Devo confessarlo, non sono mai stato un die hard fan di Tom Petty. L'ho sempre ascoltato a piccole dosi e raramente per la durata di un intero album (con qualche eccezione, ad esempio Full moon fever e Wildflowers - casualmente entrambi senza gli storici sodali Heartbreakers - e Southern accents). Ciononostante mi sento legato ad una manciata di sue canzoni che appartengono di diritto ad una mia ipotetica playlist della vita. Inoltre questo disco tributo, che mette un pò il meglio del country americano mainstream, autoriale e storico davanti al compito di ricordare l'uomo di Gainsville, Florida, attraverso la reinterpretazione del suo songbook, era troppo ghiotta per non addentrarcisi. Aggiungo che la filosofia del tributo (i musicisti country che omaggiano la produzione di Tom) ha senso, visto che Petty è stato, inconsapevolmente, il pioniere di quel genere, chiamato poi "americana", che saldava assieme country, folk e rock.
Come funzionano gli album di tributo? In maniera abbastanza schematica. Ci sono gli artisti che vi partecipano per autentica riconoscenza al soggetto celebrato, quindi, in genere le loro interpretazioni risultano anche essere le più appassionate ed efficaci, e sovente i pezzi scelti non sono i più noti dalle masse. Poi c'è chi partecipa perchè ha uno status di musicista per cui "è meglio esserci", e in questa circostanza di norma ascoltiamo elaborazioni scolastiche dei brani di maggior successo del caro estinto. Infine ci sono le band emergenti, cui le major - almeno fino a quando esisteva il mercato discografico - cercavano di allargare la platea inserendoli, nella tracklist, tra i tanti big.
Petty Country segue questa prassi, sia nella distribuzione delle tracce che nella qualità delle interpretazioni. Premettendo che davvero in pochissime, tra le band partecipanti, hanno inciso sull'architettura delle canzoni, limitandosi quindi ad una riproposizione fedele delle armonie originali, non è una sorpresa constatare come gli artisti più autorevoli e meno interessati a finire ad ogni costo nelle rotazioni di CMT (la potente televisione country USA) siano anche quelli che ci regalano più brividi. A partire da Chris Stapleton, che prende un brano poco noto (e anche il più recente, tra quelli presenti), I should have know it, da Mojo del 2010, e lo fa suo. Così la traccia numero uno è già, se non la migliore, nella short list delle migliori.
A seguire vanno, a mio avviso, raggruppate tutte quelle versioni piacevoli ma innocue e pedisseque agli originali, delle grandi hit (ci sono tutte) di Petty. Running down a dream (Luke Combs), American girl (Dierks Bentley), I won't back down (Brothers Osbourne), Learning to fly (Eli Young Band) e Free falling (Cadillac Three) scivolano via senza lasciare particolari residui emozionali, perlomeno Thomas Rhett, ci porta una versione di Wildflowers impreziosita da un apprezzabile violino western.
Ora. Personalmente reputo Southern accents una delle canzoni più belle di sempre, che dovrebbe essere eletta a inno dei meridionali di tutto il mondo. Un meraviglioso fiore di campo creato da Tom Petty per l'album omonimo del 1985 ed elevata a standard nell'indimenticabile versione di Johnny Cash per Unchained del 1996. Ascoltarla qui in una versione, scegliete voi, da residence a Las Vegas o festival di Sanremo, da parte di una Dolly Parton incartapecorita fa male al cuore.
Per riprendersi bisogna tornare a chi cerca di creare un ponte autoriale tra il true-country del passato e il presente. Un ponte che sorvoli il tanto, troppo pop-country imperante da anni a livello mainstream. Quindi Jamey Johnson con una drammatica, straziante I forgive it all, il bluegrass-oriented sound di Steve Earle messo al servizio di Yer so bad, il cosmic-country di Marty Stuart che eleva I need to know.
In conclusione Petty Country è un tribute album che scorre piacevole ma altrettanto inoffensivo per buona parte della sua tracklist, facendo quasi sempre preferire gli originali. Che non è mai troppo tardi andare a (ri)scoprire.
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