Strano caso, anche perchè raramente si è visto l'armamentario di tutto quello che è convenzionalmente considerato rock in Italia (da Vasco ad Agnelli passando per Pelù) prodursi in endorsement così sfacciati a favore di questi quattro ragazzi, contrapponendosi ai salotti buoni, e a quelli dei social, che invece, tendenzialmente, li stroncano.
Chi invece li attendeva senza pregiudizi alla prova del secondo lavoro, dopo il botto di Sanremo e dell'Eurofestival grazie al brano Zitti e buoni, probabilmente dovrà attendere ancora un pò. Questo Teatro d'ira vol.1 infatti non scioglie i dubbi sul reale valore del gruppo, che, quando scende dal palco (la dimensione dove evidentemente è più a suo agio dimostrando effettivamente un'attitudine e una maturità "molto poco italiana" che va ben oltre la giovane età dei componenti, in particolar modo per il frontman, Damiano) ha evidenti problemi di scrittura e creazione complessiva delle composizioni. Infatti, tolto il singolo trionfatore delle manifestazioni di cui sopra, un ottimo pezzo glam-rock, ruffiano ma ruvido, e poco altro (Coraline), il livello cala paurosamente, tra pezzi che magari vorrebbero essere punk ma appaiono scolastici (I wanna be your slave) e pattern vocali che flirtano in maniera poco convincente con il rap (Lividi sui gomiti), con un utilizzo forzato, insincero (almeno per un matusa come me) di epiteti e slang giovanilistici vari. Certo, ci sono i chitarroni e, soprattutto a queste latitudini, di questi tempi, i chitarroni fanno sempre piacere (soprattutto in ambito mainstream), nella speranza che tornino a fare "tendenza", però, ecco, senza voler fare gli snob a tutti i costi che si scandalizzano perchè i Maneskin arrivano dai talent e non si sono "sudati" la ribalta, consiglierei alla band di trovarsi songwriter e produttori artistici che gli consentano il definitivo salto di qualità.
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