lunedì 17 giugno 2019

Steve Earle, Guy

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L'ho citato nell'ultima recensione di Josh Ritter, e allora eccoci qui a scrivere di Steve Earle, che per dieci album, dal 2000 (Trascendental blues) fino ad oggi, non ha sostanzialmente mai abbandonato la regola di un disco nuovo un anno sì e uno no.
Questo però è sicuramente un disco speciale, visto che il buon Steve chiude il cerchio delle sue ingombranti influenze giovanili.
Se nel 2009 aveva omaggiato il "cattivo maestro" (per i comportamenti autodistruttivi) Townes Van Zandt (comunque tributato già nel 1982 con una cosetta tipo dare al figlio - anch'egli oggi affermato artista -  il suo nome) con Townes, un disco di cover che fece conoscere alla massa l'enorme talento di Van Zandt, oggi è la volta del secondo pilastro delle fondamenta sulle quali Earle ha edificato la sua carriera e plasmato il suo indiscusso talento.

Tocca infatti a Guy Clark, che ci ha lasciato tre anni fa e che tutti ricordano per quella doppietta clamorosa di più di quarant'anni fa (Old no. 1 e Texas cookin') con la quale si era affacciato al music business.
Ci fosse qualcuno che non avesse mai ascoltato Clark e si approcciasse all'ascolto di questo album avrebbe tutti i legittimi motivi per pensare ad un opera originale di Earle, tanto, in un totale cortocircuito tra insegnante e allievo, liriche e stile sono aderenti alla consolidata cifra stilistica dell'autore di Guitar Town.
La poetica malinconica di Guy, le sue polaroid  di luoghi e persone ai margini delle storie normalmente raccontate sono le stesse che Steve (e Townes) ha sempre interpretato, perciò non c'è niente di strano se composizioni come L.A. Freeway; Desperados waiting for the train; Rita Ballou; The Randall knife; The last gunfighter ballad; She ain't going nowhere o Out in the parking lot risultino così familiari al primo ascolto, al fan medio di Earle.

Il sessantaquattrenne artista della Virginia mette in fila sedici brani del maestro Clark, dividendoli quasi equamente tra quelli estratti dai due seminali lavori di debutto e il resto della produzione, andando a pescare anche composizioni meno note, per un risultato niente di meno che imperdibile, per tutti quelli che sostengono di amare la musica d'autore a cavallo tra country e folk.

lunedì 10 giugno 2019

Josh Ritter, Fever breaks

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Quello che per le mie nozioni era un debuttante, ha in realtà oltre vent'anni di marciapiede nel music business, dieci album già pubblicati, una manciata di EP e live.
Viene da chiedersi come mai i miei radar non abbiano mai intercettato Josh Ritter, ma tant'è.
Fever breaks è dunque il decimo album del quarantenne nato a Mosca (Idaho, non Russia), ed è uno sferzante esempio di come si possa stare dentro perimetri stilistici definiti - folk,country,americana - senza privarsi della libertà di rimbalzare da un canone all'altro.
Per farlo ovviamente serve una capacità interpretativa, tecnica, empatica e di scrittura che non si compra all'eurospin, ma che ti viene concessa in dote e che tu devi avere la decenza di non sprecare.

E' anche così che si realizza un lavoro come Fever breaks. E' così che si butta lì un grandioso e strafottente contry rock qual'è Ground don't want me, in bilico tra una melodia irresitibile, un testo che sarebbe piaciuto all'Uomo in Nero e un mood per il quale Springsteen farebbe carte false.
E' così che, dopo aver afferrato per le palle l'ascoltatore, lo si porta dove si vuole, disturbando il prematuro riposo di Tom Petty (Old black magic), dando lezione ai nuovi idoli country capeggiati da Stapleton (I stilll love you), così come navigando in sicurezza verso gli approdi dei Waterboys (The torch committee), riuscendo tuttavia sempre ad essere leggero come nuvole bianche nel cielo estivo (All some kind of dream) e venendo fuori con classe da un semi plagio di Steve Earle (quanto Blazing highway home richiama Goodbye?).

Insomma, in un anno saturo di uscite di artisti della "mia scuderia"(Austin Lucas, Steve Earle, Little Steven, Hayes Carll, Son Volt) , Josh Ritter ha messo la freccia pretendendo priorità di ascolto. 
Con un album così, non ho potuto fare a meno di concedergliela.


giovedì 6 giugno 2019

Passione cofanetti/1

Nell'era d'oro del mercato discografico le major pubblicavano questi cofanetti lussuosissimi, a prezzi (almeno per me) insostenibili, che normalmente i negozi di dischi esponevano in una teca chiusa, per cui si potevano solo ammirare ma, a differenza degli altri dischi, non toccare, ad aumentare ulteriormente la sensazione di inavvicinabilità del prodotto.
Oggi, nel camposanto dei supporti fisici, si continuano a realizzare queste produzioni monografiche (per genere o per artista), con confezioni meno sfarzose, ma comunque dignitose, e soprattutto a prezzi davvero accattivanti.
In questo spazio posterò qualche cofanetto acquistato nel corso degli ultimi tempi, dal rapporto qualità prezzo particolarmente competitivo.

Inizio subito con un'opera che rientra un pò a forza nel "concetto cofanetto" (essendo, in versione compact disc,"solo" un doppio), ma che per filosofia dell'operazione, finalità del progetto e artisti che ne hanno curato l'uscita, merita i riflettori.

Mi riferisco al bellissimo e curatissimo Confessin' the blues, antologia blues curata e compilata dai Rolling Stones, che, tra mammasantissima del genere, ma non solo, contiene quarantadue tra le più seminali tracce della storia, interpretate, nelle versioni originali, con un suono incredibile, da Muddy Waters, Howlin Wolf, Chuck Berry, John Lee Hooker, Little Walter, Elmore James e una vagonata di altri artisti la cui vita è indissolubilmente legata alla musica che suonavano.
Libretto ricchissimo di foto e annotazioni e, elemento di ulteriore valore, il 10% del ricavato dalla vendita viene devoluto alla Blues Heaven Foundation, di Willie Dixon.

Si trova sui normali siti di e-commerce a una quindicina di euro.


lunedì 3 giugno 2019

The devil's candy (2015)

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Il genere horror e l'heavy metal sono sempre stati collegati da un legame strettissimo. Vuoi per l'ampio utilizzo di tematiche gore da parte di una molteplicità di band estreme, per la passione che molti metalhead dividono equamente tra lo stile musicale pesante e le pellicole sanguinolente, o semplicemente perchè entrambe queste forme d'arte sono sempre state considerate, dall'elite dei critici, espressioni minori dei reciproci perimetri comunicativi (salvo poi ricredersi fuori tempo massimo).
Tuttavia il matrimonio tra metal e horror raramente si è consumato appieno. Certo, molti registi di genere hanno utilizzato l'HM come colonna sonora di squartamenti e mostruosità assortite, ma, se escludiamo il cult minore Morte a 33 giri, la combinazione dei due elementi ha raramente prodotto un autentico unicum.
Anche per questo probabilmente The devil's candy ha raggiunto in fretta lo status di cult tra gli appassionati di rock estremo.
Chiariamoci, The devil's candy non è un film sul metal, in questo senso l'esempio di Morte a 33 giri può essere fuorviante, ma la musica forgiata quasi cinquant'anni fa dai Black Sabbath ne è tuttavia il fulcro, con i suoi simboli e simbolismi, i suoi dogmi, le sue distorsioni.
Lo spunto narrativo della storia segue uno dei clichè più abusati dei film di genere: la famiglia che va ad abitare la casa maledetta, dovendo per questo affrontare terribili sfide, che metteranno in discussione la solidità della famiglia stessa.

Gli Hellman (nomen omen), papà Jesse (Ethan Embry), di professione pittore, la moglie Astrid (Shiri Appleby), che si intuisce essere quella che porta avanti la baracca, tra gli alti e bassi economici del marito, assieme alla figlia adolescente Zoey (Kiara Glasco), si indebitano fino all'ultimo cent per acquistare una grande casa isolata, informati dal loro agente immobiliare di alcune morti che lì sono avvenute (e che noi abbiamo visto nel prologo del film).
Padre e figlia sono  fanatici di heavy-metal e questa passione, nelle parti leggere, regala perle di saggezza (una su tutte: mentre i due fanno headbangin in auto sulle note sparate a tutto volume di Killing inside dei Cavalera Conspiracy, alla madre, rassegnata al frastuono, che chiede se possono mettere qualcosa di più morbido, Zoey risponde "tipo i Metallica?").
Con il passare del tempo Jesse viene colto da un'oscura ispirazione che gli fa trasformare i suoi innocui dipinti in oscuri e terrificanti lavori, tra i quali una spaventosa rappresentazione di bambini e della figlia Zoey, avvolta dalle fiamme. 
Il villain del film è Ray Smile (il navigato caratterista Pruitt Taylor Vince), un'improbabile omone sovrappeso in tuta rosso fuoco che, per sovrastare le voci che gli chiedono di compiere atti agghiaccianti, è costretto ad imbracciare una chitarra Flying V e lasciare reverberare un MI scordato con gli ampli a palla.

La trama, tutto sommata di prassi, è però ben bilanciata dall'ottima regia di Sean Byrne, che padroneggia la scena con mano sicura e che, grazie ad uno strepitoso montaggio alternato (si veda la sequenza in cui Ray colpisce il bambino sull'altalena, con il dinamismo che sfocia nelle pennellate che un Jesse quasi trasfigurato imprime sulla tela), trasforma un plot scontato in una degnissima opera originale.
Ultima ma non ultima, la colonna sonora, curata, e mi viene da dire non potrebbe essere altrimenti, visto il costante suono drone metal che aleggia cupo, dai Sunn O))), coadiuvati da altri artisti metal (Slayer, Machine Head) e non (PJ Harvey e Spiderbait). 
Da segnalare il ruolo centrale, in uno dei twist della storia, del poster dei Ghost nella stanza di Zoey. 
Assolutamente rock, infine, la modalità con la quale Jesse si libera (definitivamente?) di Ray.
Se ancora ce ne fosse bisogno, la prova del nove del legame tra film e metal arriva dopo l'ultima sequenza, quando parte, perfettamente integrato con il  montaggio, For whom the bells toll dei Metallica e vi ritroverete a saltare sul divano facendo headbangin come se fossero passati cinque minuti e non venticinque anni dall'uscita di Ride the lightning.

Se questo pistolotto che ho scritto ha un qualche senso per te che lo leggi, non puoi perdere The devil's candy.

A seguire (non so quando) un altro tributo cinematografico al metal estremo: Deathgasm.


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