lunedì 28 febbraio 2022

Smith/Kotzen, ST (2021)

Due asce. Una, Adrian Smith, ha fatto la storia della musica heavy metal, visto che è negli Iron Maiden quasi dall'inizio (Killers, secondo album del 1981). L'altro, Richie Kotzen, pur essendo un nome noto, e nonostante l'ottimo approccio stilistico blues oriented , mai è riuscito ad imporsi al livello del primo, forse per il suo status di "freelance" (dopo una prima cacciata dai Poison, ha alternato progetti solisti alla militanza in altre band, su tutte i Mr Big dei primi duemila e The Winery Dogs). Non mi è chiaro come i due abbiano deciso di collaborare, la certezza è però che, per una volta, due sono i nomi che campeggiano sul disco e, sostanzialmente, due sono i musicisti coinvolti nelle registrazioni di tutti gli strumenti. Infatti, al netto di qualche eccezione (l'altro Maiden Nico McBrain alla batteria su Solar fire e tale Tal Bergman, sempre dietro le pelli, sulle ultime tre tracce), Smith e Kotzen si dividono voce, chitarre, basso e drums in tutti i nove brani di cui si compone il disco. 

Restava da capire chi dei due artisti avesse condizionato maggiomente l'altro. Beh, non vi è dubbio alcuno che questo self titled di debutto sia totalmente schierato dalla parte di un hard rock di matrice settantiana, con una forte matrice blues e marcate aperture melodiche: in sostanza la tazza di tè di Richie Kotzen. In ogni caso Smith si cala con entusiasmo in questo mood, mettendo a disposizione il suo indiscusso talento chitarristico e facendosi apprezzare anche come cantante. Tracciate le coordinate stilistiche, e quindi avendo un'idea di cosa ci riserva l'ascolto, si parte e si rimane subito conquistati prima dalle grandi melodie dei due pezzi d'apertura Taking my chances e Running, talmente belli che sembra di conoscerli da sempre, e poi, via via che ci si inoltra nell'ascolto, dai sontuosi duelli chitarristici (Scars, Glory road, You don't know me). I riferimenti sono facili: la mach III dei Deep Purple, Whitesnake, Bad Company, ma anche, verso la coda dell'album, e soprattutto in 'Til tomorrow, qualcosa dei Soundgarden più mainstream. 

Nulla da eccepire, proprio un gran bel disco.

giovedì 24 febbraio 2022

Tre piani (2021)


In un elegante palazzo di Roma si intrecciano le storie di tre gruppi familiari: il primo composto dagli anziani giudici Vittorio e Dora e dal figlio Andrea, colpevole di omicidio stradale, il secondo dalla neo-mamma Monica, spesso lasciata sola dal marito, e il terzo da Lucio e Sara, che temono che la propria figlia di sette anni sia stata abusata da un anziano vicino di casa al quale erano soliti affidarla.

Colgo la critica costruttiva che qualcuno ha sollevato, in merito al fatto che il blog parli esclusivamente bene dei film oggetto delle recensioni. Questo ovviamente succede perchè pubblicando poco (uno, massimo due scritti, ma a volte anche zero, a settimana) tendo a privilegiare quelle opere che mi hanno lasciato qualcosa, mentre nei voti dei consuntivi bimestrali le stroncature non mancano mai.
In ogni caso a sto giro faccio un'eccezione, perchè di Tre piani, l'ultimo film di Nanni Moretti, mi è piaciuto davvero poco, per non dire nulla. Il problema più grave, nonostante un soggetto, tratto dall'omonimo romanzo di Eshkol Nevo, con tutte le carte in regola per essere appassionante, è la regia, soprattutto in relazione alla direzione degli attori. Eppure il cast dava in questo senso delle garanzie (al netto di Scamarcio, che detesto, ma è una cosa mia), con la presenza della Buy, di Alba Rohrwacher, dello stesso Moretti, oltre che di Tommaso Ragno e altri noti caratteristi del nostro cinema. Purtroppo questa qualità è stata gestita in maniera approssimativa, con più di una sequenza letteralmente imbarazzante, cito su tutte il pestaggio di Vittorio/Moretti da parte del figlio e il pianto di Lucio/Scamarcio davanti alla finestra della scuola, sequenze che a mio avviso non sarebbero state giudicate buone nemmeno per Gli occhi del cuore. E ho detto tutto. In questo contesto anche chi si salva (Buy e Rohrwacher) appare spaesato, dentro il mare di prove dozzinali in cui si trova. 

Aggiungo che l'utilizzo di taluni temi emotivamente intensi quali i rapporti genitori figli, la vecchiaia e i rimpianti che sopraggiungono nell'ultima fase della vita sembra vengano messi in scena come spuntata arma di commozione di massa. Beh, mentre a Cannes il pubblico ha tributato a Tre piani una standing ovation di undici minuti, nel mio caso  la leva subdola della facile emotività non ha raggiunto l'obiettivo di superare la sospensione dell'incredulità e nascondere gli enormi difetti tecnici di un film che sembra quasi fatto controvoglia. 

In programmazione e on demand su Sky

lunedì 21 febbraio 2022

Agent Steel, No other godz before me (2021)


Premessa autobiografica. Com'è ormai universalmente riconosciuto, la prima metà degli anni ottanta è stata l'epoca più straordinaria e coinvolgente della musica metal. Certo, negli anni successivi è arrivata altra roba eccitante, la velocità di esecuzione dei pezzi si è quintuplicata, il metal è diventato mainstream eccetera eccetera. Però il primo lustro degli eighties ha rappresentato qualcosa di impareggiabile, una scossa (come ciclicamente capitano) della musica popolare, la nascita di un movimento, una cultura ancora oggi fortemente radicati. Il contraltare era che ascoltare (anche) l'heavy metal in quell'epoca, consultare le riviste specializzate che cominciavano a nascere, ed essere al contempo squattrinati era un vero tormento, laddove si leggeva di miriadi di band "grandiose" a cui, con la possibilità di comprare al massimo un disco al mese (non necessariamente di genere HM), e in assenza di "amici di metallo" in grado di rifornirci di cassette registrate, non era possibile avere accesso. 

Tra i combo cui avrei voluto dare una chance vanno annoverati gli Agent Steel, autori di due ottimi dischi speed/thrash tra l'85 e l'87 (Skeptics apocalypse e Unstoppable force), poi vittime di una lunga iato seguita da una prima reunion, senza il cantante originale (tre album, tra il 99 e il 2007), quindi ancora un inabissamento, e finalmente, grazie ad un contratto con la piccola ma effervescente etichetta inglese Dissonance Productions, l'ultimo comeback, stavolta per merito di  John Cyriis, il cantante brasiliano protagonista dei lavori ottantiani. E anche qui ce ne sarebbe da scrivere sul soggetto, un fanatico di fantascienza ed extraterrestri, al punto da avere, in passato, dichiarato di essere sopravvissuto ad un rapimento alieno.

Cyriis per l'occasione mette in piedi una formazione che sembra tanto l'incipit di una barzelletta, con un bassista giapponese (Shuchi Oni), una sezione di chitarre bulgaro (Nikolay Atanosov)/brasiliana (Vinicius Carvalho), e un batterista danese (Rasmus Kijaer). Il risultato di un così ardito patchwork? Una goduria! No other godz before  beneficia di una produzione semplice e di un suono vintage ed esaltante, sezione ritmica e chitarre da sturbo per tutti gli undici brani della tracklist (comprensivi di un intro e un outro) per una proposta speed/thrash che travalica i confini del tempo. E la voce? Beh la voce è profondamente divisiva. In un primo momento la fissa di Cyriis per il raggiungimento di ottave che tentano di arrivare là dove osano le aquile sfiora in qualche caso il comico involontario, poi con i successivi ascolti te ne fai una ragione, arrivando quasi a fartela piacere (quasi!). 
Il disco è il classico caso in cui il lavoro è un unicum da cui non è semplice estrapolare singoli pezzi, ma penso di non sbagliare se individuo in Crypts of galactic damnations, nella title track, in Sonata cosmica e Outer space connection gli episodi migliori.

Per vecchi e nuovi metallari.

giovedì 17 febbraio 2022

Pig (2021)

Rob vive da eremita in una baracca senza acqua ne elettricità nei boschi dell'Oregon. La sua unica compagnia è un maiale da fiuto che lo aiuta a cercare tartufi poi venduti ad un giovane imprenditore di città. Una notte qualcuno irrompe nella fatiscente casa di Rob, aggredendolo e rubandogli il suino. Rob decide di cercare i ladri e riprendersi il suo amico a quattro zampe.

Pig, ovvero: quanto le apparenze (e le sinossi) possono ingannare. Un uomo che cerca disperatamente il suo maiale? Eddai! 
L'esordiente regista Michael Sarnoski (anche autore di soggetto e sceneggiatura) invece stupisce alla grande, mettendo in scena una spietata critica alla società moderna, al capitalismo e  alla deriva maledetta della cucina stellata. Lo fa, dal punto di vista della storia, illudendo lo spettatore di trovarsi davanti ad un revenge movie, con tanto di violenti incontri clandestini nei sotterranei di palazzi abbandonati, salvo poi virare completamente con il proseguo della narrazione e fino alla sua conclusione malinconicamente poetica.
Sotto l'aspetto estetico Sarnoski la porta a casa grazie ad una fotografia che privilegia i colori freddi e saturi, sia che ci si trovi al buio dei boschi che all'aperto dello skyline cittadino, e non di meno in virtù di una prova attoriale di Nicholas Cage, espressa molto da sguardi e linguaggio non verbale e poco dalle parole, davvero maiuscola. Il lavoro sul personaggio di Rob da parte del nipote di F.F. Coppola è incredibilmente convincente e conferma la particolarità quasi unica di un talento che, per i troppi copioni "alimentari" che sceglie, si accende ad intermittenza.
Dentro un film che seduce e affascina, spicca la sequenza al ristorante stellato, in cui Rob parla al prestigioso chef, suo ex allievo, forzandolo a ricordare quali fossero i suoi sogni da ragazzo e quanto sia (inconsciamente) infelice a cucinare piatti pretenziosi da cento dollari a portata. Una scena che da sola ha una tale forza dirompente da mettere in crisi la narrazione, pompata in questi anni in maniera indecorosa, di una ristorazione complessa, artefatta e per pochi. Gli sta immediatamente dietro la modalità con la quale Rob vuole persuadere il potente uomo d'affari, responsabile del furto del maiale, a restituirglielo. Poesia pura.

Insomma, filmone.

In programmazione e on demand su Sky

lunedì 14 febbraio 2022

Mike and the Moonpies, One to grow on (2021)


Arrivati al giro di boa dei dieci anni di produzione discografica (sei album di inediti, un live e un album tributo a Gary Stewart), Mike and the Moonpies hanno raggiunto ormai una confidenza stilistica tale da permettersi di spaziare in lungo e in largo nei generi che affluiscono nell'americana, ma, al tempo stesso, di scrivere grandi canzoni country, riconnettendosi alla tradizione del brand. 
Il quintetto originario di Austin, Texas, non molla di un centimetro, e dopo quel gioiellino di Cheap silver and solid country gold si ripete con questo One to grow on, cui basta l'opener Paycheck to paycheck, un travolgente honky tonk, per attirare l'ascoltatore nella rete e tenercelo per le nove tracce e i trentadue minuti dell'opera. 

Il country, il folk degli stati americani del sud, fino, come detto, all'americana, si sa, si fonda su temi esistenziali, relazioni burrascose, stati di solitudine, malinconia, derive personali, il tutto annaffiato da riferimenti al bere e alla frequentazione di honky tonk bar (pensateci, ormai solo le canzoni di questo genere citano ancora, negli anni 20, il jukebox), tuttavia, dentro questa narrazione, i MATM spiccano per suggestione e senso delle liriche, e, pur oscillando tra introspezione (la bellissima Growin' pains; Rainy day) e spensieratezza (Hour on the hour; Social drinkers), mantengono una costante di evocativa malinconia, un disagio del vivere che sembra non avere soluzione. 
Una capacità non comune nell'affollato panorama country americano che, a mio avviso, posiziona la band sul podio delle migliori degli ultimi anni.


giovedì 10 febbraio 2022

KK's Priest, Sermons of the sinner (2021)

 


Una decina di anni dopo l'uscita dai Judas Priest (formazione con la quale era dall'esordio Rocka-Rolla del 1974) e l'inevitabile codazzo di carte bollate quando la band oppose un rifiuto alla sua richiesta di rientrare nei ranghi, KK Downing esordisce settantenne con un progetto a suo nome. Nel farlo pesca, o, come vedremo, ci prova, a piene mani da musicisti che dalla formazione di Birmingham sono transitati. Per cui alla voce troviamo l'affidabile Tim Ripper Owens (nei JP per un paio di album nella seconda metà dei novanta, all'epoca dell'uscita di Rob Halford), mentre alla batteria la scelta iniziale era caduta su Les Binks (dietro le pelli per gli epici Stained class, Killing machine e il tour da cui è stato estrapolato lo strepitoso documento live Unleash in the East), per poi dover ripiegare su Sean Elg (Nihilist, Cage) a causa di problemi di salute del vecchio Judas. 
Alla basso e alla seconda chitarra invece musicisti fuori dal giro JP, anche se in qualche modo un collegamento con i Preti di Giuda persiste, avendo la seconda chitarra A.J. Mills militato in una band, Hostile, che vedeva tra i componenti il figlio di Ian Hill, storico bassista proprio della band di British steel.

Espletate le doverose premesse, passiamo al disco. 
In un'epoca di prepotente ritorno al sound dei primi ottanta, chiamato senza troppa originalità New Wave of Traditional Heavy Metal, con centinaia di nuove band che tentano tra alterne fortune di rifarsi a quella golden age, ci sta che chi quel suono l'ha forgiato (a detta di molti, e io condivido, furono i Judas Priest e non i Black Sabbath ad inventare l'heavy metal - pensate solo al ruolo della doppia chitarra - ) reclami un suo spazio. 
Sermons of the sinner vive quindi delle luci e delle ombre di un'operazione revivalista. Il tiro di alcuni pezzi è indubbiamente buono, come per il trittico d'apertura (dopo una breve introduzione parlata) Hellfire thunderbolt, Sermons of the sinner e Sacerodte y diablo, nel quale, a differenza di altri pareri recuperati in giro, a me non dispiacciono gli acuti di Owens, che trovo congrui alla cifra stilistica proposta. A livello di temi trattati dalle liriche si va da un oscuro occultismo ad un orgoglioso senso di appartenenza metallaro di stampo manowariano (Metal through and through, Brothers of the road, Wild and free). Anche stilisticamente emergono analogie con i Manowar oltre ovviamente alle immancabili assonanze con il gruppo madre (culminate nella conclusiva Return of the sentinel, che riprende The sentinel da Defenders of the faith, disco del 1984). I KK's Priest insomma girano bene, grazie alla potente sezione ritmica e alle sapienti cuciture chitarristiche, mentre risultano stucchevoli (e kitsch) i persistenti cori che ammiccano ai singalong da concerto. 
Le ombre dell'opera stanno tutte nell'esasperazione del "niente di nuovo sotto il sole", costante che senza dubbio contraddistingue il novanta per cento dei dischi di genere (e non solo), ma qui davvero persistente.

Ad ogni modo, anche se poco, io mi ci sono anche divertito. Sarà l'età.

lunedì 7 febbraio 2022

Il capo perfetto (2021)

Julio Blanco, ultimo proprietario dell'azienda di famiglia che da sempre produce bilance, è un padrone onnipresente nella vita della fabbrica ma anche dei suoi dipendenti, al punto da sconfinare nella loro vita privata offrendosi come mediatore all'insorgere di conflitti personali. Insomma un gentile maniaco del controllo dell'ecosistema della fabbrica. Il tutto più o meno funziona fino a quando si approssima la scadenza per l'assegnazione di un premio statale che aprirebbe la porta ad importanti contributi economici statali e, contemporaneamente,  i problemi deflagrano. A quel punto ad emergere sono il lato oscuro e l'assenza di scrupoli di Blanco.

Il capo perfetto non è l'irresistibile commedia evocata da qualche claim pubblicitario, il film viaggia piuttosto dentro un buon equilibrio dolceamaro, tra il grottesco, il dramma e la commedia. Insomma robe in cui noi italiani eravamo maestri e che, purtroppo, non sappiamo più fare. Ovviamente gran parte della riuscita del film va ascritta alla prova di un Javier Bardem totalmente inedito, che si misura in maniera straordinaria in un ruolo che richiede misura e naturalezza. Nel comportamento del boss Blanco/Bardem c'è ben poco di "perfetto" e nel definire i lavoratori della sua fabbrica come la sua famiglia c'è la stessa enorme ipocrisia che capita di vivere quotidianamente in tanti posti di lavoro, così come nell'allupamento verso le giovani stagiste c'è tanto dei vizi della classe imprenditoriale corrente e passata. 

Il film ha un buon ritmo, magari qualche forzatura mirata ad accentuare la parte comica (la figura dello scioperante solitario e il suo rapporto con il guardiano della fabbrica), ma nel terzo atto il regista Fernando Leòn de Aranoa (Perfect day, Escobar - Il fascino del male), attraverso la messa in scena delle "soluzioni" individuate da Blanco per risolvere i tanti casini, mette ogni cosa al suo posto, avviando la pellicola ad una conclusione tragica ma carica di amara ironia.