte che sorvoli il tanto, troppo pop-country imperante da anni a livello mainstream. Quindi Jamey Johnson con una drammatica, straziante I forgive it all, il bluegrass-oriented sound di Steve Earle messo al servizio di Yer so bad, il cosmic-country di Marty Stuart che eleva I need to know.
In conclusione Petty Country è un tribute album che scorre piacevole ma altrettanto inoffensivo per buona parte della sua tracklist, facendo quasi sempre preferire gli originali. Che non è mai troppo tardi andare a (ri)scoprire.
Nel sequel, dopo i fatti del primo film, la sfiga continua a perseguitare Becky (ma sarà davvero sfortuna?), mettendo sulla sua strada un gruppo militare anti governativo che ha progetti eversivi.
Sarebbe bastata una frase per sintetizzare questi due film ignorantissimi: if you want blood you've got it! Infatti, la trama delle due pellicole, esile come carta velina e altrettanto inverosimile, serve unicamente all'ipotetico spettatore medio (cioè, spero, non simpatizzante di terroristi americani o nazisti) ad urlare di piacere e lanciare in aria i suoi pop-corn mentre assiste alla mattanza perpetrata da una ragazzina di tredici anni contro montagne umane tatuate di svastiche. Insomma, una specie di Mamma ho perso l'aereo però con trappole tipo quelle, sadicissime, di Itchy & Scratchy (Grattachecca e Fichetto) dei Simpsons. Nel primo capitolo da segnalare l'interpretazione, apprezzabile in un ruolo da badass villain, del comico Kevin James.
Il sequel, se vogliamo è ancora più stimolante, visto che gli sceneggiatori mettono contro Becky una banda armata americana terroristica, i Noble Men, che vuole attentare alla vita della senatrice democratica Hernandez. Tradotto, i Proud Boys o una delle tante milizie a cui si rivolge Trump (lo fece anche in occasione dell'attacco a Capitol Hill), e la senatrice Ocacio Cortez, loro obiettivo primario tra i democratici. Anche qui tutto è eccessivo e oltre ogni verosimiglianza, ma anche qui ci si diverte come bambini davanti a tanto splatter (che mi è parso tutto artigianale, e non in CG) e a una manciata di sequenze di irresistibile black comedy.
Insomma, i due capitoli di Becky - non ho citato la protagonista, Lulu Wilson, con la giusta faccia che oscilla tra ragazza della porta accanto e stronza insopportabile - , sono un'intrattenimento ad alto tasso di ignoranza, ma cattivo e fumettoso, con il quale passare, complessivamente, meno di tre ore di divertimento rigorosamente gore.
Sara, adolescente di una zona rurale della Spagna (Estremadura, al confine con il Portogallo) è costantemente bullizzata dalle coetanee per il suo aspetto fisico. Anche la sua amica d'infanzia, Claudia, pur non rendendosi direttamente responsabile degli atroci scherzi a cui è sottoposta Sara, non fa nulla per arginare le odiose iniziative di scherno delle amiche. Sara vive quindi una situazione di solitudine e angoscia e osserva i coetanei divertirsi dalla vetrata della macelleria di famiglia. Frequenta la piscina pubblica solo a pomeriggio inoltrato, quando gli altri se ne sono andati. Proprio in una di queste occasioni accadrà qualcosa che cambierà radicalmente la vita di Sara, delle sue aguzzine e dell'intera piccola comunità.
La regista Carlota Pereda estende un suo corto del 2018 trasportandoci nell'orrore più grande che possiamo conoscere. Non quello di un assassino violento e spietato, ma della discriminazione quotidiana, ottusa, inspiegabile e interminabile che si riversa su quanti non corrispondano ai canoni consumistico-sociali di bellezza. L'orrore insomma di una vita che si alimenta quotidianamente di derisione e risentimento, di un'autostima falcidiata e di una percezione di totale incomprensione a partire, purtroppo, dal nucleo familiare, lontano e assente, anche se fisicamente vicinissimo.
La protagonista, Laura Galàn, all'anagrafe trentottenne, è straordinaria nel dare corpo ad un'adolescente e, francamente, le critiche sull'età dell'attrice, magari espresse da chi, per anni, si è bevuto universitari americani interpretati da trentenni, fanno ridere. Della perfidia delle coetanee che riversano, quotidianamente e senza ragione, rabbia e odio nei confronti di Sara, con esiti che, da queste parti sono sovente il suicidio della vittima e negli States stragi scolastiche, sono piene le cronache. E la figura del serial killer che, probabilmente avendo subito lo stesso inferno della vittima, trova uno scopo non solo nella mattanza ma nella protezione di chi, ai suoi occhi, appare come un suo simile, è l'incarnazione di una sorta di giustizia poetica che tiene benissimo in piedi il film, al netto degli inciampi della parte di sceneggiatura prettamente thriller.
P.S. Quanto ci sarebbe stato bene, ad accompagnare le immagini del terzo atto del film, il nichilismo di un brano come Piggy, dei Nine Inch Nails?
P.P.S. Allo stesso modo, quanto è fuori luogo il claim della locandina italiana?
Su Prime Video (a noleggio)
No, non è esattamente una novellina Sierra Ferrell. E' più vicina ai quaranta che ai trenta e prima di emergere si è sbattuta in giro con la sua musica per metà della sua vita. Lo preciso perchè, nella mia scala di valori, essere una che si è fatta una lunga gavetta, rispetto a tante chicks di bella presenza alle quali l'industria country di Nashville si capicolla a proporre un contratto, è decisamente rilevante. Sierra è nativa della West Virginia e si fa le ossa con tutta la old time music priva del prefisso "pop". True-country, bluegrass, ma anche dixieland-jazz e irish-waltz. Dopo due dischi autoprodotti, finalmente nel 2021 l'eccellente Rounder Records la assolda e Ferrell può fare uscire il suo debutto, Long time coming, ottimamente accolto da critica e appassionati di true country, che genera col tempo un grande hype per il successore, uscito lo scorso 22 marzo col titolo di Trail of flowers.
L'album è stato anticipato dal singolo Fox hunt che salda, se ce ne fosse stato ulteriormente bisogno, il forte legame di Sierra con il suo territorio, un pezzo che profuma di monti appalachi, condotto dal ritmo dei violini e dai cori evocativi dei nativi americani Cherokee. Un singolo atipico, non rilasciato certo per piacere alle masse (altro punto messo a segno nella mia considerazione), nonostante nell'album, di canzoni belle e potenzialmente performanti ce ne sia più d'una . A partire dall'open-track American dreaming, adagiata su di un testo in cui la songwriter racconta della difficoltà di raggiungere prima e gestire poi la notorietà. Una melodia irresistibile su parole che raccontano vita vissuta.
Trail of flowers brilla infatti, oltre che per le composizioni musicali, per liriche poetiche e personali. Persino io che, quantomeno, non sono alla ricerca spasmodica di pezzi che abbiano a tema l'amore (o l'abbandono) mi sono sciolto peggio che in questi giorni torridi di luglio inoltrato davanti a tracce celestiali come The letter, Why haven't you loved me yet, Lighthouse o la malinconica, arrendevole Wish you well ("Nothing could prepare me for the joy you took from me / Stole away the person that I was when I was free / Learnin' how to tell those lonesome feelin's not to dwell / Though you've hurt me, I still wish you well").
Anche se, assieme a Fox hunt, le mie preferenze vanno in assoluto alla cover di Chittlin, cookin' time in Cheatham County, traditional di Arthur Smith, qui riproposto da Ferrell in una versione soffice e sinuosa, in perfetto clima da jazz bar di New Orleans, e la murder ballad su basi vagamente irish-tango (questa me la sono inventata, ma spero renda l'idea) di Rosemary.
E' presto per sbilanciarsi sul disco dell'anno, ma concedetemi di definirlo quantomeno il (mio) disco dell'estate. Alla faccia dei The Kolors.
Se pensiamo alla figura di un comprimario del grande circo del rock che sia "fedele nei secoli" al mitologico frontman, probabilmente il primo nome che ci balenerebbe in mente è quello del chitarrista del New Jersey nato Steven Lento, e poi, nel tempo, diventato Stevie Van Zandt, alias Miami Stevie, alias Little Steven. Il suo ghigno malizioso con il labbro inferiore sporgente, gli occhi insinuanti e la costante bandana colorata, nell'immaginario collettivo sembra trovi posto solo accanto a Bruce Springsteen, sui palchi di tutto il mondo. Giusto?
Sbagliato. Innanzitutto perchè la storia ci racconta di una lunga separazione tra i due, i quasi vent'anni trascorsi dal tour di The River (1980/81) alla reunion della E Street Band (1999), e, soprattutto, perchè Little Steven, in quel periodo ha fatto di tutto eccetto starsene con le mani in mano.
Sì, perchè Stevie racconta di una vita con poco sesso e droga, parecchio rock and roll ma, soprattutto, un'infinita voglia di esplorare, intraprendere, incidere sulle cose, cambiarle, raddrizzare ingiustizie, che siano l'esclusione di un misconosciuto gruppo anni sessanta dalla notorietà fino all'apartheid.
Proprio l'ambito di quell'abominio razziale del Sudafrica rappresenta forse la parte più avventurosa (per l'incolumità del nostro) ed avvincente del libro. Col senno di poi, quel fantastico progetto sfociato nel supergruppo Arists United Against Apartheid fu l'unico, nell'imperante moda delle canzoni benefiche (ricordate Do they know it's christmas e We are the world?), a raggiungere un obiettivo concreto, oltre che di emersione del problema.
Per la canzone manifesto Sun City, testardamente e contro tutti, Stevie contaminò artisti diversissimi tra loro, raggruppando Miles Davis e Bono, Bruce e i Run DMC, Bob Dylan e George Clinton, Herbie Hankock, Joey Ramone, Peter Gabriel, Lou Reed e tanti, tanti altri. Il brano provocò un movimento d'opinione che si abbattè anche contro lo stesso music business (fino a quel momento più di un artista, ad esempio Sinatra e i Queen, andava serenamente a suonare a Sun City fregandosene della condizione della popolazione nera), contribuendo fortemente a fare opinione fino alla caduta del regime e alla liberazione di Mandela (a proposito del quale Stevie riporta giudizi al vetriolo su Paul Simon - peraltro detestato dai gruppi politici sudafricani che si opponevano alla dittatura afrikaner - , che riteneva il leader africano un pericoloso comunista e Whitney Houston, che in un concerto di tributo per la liberazione di Mandela non volle nessun riferimento politico alla sua esibizione. Entrambi passarono poi per paladini della liberazione del Paese africano, ma vabeh).
E volendo, non è finita qui, c'è il rapporto fraterno con Springsteen, le produzioni televisive (I Soprano, Lilyhammer), le turnè nell'amata Europa, il suo ruolo di consulente e mediatore ad ampio spettro (cinema, televisione, musica).
Una vera sorpresa insomma, questo Memoir, consigliata a musicofili, cinefili, appassionati di politica e curiosi della vita tout court.
Mentre Hong Kong si prepara all'handover (il passaggio da colonia del Regno Unito alla Cina), la regione di Macao vive una fase delicata dei rapporti tra le organizzazioni malavitose. C'è una taglia da cinque milioni sulla testa dei due boss locali che fa gola a molti killer dentro e fuori il territorio e, soprattutto, nessuno conosce chi abbia attivato questa ricompensa. Il poliziotto violento e corrotto Sam e il misterioso Tony si fronteggiano nella notte decisiva per evitare (o scatenare) una sanguinosa guerra tra bande.
I due protagonisti principali, Tony Leung Chiu-Wai (tra gli altri Hard boiled, Chinese odyssey, Infernal affair) e Sean Lau, attori molto noti in patria, prima di questo film non avevano prestato la loro arte a personaggi negativi che si spingono oltre la figura dell'anti-eroe, laddove le loro azioni di eroico non hanno davvero nulla e anzi.
Visioni seriali
La storia dietro alla realizzazione de Il Padrino è una delle più avventurose, incredibili e coinvolgenti della storia del cinema. Con il tempo la narrazione di quegli eventi ha assunto i contorni epici del mito, anche grazie al libro di Mark Seal 'A pistola lasciala, pigliami i cannoli. Allora perchè non provare la strada della serie tv, che, oltre a riaccendere un faro sul film più famoso di sempre, compie un'operazione di rilancio del brand Paramount?
Operazione non banale, a grosso rischio di cadute parodistiche, se pensiamo che per rielaborare le vicende che portarono al Capolavoro bisognava mettere in scena attori che interpretassero Al Pacino, Marlon Brando, Coppola, Puzo... E allora la prima considerazione da fare in relazione a questa produzione è che quel pericolo è stato evitato, in qualche caso anche in modo brillante. Qualche esempio: Anthony Ippolito nel ruolo di Al Pacino è sorprendentemente efficace, sia nelle espressioni e nel linguaggio non verbale quanto nella parlata (ovviamente mi riferisco alla versione originale); l'accoppiata Francis Ford Coppola (Dan Fogler) Mario Puzo (Patrick Gallo) non so quanto sia confacente gli originali, ma di certo funziona. Tuttavia la scelta migliore che potessero compiere gli sceneggiatori attiene alla rinuncia di replicare una qualsiasi scena de Il Padrino: vediamo le location, assistiamo ai ciak, al massimo li viviamo attraverso la sedia del regista , ma non si va mai oltre. Mi è sembrata una decisione saggia.
Il ruolo principale, quello dell'allora neo produttore Albert Ruddy, è affidato al bravo Miles Teller (tra gli altri Whiplash, il franchise Divergent, Too old to die young), che gigioneggia alla grande, assieme a Juno Temple (la segretaria tuttofare Bettye), e ad un divertentissimo Matthew Goode (Robert Evans, produttore apicale). Ci sono anche, tra gli altri, Burn Gorman (Charlie Bluhdorn, CEO di Paramount), Colin Hanks (il "capo contabile"), Giovanni Ribisi (il mafioso Joe Colombo). Tutta gente dal fitto curriculum da caratterista che svolge con professionalità, chi un pò sopra le righe - ma il ruolo lo permette - chi no, il ruolo assegnato.
Insomma una serie godibile senza essere ovviamente un capolavoro (gli ho assegnato 3/5), in cui forse sarebbe stato opportuno sforbiciare qua e là riducendo i dieci episodi almeno a otto, e dove assistiamo a aneddoti arcinoti ai cinefili, ma anche a chicche e nozioni meno celebri. Il tutto sicuramente romanzato, ma senza dubbio ben realizzato e piacevole, anche per quanti, come me, centellinano le serie televisive.