lunedì 19 aprile 2021

It's never too late to mend: Galrand Jeffreys, Escape artist (1981)


Proseguo con i miei opportuni recuperi andando a ripescare un artista, forse più noto ed apprezzato dai grandi musicisti che dal pubblico, che in oltre cinquant'anni di carriera ha pubblicato "solo" una dozzina di dischi di studio, con una modalità di rilascio di nuovo materiale evidentemente ancora legata al momento di ispirazione e non al principio di saturazione del mercato.

Garland Jeffreys nasce a Brooklyn nel '43, da una coppia di genitori di origine afro/portoricana e, di conseguenza, vive in pieno le battaglie per l'emancipazione dei neri dei sessanta. Tuttavia, sebbene maturi una forte coscienza politica in quell'ambito, la sua non è una storia che si radica esclusivamente dentro il filone "black power" perchè, al contrario delle fonti di ispirazione di tanti artisti afroamericani suoi coetanei, la sua guida artistica gira attorno a Lou Reed (conosciuto nell'ambito dell'Università di Syracuse) e ai Velvet Underground. Dopo aver suonato nell'album di esordio di John Cale del 1969, l'anno dopo arriva anche il momento del suo debutto eponimo. Escape artist esce cinque dischi dopo, siamo nel 1981, restando, ancora oggi (Garland, pur centellinando le proprie uscite è ancora in attività), il suo disco più noto.

Ascoltare per la prima volta questo lavoro, dopo aver letto della sua biografia è un'esperienza straniante. Infatti, laddove ti aspetti contaminazioni di un certo tipo (black music, Velvet Underground, sperimentazione), ti trovi invece al cospetto di uno stile che spazia agevolmente dal pop al rhythm and blues; dal rock ai ritmi jamaicani. Insomma un'esperienza tutta da godere, nel momento in cui si entra in sintonia con essa e con il fatto che al termine di una canzone non sai assolutamente cosa ti aspetti con la successiva.

Certo, se vogliamo trovare delle analogie con i big ones, quella con lo stile di Elvis Costello è piuttosto evidente, anche se, per esempio, la Modern lovers che apre il lavoro potrebbe tranquillamente appartenere al repertorio più commerciale di Billy Joel, non fosse per un certo retrogusto intellettuale che la permea. Così come per R.O.C.K. ci si manifesta il sound di John Mellencamp (che, casualità, qualche anno dopo inciderà R.O.C.K. in the U.S.A.) e la bellissima Mystery kids, con i suoi "stop and go" profuma un pò dello Springsteen della prima svolta rock. 
L'album, dieci tracce, anche se nella versione CD la tracklist è allungata a quattrodici pezzi grazie alla presenza di un EP (Escapedes) posto in coda, lascia molto spazio anche ai ritmi caraibici, evidentemente una comfort zone per Garland, che asseconda il trattamento a cui gli Specials prima e i Clash poi hanno sottoposto dub, ska e reggae. Queste influenze emergono inizialmente con Christine (altro hit) per affondare decisamente il colpo con Graveyard rock, e deflagrare nelle canzoni dell'EP aggiuntivo, con tre pezzi su quattro che rivendicano a gran voce la loro provenienza giamaicana (Lover's walk, Miami Beach, We the people). E pensare che, ironia della vita, in questo melting pot di stili ed ispirazioni, il successo commerciale più rilevante di Jeffreys, 96 Tears, arriva grazie ad una cover della misconosciuta band "? And The Mysterians".

La lista di session men/ospiti nel disco è pressochè infinita ed eterogenea, a dimostrazione del rispetto che l'artista godeva in quel momento nella scena newyorkese. A titolo non esaustivo troviamo infatti, oltre alla produzione di Bob Clearmountain, i due tastieristi dell'allora E Street Band, il mai troppo compianto Danny Federici e Roy Bittan, i backing vocals di Lou Reed, Nona Hendrix, David Johansen; Michael e Randy Bracket ai fiati, Adrian Belew (Zappa, Bowie, Talking Heads) alla chitarra, e mi fermo qui, perchè per gli altri c'è sempre wikipedia.

Un disco che immagino conoscano non in moltissimi, e che quindi potrebbe essere un'entusiasmante sorpresa, nonostante magari la pecca di una produzione che ho trovato eccessivamente pulita e ottantiana. 

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