La prima volta che ho sentito pronunciare il nome Deep
Purple era il 1983, in prima superiore, grazie a Lorenzo, un compagno di classe
appassionato di metal (non posso definirlo metallaro, perché esteriormente era
– eravamo – più sul nerd), che mi aggiornava sui nomi più in voga del momento e
mi riforniva di cassette C90 a tema (la più epocale delle quali fu quella che
prevedeva sul lato A Shout at the devil dei Motley Crue e sul lato B Stay hungry dei
Twisted Sister). A un certo punto l’amico mi fa, ho scoperto un gruppo un po’
vecchio che si è sciolto, ma veramente valido: i Deep Purple. Solo l'anno successivo la band si sarebbe riformata pubblicando un'altra pietra angolare: Perfect strangers. Oggi fa
sorridere che due adolescenti non avessero mai sentito parlare di un gruppo epocale che fatto la storia della musica, ma trentacinque anni fa (minchia trentacinque anni fa!) le
informazioni si tramandavano molto per via orale, non c’era il business delle
vecchie glorie e una band composta da membri che si avviavano ai quarant’anni,
ferma da quasi una decade, era acqua passata.
Curiosamente in dieci anni di vita del blog, non ho mai
recensito un album dei Deep Purple, nonostante il massivo e costante ascolto
delle formazioni storiche mark I,II e, più di recente, mark III. C’è voluto un disco del
2017, che in molti ritengono possa essere l’ultimo della band, per farmi aprire la sezione nuovo post del blog e cominciare a scrivere.
Partiamo dagli attuali componenti della band: attorno al nucleo originale
superstite (Gillan alla voce, Paice alla batteria e Glover al basso), il combo, si è ormai consolidato con Steve Morse (chitarra, nel gruppo dal 1994) e Don Airey (tastiere,
dal 2002). Sono loro che, attraverso una lunga gestazione, incidono InFinite,
album numero venti della loro discografia.
Con i suoi rimandi al rock dei settanta,
il mood del disco non può che essere classicissimo, ma al tempo stesso prende le distanze dal consueto sound chitarristico del periodo migliore della band,
investendo le tastiere (piano, keyboards, organo), che pur sono sempre state centrali nel suono DP, della
responsabilità dell'intero impianto infrastrutturale dei brani. Airey
sugli scudi dunque, senza dimenticare però Bob Ezrin, produttore dell’album e keyboards player aggiunto. Contrariamente a quanto si possa pensare (dopotutto
parliamo di una delle più importanti hard rock band di sempre) questa scelta, in piena continuità con le produzioni più recenti,
impreziosisce ulteriormente il lavoro, amalgamandosi alla perfezione con
liriche, rullate di Paice e timbro di Gillan, come dimostra l’opener Time for
Bedlam, che su un testo adattabile ad un soggetto buono per un horror dei
cinquanta (un altro tributo a quel cinema, dopo il precedente Vincent Price?) ci regala pathos a quintalate. Rispetto al precedente Now what?! , InFinite riesce in questo senso ad essere meno cerebrale e più coeso e diretto. Il che si traduce in una partenza a frusta e un lotto di brani capaci di coniugare in misura efficace classe e accessibilità, con refrain/sequenze efficacissimi, come nel caso di Hip boots, One night in Vegas, Get me outta here o Johnny's band, nella pressoché totale assenza di filler (se proprio vogliamo essere pignoli il livello scende giusto un po' su On top of the world e per la graziosa ma superflua cover di Roadhouse blues dei Doors), fino alla conclusiva Birds of prey che ha il solo difetto di durare troppo poco.
Insomma, InFinite insegna una lezione su come si può continuare a fare musica altamente dignitosa dopo cinquant'anni nel business. Chissà cosa ne pensa in proposito l'amico Lorenzo.
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