martedì 30 marzo 2021

Bob Dylan, Rough and rowdy ways (2020)


Almeno, e sottolineo
almeno, un capolavoro a decennio. Questa la regola di Bob Dylan nel novecento. Se guardiamo alla sua produzione il conto è presto fatto, a partire dai sessanta, quando, in particolar modo i dischi dal 1963 al 1966 rappresentano spartiacque epocali (parliamo di robetta tipo Freewheelin'; The times they are a-changin'; Bringing it all back home; Highway 61 Revisited e Blonde on blonde), per passare ai settanta (Blood on the tracks; The basement tapes e Desire), gli ottanta (Oh mercy) , e arrivando infine ai novanta (Time out of mind), il Maestro non ha mai derogato alla norma.

Poi è arrivato il ventunesimo secolo, con due buoni lavori che si stagliano sul resto della produzione del periodo, Love & theft e Modern times, un ultimo album di inediti nel 2012 (Tempest), e una serie di raccolte contenenti interpretazioni di altrui composizioni (l'ultima, Triplicate, addirittura in formato  triplo CD). Mancava quindi il picco d'assoluta eccellenza ed erano otto anni che il buon Bob non rilasciava materiale proprio. 
Il fatto che abbia scelto questo disgraziato periodo per colmare in un colpo solo queste due lacune non voglio considerarlo casuale.

Ricordo in maniera indelebile tutti i dettagli del primo ascolto delle canzoni che hanno segnato la mia vita: dove mi trovavo, (eventualmente) con chi, come ho ascoltato il brano, le emozioni che mi ha trasmesso. Bene, nell'hard disc della mia memoria fissa ora occupa un posto di rilievo anche Murder most foul, il comeback di Dylan, ascoltato per la prima volta da youtube alla fine di marzo dello scorso anno, nel periodo fin qui più drammatico della pandemia. Eravamo in lockdown, con le città chiuse e io, dopo una giornata di smart working, ero sul balcone di casa, seduto ad ascoltare in uno stato di semi trance le macchine della polizia che passavano nel quartiere intimando, attraverso l'altoparlante, di stare a casa. E' lì che ho infilato le cuffie dello smartphone e ho premuto per la prima volta l'avvio della riproduzione del video (in realtà un'immagine fissa del volto di John F. Kennedy, la stessa della quarta di copertina del disco) di Murder most foul e, dopo una manciata di minuti (all'incirca quando inizia la lunga strofa inaugurata dal verso "Play  me a song Mr. Wolfman Jack") ho rivolto un pensiero alle entità superiori, ringraziandole, nell'ordine, dell'esistenza di Bob Dylan, di essere vivo e di potermi permettere di emozionarmi ancora, alla mia età, al cospetto di una canzone.

Che poi definire Murder most foul una semplice canzone sarebbe come dire che Furore di John Steinbeck è solo un romanzo. 
Intanto perchè si tratta del brano più lungo mai inciso dal cantautore (quasi diciassette minuti), e poi perchè, dentro questo flusso di coscienza reso attraverso l'inimmaginabile potenza che un filo di voce può sprigionare, vive la sintesi di un artista, della sua visione di un Paese bellissimo e terribile, delle bugie e del sangue su cui è edificato. 
Il rapporto tra questa traccia e l'album Rough and rowdy ways è di armoniosa ma separata convivenza, infatti, nonostante Murder most foul avrebbe potuto tranquillamente stare nel timing complessivo di un CD, aggiungendosi ai cinquantatre minuti della rimanente tracklist, gli è stato riservato un posto di riguardo, come unico brano di un bonus disc aggiuntivo.

Quindi, nel recensire Rough and rowdy ways (che io, in pieno lapsus freudiano ho continuato e continuo a storpiare in Rough and rowdy DAYS), bisogna partire daccapo, con l'opener I contain multitudes, e salutando il ritorno al suntuoso songwriting che ci si aspetta da Dylan, veicolato da un folk-croonering che il nostro veste come un guanto, ma senza che questa cifra stilistica limiti l'orizzonte "americana" del resto dell'album. 
False prophet è infatti un altro splendido connubio testo/melodia che sceglie il blues rurale per esprimersi. E a chi pensa che ottant'anni (da compiere il 24 maggio) siano un'età fuori tempo massimo per comporre una credibile canzone d'amore farei ascoltare una My own version of you, così pregna di poesia e suggestioni da far appendere matita a taccuino ( o, ahimè, ipad) al chiodo a tanti novelli cantautori della minchia.

Il ritrovato stato di forma  di uno degli artisti musicali più influenti del ventesimo secolo sorprende solo alla luce dei recenti lavori, che sembravano delineare nella divulgazione di canzoni tradizionali americane, perlopiù misconosciute e del periodo a cavallo tra gli anni venti e i cinquanta,  il dignitosissimo viatico di una carriera al tramonto. 
Di certo un contributo non secondario alla rinascita compositiva di Dylan l'ha fornita la sua backing band consolidata, quella dei Never Ending Tour, quella di, cito su tutti, Charlie Sexton alla chitarra, che si è avvalsa di recente anche di Matt Chamberlain alla batteria, mentre per Murder must foul i musicisti ospiti (entrambi al piano) chiamati ad impreziosire il tessuto musicale rispondono ai nomi di Benmont Tench (Tom Petty and the Heartbreakers) e Fiona Apple.

Insomma, siamo stati un pò troppo frettolosi a decretare la fine di Dylan. Per chiarirci il concetto l'uomo che più d'ogni altro ha saputo scrivere pagine indelebili della musica moderna ci dona un colpo di coda (a questo punto speriamo non l'ultimo) da lasciare senza fiato.  E chissà se l'evocativo valzer che accompagna I've made up my mind to give myself to you, il blues, stavolta elettrico, tributo ad un grande bluesman del passato Goodbye Jimmy Reed, o i quasi dieci minuti dell'introspettiva ballata Key West (Philopher pirate), possano, nel tempo, affiancarsi se non ai classici immortali, almeno a quelli che arrivano subito dietro.

Insomma, qui il tema non è voler vincere facile parlando bene di qualunque composizione componga Dylan, ma saper riconoscere l'arte. A volte ci si riesce, altre meno. E in questo caso bisognerebbe essere sordi e privi di qualunque forma di umana emozione, per sbagliarsi.



mercoledì 24 marzo 2021

Woody Allen, A proposito di niente

 


A proposito di niente è esattamente come ti aspetteresti un racconto senza rete di Woody Allen, infarcito cioè di autoironia, comicità, cultura (ma non ditelo all'autore, perchè si schernirebbe), basso profilo e un rapporto con la propria arte cinematografica di un'umiltà che spesso manca ai registi che non hanno girato nemmeno mezzo film, ma che se la tirano manco fossero Kubrick. 
Nel corso della narrazione, che procede in ordine cronologico, dall'infanzia nel Bronx (Allen, vero nome Allan Steward Konigberg, è del 1935), passando da successi a fallimenti, l'autore mette sorprendentemente in fila i suoi interessi, il jazz, il baseball, il basket, la letteratura e il cinema, spesso in un ordine che non rispecchia quello che, superficialmente, avremmo immaginato. Così come può sorprendere, a chi non abbia mai approfondito la storia di Allen, scoprire la sua passione per le sfumature più drammatiche degli ambiti letterari e cinematografici, rivelati attraverso manifestazioni di amore assoluto nei confronti di Tennessee Williams, Ingmar Bergman o Vittorio De Sica. Allen parla del suo cinema con disinvoltura, come fosse un lavoro come un altro e sempre trattando con enorme rispetto, riconoscenza e affetto i colleghi (attori, tecnici, sceneggiatori e produttori) con i quali ha lavorato in carriera. Sembra di vederlo poi, in uno dei suoi classici monologhi, quando racconta avventure e disavventure amorose, rapporti con la parentela ebrea, vari aspetti della propria vita privata, il tutto senza mai sbagliare la freddura, la battuta spesso auto-inferta, la citazione, l'ardita metafora. 

Ovviamente Allen non si sottrae quando si arriva al capitolo delle accuse per molestie che Mia Farrow (per la quale ha sempre e solo parole al miele come attrice) gli ha pubblicamente rivolto, anzi, sicuramente coglie l'occasione per mettere in fila gli eventi che hanno portato a quella vicenda, premettendo di volersi astenere da giudizi personali e riportando solo l'oggettività dei fatti. 
Non sono un fanboy di Woody Allen, alla mia età si può dire non lo sia più di nessuno. Non esiste cioè una persona pubblica dell'ambito dello spettacolo, dell'arte o dello sport per la quale mi darei fuoco nella pubblica piazza per solidarietà, in caso di accuse infamanti come quelle rivolte al regista newyorkese, ma sta di fatto che il caso di Woody Allen è abissalmente diverso da quello di altre personalità hollywoodiane coinvolte in scandali sessuali negli ultimi anni. 
Non voglio togliervi il piacere (e l'indignazione) della lettura, ma, questo caso, davvero ha il sapore acre della peggiore delle calunnie si possa riservare ad un essere umano. Mi limiterò a riportare che nonostante Allen sia stato scagionato da qualunque accusa, data l'incredibile insussistenza dei fatti (e nonostante non sia emersa nessun'altra accusa da parte di altre donne, a differenza dei vasi di Pandora scoperchiati dopo la prima denuncia subita da altre star), ad oggi continua a subire l'ostracismo del new Hollywood order che lo tiene ben saldo in cima alle sue liste di proscrizione. 
Anche il rapporto con Soon Yi, casus belli dell'azione della Farrow, che all'epoca della sua emersione mi indignò (pensavo si trattasse della figlia minorenne adottiva di Allen) è richiamato senza censure: Soon Yi era figlia adottiva della sola Farrow e all'epoca dell'inizio della relazione con l'attore-regista era maggiorenne. A dimostrazione della solidità della relazione, la coppia è ancora assieme, quasi vent'anni dopo, e la famiglia ha adottato due bambini.

A differenza di quanti pensano che il  #MeToo sia costituito da un gruppo di esagitate accecate dal desiderio di vendetta, la mia formazione culturale e politica me lo fa ritenere un movimento importante e necessario a riequilibrare la bilancia di tanti anni di ingiustizie, sopraffazioni e soprusi subiti in particolar modo dalle attrici, ma, proprio per la credibilità del movimento, di fronte ad una serie oggettiva di fatti e sentenze che smentiscono la teoria messa in piedi dalla Farrow (che dal libro ne esce umanamente male), il movimento dovrebbe mettersi a difesa della vittima della macchinazione, anche se è un uomo, liberandolo da questa lettera scarlatta, questo ingiusto marchio di infamia che a tutto oggi gli impedisce, di fatto, di girare film, di arruolare attori (che si rifiutano di partecipare ai suoi progetti, magari confessandogli riservatamente di essere certi della sua innocenza ma di temere ritorsioni ed ostracismo del Sistema), di mantenere accordi professionali (Amazon gli ha revocato il contratto per un film e lo stesso ha fatto la casa editrice per il suo libro). 
Un trattamento ingiusto e disumanizzante al pari di quello subito da tante donne dell'industria cinematografica, con l'aggravante che a subirlo è uno dei più importanti cineasti americani di tutti i tempi, al tramonto della sua esistenza, e quindi con poco tempo per riabilitare il proprio nome.

Ma limitarsi a questo tema, benchè sia ovviamente centrale nella vita di Allen, sarebbe ingiusto e depisterebbe i potenziali lettori. A proposito di niente, per gran parte dei suoi contenuti, è soprattutto un imperdibile racconto di vita e di storia del cinema, visto da un'angolazione dissacrante, divertente e profondamente, autenticamente umile. Leggetelo oggi, non aspettate le riabilitazioni postume. Il tempo è galantuomo, ma, come direbbe Woody, a chi interessa essere il più virtuoso del camposanto?

lunedì 22 marzo 2021

Cody Jinks, Red Rocks live (2020)



Con la solennità di una volta, quando il disco dal vivo non era un traguardo banale alla portata di chiunque ma l'importante consuntivo di una carriera, posto sul percorso dell'artista come un punto esclamativo a chiosa di quanto realizzato in precedenza, Cody Jinks, dopo una quindicina d'anni di carriera discografica e nove album, rilascia (in tempi di pandemia e stop ai concerti) il suo primo live album: Red Rocks live.

Partiamo dalla location, che per noi giovani degli anni ottanta è un pò come il Fillmore East per i rocchettari dei settanta. Una location cioè obbligatoria per le star musicali di quel decennio, per le quali la tappa in questa suggestiva arena del Colorado rappresentava una sorta di consacrazione (epocale in questo senso l'EP dal vivo degli U2 Under a blood red sky del 1983 registrato un attimo prima dell'esplosione mondiale che arriverà con The unforgettable fire).

Cody, fatte le debite differenze stilistiche, è, assieme a Sturgill Simpson e Chris Stapleton, il mio countryman preferito tra i mainstream, quelli cioè che riescono cioè a conciliare musica di qualità e successo commerciale (i vari Matt Woods, Bob Wayne e, ovviamente, Hank 3, sporchi e perenni outsiders, giocano in un altro campo da gioco). A differenza degli altri due però, egli è un personaggio che ancora fatica a trovare consensi fuori dagli States. E allora auguriamogli che questo disco possa fare, in questo senso, da apripista.

Red Rocks live è un doppio CD da ventitre canzoni, dal quale è realizzato anche un DVD con la medesima tracklist, ed è un imperdibile excursus che attraversa un'intera carriera discografica, mettendo in mostra un repertorio già invidiabile, con un focus particolare sugli ultimi cinque album. 
Mr Jinks non è uno di molte parole, l'album scorre sostanzialmente senza interlocuzione con il pubblico, alla maniera dylaniana, con le uniche eccezioni rappresentate da qualche botta e risposta nei pochi singalong con l'audience (letteralmente impressionante quello su Must be the whiskey, che potete vedere qui).
E così, nei cento minuti del disco assistiamo ad un'autentico atto di forza della band di Cody, che fa sfoggio del proprio eclettismo sudista, passando con l'eleganza delle tastiere e della slide guitar e con la perfetta, potente geometria di basso e batteria, dal country rock al southern, alle ballate intimiste al rock and roll a qualche honky tonk. La chiusura, nella suggestione dei tagli di luce rossa che rimbalzano dalle montagne circostanti, non può che essere per un'accorata versione di Colorado.

Per chi scrive Red Rocks live è il sugello di una cavalcata musicale sempre più convincente, viceversa, per chi non conosce Cody Jinks, può sicuramente rappresentare un succulento punto di partenza  per la scoperta di un artista imperdibile.

giovedì 18 marzo 2021

Bastardi a mano armata (2021)

Sergio è un criminale italiano in carcere in Algeria. Un giorno riceve la visita di un avvocato, che afferma di agire per conto di un potente uomo d'affari in grado di fargli concedere una sorta di grazia. In cambio, il detenuto, una volta libero, dovrà restituire il favore recuperando qualcosa di valore all'interno di una villa nella periferia laziale. Ovviamente il piano del misterioso business man è tutt'altro, cioè regolare i conti con una dolorosa vicenda del passato.

Gli italiani tornano a fare cinema di genere, e questo, di per sè, è un fatto esclusivamente positivo da incoraggiare e sostenere senza esitazione. Purtroppo però l'entusiasmo non basta a fare di Bastardi a mano armata un buon film, visto che, nella rappresentazione messa in scena dal regista Gabriele Albanesi (ex critico ed autore, a fine anni duemila, di un paio di lungometraggi gore molto apprezzati) poco o nulla funziona. Non funzionano gli attori, partendo da un Fortunato Cerlino eccessivamente caricaturale e agghindato da cosplayer, per passare alla recitazione che dovrebbe essere drammatica e trasmettere angoscia, ma che lascia indifferenti, dei tre attori del nucleo familiare (Càndido/Mazzotta/Campana). Il meno peggio è senza dubbio il protagonista Marco Bocci, che davvero avrebbe la levatura di solido attore action (o di genere) italiano, ma che qui soccombe assieme ad un progetto che non riesce mai a far alzare la tensione e che anzi, in alcune sequenze, sfiora la comicità involontaria, così come fa registrare l'assenza ingiustificata della violenza ignorante che caratterizza gli stilemi di riferimento, appena abbozzata. Cosa si salva? Fanno piacere i riferimenti al maestro Di Leo, che vanno dall'incipit della storia, debitore a Vacanze per un massacro, allo "sfogo" finale di Cerlino, che rimanda a Milano Calibro 9,  così come è ben assestato il colpo di scena relativo al bottino nascosto. Un pò poco, direi, considerando anche l'utilizzo di una canzone, Rebel yell di Billy Idol, mal sfruttata e buttata lì un pò a cazzo sull'ultima sequenza. Stupisce come un regista che aveva lasciato intravedere del talento possa essere entrato così poco in sintonia con un'opera potenzialmente nelle sue corde. 
Non molliamo.

Bastardi a mano armata è disponibile su Amazon Prime Video

lunedì 15 marzo 2021

It's never too late to mend: Radiohead, Kid A (2000)



Ho approcciato la prima volta "l'internèt" ad inizio nuovo millennio, indicativamente nel 2002. Per capirci quando ci si accedeva con il modem 56k che faceva quell'inconfondibile suono all'atto del collegamento, quasi il segnale giungesse da una lontana galassia o da uno di quei film di fantascienza che contribuivano ad alimentare la nostra fantasia da bambini. Ecco, in quel periodo gli utenti dei forum musicali più aperti alle novità ed attenti alle mutazioni della musica rock (a differenza di me) si erano buttati senza rete sul fenomeno Radiohead. Tralasciando la produzione della band nei novanta, culminata con un disco di parziale rottura come OK Computer, i primi anni duemila vedranno gli inglesi imporsi definitivamente con tre titoli quali Kid A, Amnesiac e Hail to the thief in soli quattro anni. Io cercavo di stare al passo, e nonostante il dilagare del p2p, compravo ancora i dischi a scatola chiusa (così feci anche con Kid A, come potete vedere dall'immagine del post che cattura il generoso lavoro di artwork del CD) visto che la curiosità non mi è mai mancata. Tuttavia i Radiohead "me rimbarzaveno" proprio, pertanto presto vi rinunciai per tornare alle mie comfort zone musicali.

Stacco. Qualche mese fa ho messo ordine in una delle mie colossali playlist alloggiate nella chiavetta usb della macchina e, giunto a quella che copre il meglio del ventennio 2000/2020 (una robetta da duecento canzoni), sono inciampato in Everything in its right place
Beh, non so se capita anche ad altri di ascoltare svariate volte qualcosa senza avere particolari feedback, per poi, all'improvviso, avvertire un legame ed una tale voglia di "dipendenza" da quelle note da non poterne più fare a meno. Ecco, Everything in its right place ha rappresentato per me proprio questa sensazione: la scintilla, la chiave per entrare in quel lavoro cerebrale, emotivo, complesso, bellissimo, che risponde al titolo di Kid A.
Ora, sono consapevole che entusiasmarsi oggi per un disco di vent'anni fa, universalmente considerato un capolavoro della musica moderna, non depone a favore della mia credibilità (ma per questo vale sempre l'auto descrizione in alto a destra sotto il mio nickname), ma vi ricordo che il titolo di questa rubrica è pur sempre "non è mai troppo tardi per redimersi", e quindi.

Devo comunque confessare, in buona sostanza (cit.), come l'epifania nei confronti di questo disco mi abbia colpito violenta ed improvvisa non per il bellissimo salmo posto in apertura (Everything in its right place, appunto) che ancora conserva un'architettura "canonica" di canzone pop colto, ne per il post rock di Optimistic o la struggente depressive ballad How to disappear completely
Kid A mi è esploso in testa per quel capolavoro che risponde al titolo di The national anthem, pezzo baciato da quelle botte di ispirazione irripetibili, che travolgono, come l'onda perfetta fa con il surfista, prima l'artista e poi l'ascoltatore. The national anthem inizia con un giro di basso semplice ma ipnotico, sul quale si innesta una melodia cosmico-psichedelica propiziatoria dell'esplosione, improvvisa e dissonante, di fiati free jazz. Un pezzo epocale e totalmente inaspettato, soprattutto se si pensa alle produzioni precedenti della band.
Ovvio, il disco non è solo questo. Gli esperimenti ambient, elettronici, post-tutto (rock, punk, pop) sono la cifra stilistica dell'opera che cartucce da sparare ne ha in ogni traccia (che vogliamo dire dell'inarrivabile multistrato sonoro di Idioteque?), ma che ricava la sua forza dall'incredibile ed irrepetibile equilibrio raggiunto dall'unione di brani diversi che riescono ad armonizzarsi fra loro.

Un disco che, per la totale libertà espressiva con la quale è stato concepito, sembra arrivare direttamente dagli anni settanta, ma che al tempo stesso possiede un mood avanguardistico che lancia il guanto di sfida agli anni zero (allora) appena nati.

giovedì 11 marzo 2021

The General (1998)


Martin Cahill, detto the General, è il criminale ricercato numero uno in Irlanda nel periodo a cavallo tra gli ottanta e i primi novanta. Egli, assieme alla sua gang, è principalmente dedito ai furti, che realizza anche in grande stile grazie ad una mente brillante che gli permette di congegnare piani complessi ed efficaci. Tuttavia Martin, quando necessario, non disdegna anche atti di violenza, come mettere una bomba nell'auto di un esperto forense che potrebbe rappresentare una minaccia nell'ambito di un processo a suo carico, o inchiodare senza pietà ad un tavolo da biliardo le mani di un compare, per testarne la lealtà. Sono però due i suoi comportamenti seriali che determineranno la sua fine: il costante atteggiamento di dileggio nei confronti della Garda (la polizia irlandese) e il rifiuto di scendere a patti con l'IRA, i cui uomini, in quel periodo, permeavano Dublino.

Non conoscevo l'esistenza di questo film di John Boorman (Un tranquillo weekend di paura), scovato grazie ad Amazon Prime Video (nella sua offerta di film di catalogo la piattaforma di Jeff Bezos mi sembra la migliore in circolazione) e goduto dalla prima all'ultima sequenza. Non conoscevo altresì la storia di Cahill, personaggio folkloristico ed incredibile per molti aspetti (nella ultracattolica Irlanda conviveva con due sorelle, da entrambe le quali ebbe dei figli), che aveva l'abitudine compulsiva di nascondere il proprio viso e che, per aver sfidato e provocato più volte e platealmente la Polizia è stato oggetto di un inedito ed abnorme dispiego di agenti (circa ottanta) che lo osservavano,  costantemente appostati attorno alla sua casa  e lo pedinavano standogli appiccicati sia che si muovesse a piedi o in auto, tutti i giorni, ventiquattro ore al giorno per mesi, in disprezzo ad ogni forma di diritto civile di un sospettato, a loro volta schernendolo ed insultandolo in continuazione allo scopo di provocare una reazione utile ad incriminarlo, ed arrivando in questo persino ad introdurre nel suo allevamento di piccioni viaggiatori dei furetti, per ucciderli. 

Il film, girato magistralmente da Boorman (premio per la migliore regia a Cannes 1998) in un bianco e nero pastoso, quasi sgranato, ci offre una fotografia memorabile della Dublino di quegli anni, con l'IRA a governare nell'ombra la città e la Garda, spesso, come nel caso della lotta alla droga o del contrasto alla piccola criminalità, a lasciarla fare. Il protagonista principale, il notissimo caratterista irlandese Brendan Gleeson, ci regala un'interpretazione memorabile, indimenticabile, calandosi come una seconda pelle nelle vesti di un Cahill geniale, irriverente, spregiudicato, ma anche paranoico e spietato. Tutto il cast è nel complesso eccezionale, se proprio vogliamo, paradossalmente, il ruolo meno riuscito, forse perchè sottoutilizzato nonostante le enormi potenzialità di Jon Voight, è quello dell'ispettore di Polizia Ned Kelly. 

Una true crime story perfettamente incasellata in un periodo storico di drammatica transizione per la Repubblica Popolare d'Irlanda. Un film da recuperare ad ogni costo per gli amanti del genere.

The general è disponibile su Amazon Prime Video

lunedì 8 marzo 2021

Chris Stapleton, Starting over (2020)

 


La parabola artistica di Chris Stapleton è ormai storia, sugellata com'è stata dal successo di Traveller (2015), lo straordinario debutto a 37 anni di questo artista del Kentucky arrivato dopo una vita di "back office" a scrivere canzoni per altri. 

La fortuna nello show biz segue modalità misteriose. Abbiamo dovuto aspettare molto perchè Stapleton ci si rivelasse ma oggi siamo al cospetto, probabilmente, del miglior artista di americana della sua generazione. Questo Starting over ce lo dimostra in maniera inequivocabile, laddove ce ne fosse stato ulteriormente bisogno. Le quattordici tracce che compongono il lavoro sono tutte (eccetto Worry be gone, cover di Guy Clark e Joy of my life di John Fogerty) composte da Chris, da solo, o coadiuvato da altre penne (tra le quali spiccano Mike Campbell, chitarra degli Heartbreakers, "Big" Al Anderson, frontman degli storici NRBQ e... Morgane Stapleton, sua moglie e produttrice). 

Il viaggio nel sud degli States comincia con la title track, un country folk intenso e coinvolgente puntellato, come buona parte dei brani della tracklist,  dalle prestigiose tastiere di Benmont Tench degli Heartbreakers, che è solo la prima tappa di un percorso che toccherà tutti gli stili e gli umori di questa parte del mondo. E' infatti uno straordinario tributo allo swamp rock dei padri Creedence Clearwater Revival quello che ascoltiamo con la ispiratissima Devil always made me think twice, mentre è un rock and roll alla maniera texana quello che si sprigiona tra le note di Arkansas. Non possono mancare, e non mancano, le canzoni più intimiste, sull'amore, (con il valzer When I'm with you e con Maggie's song si aggira felice il fantasma di The Band), sull'abbandono e, naturalmente, sulla scimmia dell'alcool (Whiskey sunrise).

Insomma, nè più nè meno, un disco di sontuosa americana. Un'altra volta.

giovedì 4 marzo 2021

Blinded by the light (2019)


Javed (Viveik Kalra) è un immigrato pakistano di seconda generazione che vive con la sua famiglia a Luton, città industriale dell'Inghilterra orientale. La sua è una vita grigia, come la periferia che lo ospita, e difficile, a causa della manifesta ostilità dei locali razzisiti, skinheads e non, e della scarsa comunicazione con il padre, legato alle tradizioni della terra d'origine. Jared adora scrivere e se ne va in giro costantemente con le cuffie del walkman sulle orecchie, orientandosi, siamo nel 1987, al pop commerciale di quel periodo (Pet Shop Boys, Level 42, A-Ha, Human League, etc.) fino a quando, nei corridoi del suo liceo, si imbatte in un altro ragazzo pakistano che gli passa due album in cassetta di Bruce Springsteen (trattasi di Born in the USA e Darkness on the edge of town), artista considerato ormai "vecchio" dalla maggior parte dei coetenei. Javed non lo sa, ma la sua esistenza è ad una svolta.

Ispirato dalla vita del giornalista-documentarista Sarfraz Manzoor, Blinded by the light (regia di Gurinder Chadha, quella di Sognando Beckam) racconta una storia di formazione che, senza essere un capolavoro (nei voti della mia rubrica bimestrale mi sono limitato alla sufficienza piena) ben esprime il peso che un certo tipo di musica, al pari della letteratura e del cinema, aveva nel processo evolutivo di molti adolescenti di, ahimè, diverse generazioni fa. Peso che aumentava in misura proporzionale al disagio sociale in cui si versava, alle discriminazioni e alle umiliazioni subite, alle incomprensioni familiari. Il film mette in scena, mi verrebbe da dire nel solco della tradizione delle pellicole britanniche sugli anni ottanta, una fotografia abbastanza fedele del periodo, sebbene virata su colori tenui. Pur essendo lontani da Loach o da opere come This is England  non mancano i riferimenti alle catastrofiche conseguenze delle politiche del lavoro della Thatcher, della distruzione di più generazioni di lavoratori, delle umiliazioni subite da padri che non riuscivano più a provvedere alla propria famiglia. E cosa c'è di più springstiniano di questo?

Il film oscilla principalmente tra commedia e dramma, con qualche inserto onirico che apre al musical e una buona dose di ironia (una su tutte: Javed scrive testi per un la band "romantic-synth-pop" del suo migliore amico e, quando gli recita un passaggio di una canzone di Springsteen, si sente replicare: è roba tua? Fa schifo, non c'è nemmeno la rima) 

Detto della valutazione oggettiva passiamo ora a quella emotivo-sentimentale. E qui devo confessare che il film mi ha smosso molto, in relazione al processo di pressochè assoluta identificazione con il protagonista, con il quale condivido generazione (nel 1987 ero in quarta superiore), traiettoria emotiva e scoperta salvifica dei testi, forse prima ancora della musica, di Bruce Springsteen. Ne consegue che, vedere in una pellicola, imperfetta e favolistica quanto volete, una versione alternativa di te stesso, accompagnata dalla stessa identica musica, quella brit-pop prima, e del Boss poi, che ascoltavi tu, tentando di affrontare i conflitti della crescita, beh, nel mio caso porta ad un risultato banalmente scontato: fiumi di lacrime (niente di straordinario, visto che mi commuovo anche guardando Masterchef). 

Infine, ma non per ultimo, Blinded by the light è in assoluto il film nel quale si ascolta il maggior numero di canzoni di Springsteen (credo anche più dello splendido serial Show me a hero). Dopo l'accordo saltato all'ultima curva per utilizzare i classici di Bruce per Dietro la maschera (1985) di Bogdanovich (altro livello), qui assistiamo alla beatificazione di un artista e al ruolo salvifico che la sua arte ha rappresentato per tanti ragazzi, travalicando razze, culture e latitudini, in nome dell'universalità del linguaggio del rock and roll.

lunedì 1 marzo 2021

MFT, gennaio e febbraio 2021

 ASCOLTI

Bruce Springsteen, Letter to you
Steve Earle, J.T.
Chris Stapleton, Starting over
Garth Brooks, FUN
Poppy, I disagree
Fontaines D.C., A hero's death
Ryan Adams, Wednensdays
Hatebreed, Weight of the false self
Steve Earle, J.T.
Gang, Ritorno al fuoco
Inoki, Medio Ego
The Dead Daisies, Holy ground
Willie Nelson, To all the girls...
The Hold Steady, Open door policy
Alice Cooper, Detroit stories
The Pretty Reckless, Death by rock and roll
Ella Fitzgerald, Ella sings Cole Porter
Black Mountain, In the future
Kenny Wayne Shepherd, Straigh to you
Bob Dylan, Rough and rowdy ways

VISIONI

1917 (3,5/5)
Mademoiselle (3,75/5)
Sonic (2,75/5)
Judy (3,5/5)
Il processo ai Chicago 7 (3,5/5)
Sound of metal (3,5/5)
Il meglio deve ancora venire (2,75/5)
Motherless Brooklyn (2,75/5)
Gantz - L'inizio (3,5/5)
Locke (4/5)
Kill list (3,5/5)
The hurt locker (4/5)
High life (4/5)
Jackie (3/5)
Annientamento (3,5/5)
The room - La stanza del desiderio (3/5)
Alice e il sindaco (3,5/5)
La belle èpoque (3,5/5)
Il lago delle oche selvatiche (3,75/5)
Favolacce (3/5)
On the job (3,75/5)
City of lies (2,75/5)
L'inganno perfetto (3,5/5)
Che fine ha fatto Bernadette? (3/5)
The invention of lying (2/5)
Amore e guerra ( 3,75/5)
L'isola delle rose (3,5/5)
A land imagined (3,75/5)
Merantau (3,25/5)
Il colpevole (3,5/5)
The VVitch (4,25/5)
Hereditary (4/5)
Le strade del male (3/5)
Legend  (2015) (3,5/5)
Il grande passo (3/5)
Sto pensando di finirla qui (3/5)
Il bacio della pantera (1942) (4/5)
Vendicami (3,75/5)
Bad boys for life (2/5)
Animal Kingdom (3,75/5)
Vahalla rising (4/5)
Blinded by the light (3,25/5)
The hunt (2020) (3,5/5)
Nick mano fredda (4,5/5)
Richard Jewell (3,75/5)
Seberg - Nel mirino (3,75/5)
Hands of stone - Mani di pietra (3,5/5)
I care a lot (2/5)

Visioni seriali

Stranger things, 1 (3,75/5)
Better Call Saul 2 (3,5/5); 3 (3,25/5)

LETTURE

Woody Allen, A proposito di niente
Richard Matheson, Io sono leggenda